ISSN 2039-1676


04 marzo 2019 |

L’anticorruzione tra prevenzione, manette e buonsenso

Il contributo qui pubblicato è la rielaborazione della relazione tenuta dal Prof. Enrico Carloni in occasione del convegno “Corruzione e anti-corruzione. Un libro, un incontro” di presentazione del volume Corruzione e anticorruzione. Dieci lezioni, di Raffaele Cantone ed Enrico Carloni (Feltrinelli, Milano, 2018), tenutosi presso l’Università IUAV di Venezia il 28 febbraio 2019.

1. Premessa. Nella discussione italiana sul tema della corruzione, e delle strategie per il suo contenimento, troviamo interventi autorevoli, molto netti, che contestano l’utilità della prevenzione. Si tratta di linee di ragionamento che non sono isolate, ed anzi nel corso degli ultimi giorni diventano più ricorrenti. In tal senso si possono registrare voci, talvolta provenienti anche dal mondo giudiziario, secondo cui l’idea di prevenire la corruzione è “fumo negli occhi”, posto che l’unico approccio efficace è quello ex post, dell’autorità giudiziaria e di polizia che provvede a consegnare alla giustizia il funzionario corrotto. Da un’angolazione opposta, ma convergenti nei fatti, vi sono prese di posizione, anche riferibili all’ambito politico-istituzionale, che prospettano l’inutilità delle regole anticorruzione, dato che contro la corruzione “basta il buonsenso”. O la posizione di altri ancora, che probabilmente rischia di tenere insieme questi approcci apparentemente opposti, per la quale essendo in vigore la legge “spazza-corrotti” si può fare a meno di meccanismi di prevenzione.

Buonsenso e manette, insomma, come via italiana all’anticorruzione.

 

2. La via della prevenzione e i suoi critici. Da tempo, d’altra parte, la strategia di prevenzione della corruzione sviluppatasi a partire dalla legge 190 del 2012 e irrobustitasi nel 2014, che ha il punto di emersione più evidente nell’azione dell’Autorità nazionale anticorruzione, l’ANAC, è sottoposta da tempo a critiche, non sempre invero particolarmente argomentate.

Ora, si può discutere dell’efficacia ed utilità di ogni singola previsione e di ogni singolo meccanismo che va a comporre il sistema italiano di prevenzione della corruzione, a partire dal ruolo e dall’azione dell’Autorità nazionale anticorruzione. È vero che l’Italia ha guadagnato sedici posizioni in circa un quadriennio nelle classifiche di “corruzione percepita”, da quando i cittadini hanno cominciato a vedere che ci sono organismi dello Stato che cercano di contenere in modo sistematico il malcostume, affiancandosi e non sovrapponendosi agli interventi della magistratura, ma l’argomento può essere considerato per più ragioni non risolutivo (anche se confortante). Ed è anche vero che i dati indicano che le amministrazioni dopo un faticoso apprendistato cominciano a sapersi muovere meglio nelle procedure previste dal codice dei contratti: il che suggerisce di procedere con aggiustamenti e miglioramenti, e completamenti, non con continui cambiamenti della normativa. Ma in Italia spesso si preferisce l’inaugurazione alla manutenzione, lo diceva già Longanesi. Così come è vero che i piani anticorruzione delle amministrazioni sono redatti in modo sempre migliore e più consapevole, dopo una prima fase in cui l’adempimento era stato vissuto da alcuni in termini puramente formalistici.

A ben vedere, però, il discorso è in parte diverso: la critica viene mossa non tanto (o non solo) al modo in cui viene portata avanti la prevenzione, ma complessivamente (e in modo più radicale) alla stessa valenza della prevenzione.

Un discorso che, se proiettato in un ambito diverso da quello della corruzione, apparirebbe con evidenza indifendibile: come dire che la salute dei cittadini passa solo dalla cura delle patologie e non anche da strategie di prevenzione, controlli periodici, stili di vita, e così via. O che il buon funzionamento dei nostri sistemi informatici passa solo per l’intervento di tecnici una volta che il sistema operativo va in blocco o denuncia la presenza di virus (ché sarebbe inutile prevedere un programma antivirus o un firewall). O che la sicurezza di un cantiere passa per un rapido intervento delle ambulanze in presenza di un infortunio, e non anche dalla predisposizione delle misure che possono contenere il rischio rispetto alla caduta di oggetti dall’alto o di ferite agli arti. Non caschi o scarpe anti-infortunistiche, o formazione specifica, ma più ambulanze, più rapide nell’intervento, nell’eventualità che, evidentemente mancando di “buonsenso”, un operaio si possa fare male. Per tacere del fatto che la prevenzione della corruzione è la prima strategia suggerita a livello globale dalla Convenzione ONU contro la corruzione, od il fatto che è su questa che puntano le strategie anticorruzione più recenti di gran parte dei paesi europei. O del fatto che non è affatto vero che l’Italia è l’unico paese con una autorità anticorruzione, quasi che questa scelta fosse una “eccentricità” nazionale: con funzioni e nomi diversi troviamo autorità anticorruzione un po’ dappertutto, tranne che (è vero) nei paesi nelle migliori posizioni nelle classifiche rispetto al problema della corruzione. E, tanto per dire, quella francese è stata istituita anche prendendo a riferimento l’Autorità italiana.

