ISSN 2039-1676


2 maggio 2019 |

Il ‘canto del cigno’ del Tribunale per l’ex Yugoslavia: la Camera d’Appello converte in ergastolo la condanna contro Radovan Karadzic

Camera d’Appello del Tribunale Penale Internazionale per i crimini commessi in ex Yugoslavia, sentenza emessa il 20 marzo 2019

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1. Radovan Karadzic è l’ex Presidente della Repubblica serba di Bosnia (c.d. ‘Republika Srspka’), nonché, sino al 1996, Comandante in capo delle forze armate serbo-bosniache. Fu arrestato il 21 luglio 2008, dopo 13 anni di latitanza, e consegnato al Tribunale Penale Internazionale per i crimini commessi in ex Yugoslavia (‘International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia’, ovvero ‘I.C.T.Y.’). Il processo di primo grado è iniziato il 26 ottobre 2009 e si è concluso, dopo l’escussione di 586 testi e l’ammissione di 11.500 prove documentali, il 24 marzo 2016, con la condanna a 40 anni di reclusione. Il leader serbo-bosniaco era accusato di genocidio, crimini contro l'umanità e violazioni delle leggi e dei costumi di guerra.

 

2. Il 20 marzo scorso, la Camera d’Appello dell’I.C.T.Y. ha rovesciato la sentenza di condanna di primo grado, limitatamente alla misura della pena detentiva imposta. La condanna a 40 anni di reclusione è divenuta condanna all’ergastolo.

Per comprendere il ragionamento seguito dai giudici dell’Aja nell’adozione di una riforma così netta in punto sanzionatorio, è bene anzitutto ricapitolare quali fossero i capi di imputazione di cui doveva rispondere Karadžić davanti al Tribunale Internazionale.

 

3. L’ex Presidente della Republika Srpska era anzitutto accusato di aver commesso due ipotesi di genocidio, ex art. 4 dello Statuto I.C.T.Y. La prima ipotesi era quella relativa alla deportazione ed all’omicidio di massa avvenuto nell’area di Srebrenica nel luglio 1995. La seconda aveva ad oggetto lo sterminio, nel 1992, dei bosniaci di fede musulmana nelle altre Municipalità bosniache. L’imputato veniva condannato per il primo capo di genocidio, inerente al massacro di Srebrenica, ed assolto per la seconda accusa, che lo vedeva imputato per il crimine più grave previsto dallo Statuto I.C.T.Y., per il massacro nelle Municipalità nel 1992. L’assoluzione non viene ribaltata in appello e l’unica accusa per genocidio sopravvissuta alla mannaia del primo grado resta quella per i tremendi fatti di Srebrenica. Quanto ai capi relativi ai crimini contro l’umanità, ex art. 5 dello Statuto (capi 3, 4, 5, 7 e 8 dell’Atto d’Accusa del Procuratore) e a quelli inerenti le violazioni delle leggi e consuetudini di guerra, ex art. 6 dello Statuto (capi 6, 9, 10 e 11), occorre preliminarmente sottolineare che l’organo inquirente internazionale aveva concepito la sussistenza di ben quattro ‘imprese criminali di gruppo’ (le c.d. ‘ Joint Criminal Enterprises’ o ‘J.C.E.’, una sorta di associazioni a delinquere finalizzate alla consumazione di crimini internazionali, crimini-scopo indi dettagliatamente descritti nei singoli capi di imputazione) di cui Karadžić avrebbe fatto parte. Le sentenze del Tribunale non distinguono la pena comminata per la partecipazione alla impresa criminale di gruppo da quella relativa alla commissione dei singoli crimini-scopo, né dettagliano le pene erogate, in cumulo, per ciascuna imputazione riconosciuta come fondata. La giurisprudenza dell’Aja si è attestata nel senso di prevedere solo una pena definitiva e complessiva, motivata sul fondamento dei criteri di cui all’art. 24 dello Statuto I.C.T.Y., e determinata, in assenza di cornici edittali per i singoli reati statutari, sia sulla scorta di pronunce già rese, per analoghe ipotesi penali, nelle giurisdizioni degli Stati che componevano la ex-Yugoslavia, sia sulla base della gravità oggettiva dei crimini e delle condizioni personali inerenti la persona del colpevole, oltre che, quale criterio seguito di fatto, sul dato storico-giudiziario dei precedenti dello stesso Tribunale internazionale.