 

3. Il “rischio” corruzione e come gestirlo. Proprio nel momento in cui in ogni ambito rinveniamo sempre più sistemi avvolgenti attenti alla “prevenzione”, alle regole di default e di design che allontanano da un rischio prevedibile (così per la privacy, la sicurezza sul lavoro, e così via), nel contesto della corruzione, e per contenerla, si reputa, senza che sorgano immediate obiezioni, che la prevenzione sia inutile.

La corruzione è “infortunio della virtù”, e forse non è così peregrina l’idea che gli infortuni possano essere evitati, intervenendo là dove si avverte il rischio che si verifichino: se c’è un passaggio non protetto tra i ponteggi e ci sono stati feriti, si può evitare un rischio concreto con una semplice misura di messa in sicurezza; se il rischio discende da situazioni di conflitto di interessi del commissario di concorso si può intervenire ex ante per evitarlo, o rendere più trasparente una procedura se il rischio sta nella sua opacità. O, altrimenti, lasciare andare al suo destino questa procedura, rimettendoci all’eventuale intervento della magistratura che arresterà il funzionario che avrà approfittato (come era possibile accadesse) del suo ruolo nel rapporto con i propri interessi.

Il problema non è solo teorico, ma assolutamente pratico: quanti casi di corruzione vengono scoperti tra quelli che si realizzano? L’1 per cento? Il 5 %? E chi garantisce i diritti delle persone nell’altro 99 per cento dei casi? E, ancora, è efficiente un sistema che garantisce i diritti, perché di questo si tratta quando si parla dell’azione delle pubbliche amministrazioni (il diritto a competere in condizioni di parità, a veder valutato il mio merito, a fruire dei servizi cui ho diritto), solo ad anni di distanza grazie all’azione, eventuale e non prevedibile a priori, di un soggetto esterno?

Se entriamo nell’ottica della prevenzione possiamo immaginare una prospettiva diversa, che certo ci chiama tutti in causa, a partire da ciascuna amministrazione, passando per il ruolo di “controllore” che con la trasparenza si affida a ogni cittadino, o per quello di “vedetta” che attraverso il whistleblowing si riconosce a tutti i dipendenti pubblici, nella quale però l’episodio di corruzione cessa di essere un “accidente”, un infortunio di fronte al quale restiamo critici, attoniti, ma in ultima istanza disarmati.

Nell’ottica della prevenzione, l’episodio di corruzione finisce per svolgere un ruolo paradossalmente positivo, perché è di insegnamento, ci traumatizza ma ci ammaestra, in termini organizzativi. Ci rivela le pecche, e spiega dove dobbiamo migliorare il nostro piano di prevenzione: un episodio capitato ad un’amministrazione analoga alla nostra ci fornisce un indirizzo, un episodio che colpisce la nostra ci ammonisce ad innalzare il livello di attenzione e rafforzare le misure di prevenzione.

Questo, in una strategia che nel disegno italiano passa anzitutto per il ruolo, il protagonismo, di ogni pubblica amministrazione: è dentro ogni amministrazione che, sulla base degli indirizzi forniti dall’ANAC, si elabora un piano di prevenzione della corruzione, mediante il quale la corruzione diventa l’infortunio da evitare, intervenendo là dove ci sono rischi, costruendo barriere e presidiandole, barriere costruita da sobri per proteggerci nel momento in cui potremmo non esserlo. Qui il buonsenso è decisivo, come lo è l’onestà, la sincerità, nel vedere e riconoscere i problemi che abbiamo davanti, e la responsabilità nell’affrontarli. Una procedura fatta in modo non controllato, i rapporti di tipo professionale o l’eccessiva confidenzialità, la presenza di interessi di propri parenti toccati dalla decisione, quelle attività in cui si sono verificati problemi: i “rischi” sono intorno a noi, vanno riconosciuti e gestiti. Un lavoro complesso, di mappatura dei processi, valutazione del rischio, approntamento delle misure adeguate a gestire il rischio.