La prima ‘impresa criminale di gruppo’ (cosiddetta ‘OverarchingJoint Criminal Enterprise) vedeva quale obiettivo la rimozione permanente di cittadini bosniaci di etnia musulmana e di etnia croata dai territori rivendicati quali ‘serbi’ nella Bosnia Erzegovina degli anni 1991-1995. Karadžić è stato riconosciuto colpevole, quale associato a tale impresa di gruppo, dei fatti di persecuzione, sterminio, deportazione, trasferimento forzato e omicidio, quali crimini contro l’umanità, nonché di omicidio quale violazione delle leggi e delle consuetudini di guerra. In relazione a questa associazione criminale, come già detto, invece Karadžić è stato prosciolto dall’accusa di genocidio per assenza del necessario dolo specifico.

La seconda ‘impresa criminale di gruppo’ (cosiddetta ‘Sarajevo’ Joint Criminal Enterprise) aveva come scopo la diffusione, in un’ottica sistematica e mediante l’utilizzo sistematico di cecchini e di una campagna indiscriminata di bombardamenti, del terrore sulla popolazione civile della città di Sarajevo tra il maggio 1992 e l’ottobre 1995, epoca di cessazione delle ostilità in Bosnia. In relazione a questa seconda ipotesi associativa, la sentenza di primo grado, confermata in appello, vedeva la condanna del Presidente della Repubblica serbo-bosniaca per omicidio, quale crimine contro l’umanità, nonché per omicidio, imposizione del terrore ed attacco illegittimo contro la popolazione civile, quali violazioni delle leggi e degli usi di guerra.

Radovan Karadžić è stato anche condannato, ora in via definitiva, per la terza, e forse più grave ‘impresa criminale di gruppo’ (la cosiddetta ‘Srebrenica’ Joint Criminal Enterprise), quella votata ad eliminare fisicamente tutti i Bosniaci di etnia musulmana dall’enclave di Srebrenica nell’estate del 1995. Per questa ipotesi associativa, la responsabilità è stata confermata in appello non solo, come ricordato, per genocidio, ma anche per persecuzione, sterminio e trasferimento forzato, quali crimini contro l’umanità, ed omicidio, quale violazione delle leggi o consuetudini di guerra. Inoltre, sempre in relazione a questa J.C.E., Karadžić è stato condannato anche per ‘responsabilità da comando (o del superiore)’ in relazione ai crimini di persecuzione e sterminio, quali crimini contro l’umanità, e omicidio, quale violazione delle leggi o usi di guerra.

Infine, Karadžić ha anche partecipato ad una quarta associazione a delinquere (la cosiddetta ‘Hostages’ Joint Criminal Enterprise), avente come programma criminoso il sequestro di personale N.A.T.O. al fine di impedire alle forze occidentali di condurre attacchi aerei contro obiettivi serbo-bosniaci. Qui la condanna ha riguardato la presa di ostaggi come violazione delle leggi o usi di guerra.

 

4. I giudici di appello prendono in esame questi ed altri elementi di fatto, soltanto in parte oggetto della sentenza di condanna a 40 anni di reclusione in primo grado. Nonostante il giudizio di secondo grado dinanzi all’I.C.T.Y. non determini un nuovo processo, e si atteggi dunque come gravame limitatamente devolutivo, sulla scorta delle obiezioni formulate dalle parti, la Camera di Appello (par. 749 della sentenza) attribuisce a se stessa un ampio margine di discrezionalità in ordine proprio alla valutazione della gravità del crimine e delle circostanze che investono la persona del responsabile, quali parametri, ex artt. 24 dello Statuto e 101(B) del Regolamento di Procedura e Prova, per la determinazione della pena da infliggere in concreto. Sotto questo profilo, i giudici analizzano, a partire dal par. 751 del provvedimento, i motivi di appello sollevati sia da Karadžić che dalla Procura avverso la decisione di primo grado. Rigettano nella quasi totalità i motivi di impugnazione del condannato. In particolare pongono in non cale quello concernente la supposta immunità che avrebbe dovuto discendere dalla sottoscrizione del c.d. ‘Holbrooke Agreement’, un accordo firmato tra il diplomatico e mediatore statunitense, Richard Holbrooke, e Radovan Karadžić, affinché quest’ultimo, dietro la promessa della non perseguibilità dei suoi crimini dinanzi al Tribunale internazionale, si ritirasse dalla vita pubblica, come effettivamente fece nel luglio 1996, e determinasse così una cessazione delle ostilità in Bosnia e Croazia. I giudici di appello riconoscono la rilevanza dell’abbandono dei pubblici uffici, da parte dell’ex Presidente della Republika Srspka, come un elemento essenziale per il ripristino della pace negli stati balcanici a metà degli anni 90. E tuttavia non considerano tale atteggiamento del condannato una circostanza utile a incidere sulla portata della pena per i crimini consumati quando ancora rivestiva il ruolo presidenziale. In particolare richiamano una decisione del 12 ottobre 2009 della stessa Camera di Appello, che negava ogni rilevanza, in punto di mancato esercizio della giurisdizione penale, all’Accordo con Holbrooke. Karadžić viene inoltre considerato non colpevole in relazione a pochi episodi, peraltro di minima consistenza nell’economia globale delle accuse, concernenti la prima ipotesi associativa, vale a dire la c.d. ‘Overarching J.C.E.’, prima descritta.

 

5. La parte più interessante della sentenza di appello è contenuta nei paragrafi 766-776, laddove i giudici compiono una approfondita analisi dei motivi di impugnazione della Procura in relazione alla adeguatezza e proporzionalità della pena inflitta. Il giudizio della Camera è tranchant: la condanna a 40 anni di detenzione è “incoerente” se comparata con le altre pronunce già emesse dal Tribunale in relazione a crimini analoghi a quelli commessi da Karadžić. Il riferimento è ai casi Tolimir, Beara, Popović e Galić, i quali sono stati tutti condannati all’ergastolo, per quelli che gli stessi giudici di appello definiscono come fatti di reato costituenti “solo una frazione delle condotte poste in essere da Karadžić”. Manca, in sostanza, una radice di ragionevole proporzionalità tra i giudicati pronunciati avverso i quattro serbo-bosniaci già richiamati e la sentenza di primo grado a 40 anni di detenzione contro Karadžić. Particolarmente interessante è la comparazione con i quattro casi di ergastolo già inflitti.

Tolimir era il Vice-Comandante ed il Capo dell’intelligence e della sicurezza nello staff dell’esercito serbo-bosniaco (c.d. ‘V.R.S.’), diretto subordinato di Ratko Mladić (Comandante in capo delle forze armate della Republika Srspka e già condannato all’ergastolo in primo grado dal Tribunale per l’ex Yugoslavia il 22 novembre 2017). Anche Tolimir, secondo il Tribunale, ha contribuito nell’ipotesi associativa contestata a Karadžić, in relazione ai fatti di genocidio, sterminio e persecuzione consumati a Srebrenica (c.d. ‘Srebrenica J.C.E.’). Il ‘fine pena mai’ veniva giustificato proprio sulla scorta del provato apporto prestato da Tolimir in relazione alla deportazione dei cittadini bosniaci di sesso maschile e di religione musulmana dalle città di Srebrenica e  Žepa, nel luglio 1995, ed al successivo assassinio dei deportati.

Beara era invece il vice di Tolimir, Capo dell’Amministrazione per la Sicurezza dell’esercito serbo-bosniaco. Secondo la sentenza di condanna in primo grado, Beara incarnava la ‘forza primaria che ha guidato il gruppo genocidiario, una figura centrale nell’organizzazione e nell’esecuzione dello sterminio di Srebrenica’, così giustificando la massima pena possibile per il suo contributo associativo nell’impresa criminale responsabile della deportazione e dell’assassinio dei bosniaci appartenenti all’enclave.

Proseguendo nella discesa della catena di comando serbo-bosniaca a Srebrenica, i giudici di appello notano che anche Popović, Capo della Sicurezza dei famigerati ‘Drina Corps’ dell’esercito di Mladić a Srebrenica, ha ricevuto la condanna all’ergastolo. Egli rivestiva un ruolo chiave nell’orchestrazione e nella messa in atto del genocidio, partecipando “con vigore” a quasi ogni singolo passaggio dell’operazione di sterminio.