 

4. Costruire un “buon” sistema di prevenzione. Un lavoro delicato, tutt’altro che semplice, di difficile valutazione: o meglio, del quale è relativamente facile valutare il fallimento (se le inchieste mostrano il verificarsi di episodi di corruzione, con l’effetto però di indurci a migliorare) ma non altrettanto il successo. Un lavoro complesso, non privo di possibili controindicazioni: la misura di prevenzione sbagliata può risultare inutile, o addirittura dannosa. E non possiamo appesantire la struttura amministrativa con un eccesso di misure, che non ne migliorano l’integrità e ne peggiorano l’efficacia, pena (anche) la stessa perdita di legittimazione dei meccanismi di prevenzione. Come mandare un muratore sulle impalcature di un cantiere vestito da palombaro, o con la maschera antigas.

Però, se ben fatte, ed in un processo di miglioramento continuo e costante come è per tutti i processi di qualità, le misure di prevenzione possono risultare utili e funzionali, non solo per l’imparzialità ma anche per l’efficienza: perché imparzialità e buon andamento sono non a caso associati, e non in contrapposizione, già nel testo della Costituzione; perché inefficienza e corruzione viaggiano a braccetto ed è spesso difficile cogliere la seconda, confusa e intrecciata con la prima. Una misura di rotazione del personale ben studiata aumenta le competenze dei dipendenti e impedisce lo sclerotizzarsi di rapporti con interessi che possono condizionare l’azione amministrativa. Può però al contrario produrre perdite eccessive di competenza, o persino essere utilizzata per rimuovere un funzionario “scomodo”. La regolazione di una procedura, o la previsione di un meccanismo di controllo, riduce il senso di impunità ma garantisce anche in modo più chiaro i destinatari dell’azione che hanno di fronte criteri chiari e regole trasparenti. Se fatta male, o adottata al momento sbagliato, una misura può però avere un effetto controproducente.

È l’amministrazione, nel suo complesso, a dover costruire le proprie regole, guidata dall’ANAC, in modo partecipato ed informato, e consapevole. Troppo spesso questo lavoro è lasciato a pochi uffici, o addirittura al solo responsabile di prevenzione della corruzione: salvo poi svegliarci quando le misure adottate si rivelano poco funzionali rispetto alla specificità del nostro servizio, delle attività che caratterizzano la nostra struttura.

Non si tratta, però, di dire che il sistema italiano di prevenzione della corruzione è il migliore possibile, o che l’azione dell’Autorità chiamata ad applicarlo è esente da difetti. La posizione dei responsabili di prevenzione della corruzione è troppo debole, così come lo è la loro protezione quando la loro azione li pone in contrasto con l’amministrazione di appartenenza. Il fatto di aver affidato in modo pressoché totale all’ANAC il compito di definire la strategia nazionale anticorruzione (con il Piano nazionale) fornisce un alibi ed una scusa di disimpegno, o di mancanza di approccio strategico e complessivo, al sistema politico. Mancano parti, alcuni istituti sono assolutamente migliorabili. Però il senso di un “percorso” che prova a condurci su un sentiero con meno ombre è presente, e sarebbe auspicabile non perdere la strada.

 

5. Note conclusive. Parlare di strategie di prevenzione chiama in causa e responsabilizza tutti noi, per prime le amministrazioni e coloro che operano all’interno di esse. È una strategia sfidante, che fa di ciascun ufficio pubblico un presidio potenziale di legalità. Che riconosce un ruolo attivo, positivo, all’amministrazione.

Diverso il discorso che prescindendo dalla prevenzione affida la tenuta del sistema e dei diritti degli individui all’indole di ciascuno e in ultima istanza all’azione salvifica della magistratura: un’azione importante, decisiva spesso, ma cui deve affiancarsi un lavorio costante sull’amministrazione, sui suoi meccanismi organizzativi, le sue procedure, i doveri dei suoi dipendenti, l’efficacia della sua azione.

Proprio l’irrobustimento degli strumenti in mano all’autorità giudiziaria contribuisce a rendere preziosa l’azione di prevenzione: che agevola l’efficacia della repressione, perché può consentire alla magistratura di operare su un contesto meglio in grado di fare emergere “anomalie”; che può approfittare della spinta al miglioramento che discende dalle inchieste che svelano criticità e patologie persistenti; ma che può anzitutto consentire di evitarne l’intervento: permettendo alle organizzazioni di costruire le condizioni che meglio le mettano in grado di ridurre il “rischio” e quindi l’azione giudiziaria che potrà seguirne.

Un percorso non facile, un lavoro che richiede impegno e costanza, ed anni se non decenni per produrre effetti importanti.