Galić era, de jure, il Comandante dei c.d. ‘Sarajevo-Romanija Corps’ (‘S.R.K.’), unità dell’esercito serbo-bosniaco, ricevendo ordini direttamente da Karadžić e Mladić. Egli non è stato condannato all’ergastolo per i fatti di Srebrenica. In primo grado aveva ricevuto una condanna a 20 anni di reclusione, per aver partecipato agli atti di violenza, il cui scopo primario era quello di diffondere il terrore sulla popolazione civile, ordinando la campagna di bombardamento e cecchinaggio sugli abitanti di Sarajevo tra il 10 settembre 1992 ed il 10 agosto 1994. In appello la pena viene aggravata, commuta in ergastolo, sottolineando un abuso nella discrezionalità sanzionatoria da parte dei giudici di prime cure ed una gravità sottostimata dei crimini commessi da Galić.

È evidente, notano i giudici di appello, come da un lato Tolimir, Beara e Popović fossero membri dell’impresa criminale di gruppo di Srebrenica e come, dall’altro, Galic facesse parte dell’associazione a delinquere per i fatti di Sarajevo. Ed è ormai provato che tutti e quattro i condannati avessero un ruolo chiave nelle fila dell’esercito o dell’amministrazione della Repubblica serba di Bosnia, che vedeva proprio in Karadžić la massima autorità riconosciuta, sia a livello militare che politico. Il fatto che Tolimir, Beara, Popovic e Galic siano stati condannati all’ergastolo per aver prestato il proprio contributo materiale e morale in soltanto una delle quattro associazioni criminali contestate a Karadžić, in uno al dato della relazione subordinata dei quattro al Presidente della Repubblica, prova la inadeguatezza, in punto di proporzionalità sanzionatoria in concreto della pronuncia di prime cure. L’impugnazione della Procura è allora riconosciuta come fondata: la gravità straordinaria della responsabilità di Karadžić e la sua partecipazione, in posizione di assoluta leadership, ai crimini più gravi, efferati e di “sistematica crudeltà”  consumati lungo tutto il periodo temporale del conflitto in Bosnia Erzegovina, insieme al giudizio comparativo di evidente fallacia in relazione alle condanne di Tolimir, Beara, Popović e Galić, rende irragionevolmente e palesemente ingiusta la condanna a 40 anni di reclusione e giustifica l’inflizione dell’ergastolo. L’unica pena appropriata alle circostanze del caso concreto, secondo i giudici di appello, è la condanna alla detenzione a vita.

 

6. La pronuncia di appello rappresenta il sigillo di una pagina estremamente significativa, dal punto di vista sia storico che giuridico, nella storia del diritto penale internazionale: la pagina scritta dal Tribunale O.N.U. per l’ex Yugoslavia, ormai alle sue battute finali.

Sul piano giuridico, come è noto, l’esistenza della teoria dell’impresa criminale di gruppo, quale forma di responsabilità plurisoggettiva nata per definire le forme di partecipazione personale ai crimini internazionali da parte dei vertici militari e politici in contesti di gravi e sistematiche violazioni commesse su amplissima scala, è ormai, anche a seguito della più recente giurisprudenza della Corte Penale Internazionale, un retaggio del passato. La pronuncia definitiva del caso Karadžić costituisce probabilmente un ‘canto del cigno’ finale dell’avventura della Joint Criminal Enterprise nel proscenio internazional-penalistico.

E tuttavia, è sotto il profilo della ‘custodia della memoria’ che questa decisione gioca il suo ruolo fondamentale. I giudici dell’impugnazione hanno ricondotto a razionalità e proporzione la delibazione di primo grado, illuminando uno squarcio spaventoso sui fatti di Sarajevo e di Srebrenica e sottolineando la responsabilità di colui che è stato il deus ex machina ed il direttore di orchestra della politica di persecuzione, deportazione etnico-religiosa e sterminio selettivo negli stati centrali della ex Yugoslavia degli anni novanta del secolo scorso. Una responsabilità che rischiava forse di apparire evanescente ed edulcorata dopo la pronuncia di primo grado. Una responsabilità penale e storica che rischiava di esser rappresentata come quella, evidentemente falsata, di un Capo politico remoto e distratto, lontano e nolente rispetto alle piane di Srebrenica, inondate dal sangue dei cittadini dell’enclave, e agli attacchi indiscriminati ai civili inermi dalle colline che circondano Sarajevo.