ISSN 2039-1676


04 giugno 2011 |

Tesi di laurea "compilativa" e "plagio" di lavori altrui

Cass., Sez. III, 13.4.2011 (dep. 12.5.2011), n. 18826, Pres. Squassoni, Est. Ramacci, Ric. D'Auria

 
1. La sentenza affronta due questioni. Nel risolvere la prima, la Cassazione dichiara l’integrazione del reato di falsa attribuzione di un lavoro altrui (art. 1, l. n. 475/1925) da parte di aspiranti al conferimento di diplomi, uffici o titoli, quando in sede di laurea un candidato presenti la discussione di una tesi asseritamente di natura compilativa, la quale, salvo minime variazioni o aggiunte, riproduca in maniera pressoché identica un lavoro da altri svolto precedentemente sullo stesso tema. La S.C. precisa, in particolare, che la mancanza di originalità può connotare una tesi di taglio sperimentale, quando le indagini ivi rappresentate non siano state svolte dal candidato, ma può viziare anche un elaborato compilativo, allorché le somiglianze con un lavoro altrui con cui l’imputato sia potuto venire a contatto, siano tali e tante da privare la tesi di qualunque apporto personale.
 
 
2. Il reato di falsa attribuzione di un lavoro altrui per il conseguimento di diploma di laurea era stata contestato per avere l’imputato presentato, al termine di un corso di specializzazione in medicina e chirurgia, una tesi costituente la copiatura, seppure con minime variazioni, di analogo lavoro redatto alcuni anni prima da altro candidato a conclusione dello stesso corso di specializzazione in quella medesima Facoltà ed avente stesso titolo, stesso svolgimento, stesso indice e stessa bibliografia.
 
L’art. 1 della legge 19.4.1925, n. 475 punisce chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri.
 
Da questo addebito l’imputato si è difeso eccependo la natura meramente compilativa del lavoro, come tale orientato a riproporre dati e contenuti elaborati da altri studiosi, tant’è che neanche la commissione di laurea aveva rilevato l’identità di svolgimento della tesi con opere redatte in precedenza. Stante la natura compilativa della tesi, dovrebbero anzi esserne valorizzati gli elementi innovativi, come espressione di un personale apporto dell’autore all’argomento trattato. La somiglianza di impostazione andrebbe poi imputata alla prassi invalsa presso la stessa Facoltà di fornire al candidato elaborati precedentemente redatti sullo stesso tema come modello di svolgimento del proprio lavoro.
 
I giudici di merito, sia in primo che in secondo grado, hanno rigettato le difese ed hanno al contrario rilevato i notevoli elementi d’identità tra gli elaborati a confronto, rivelati in particolare dall’indice, dalla suddivisione in capitoli e paragrafi, dalla distribuzione grafica del testo (in particolare per l’uso del grassetto, del corsivo e dei riporti a capo), dalla formulazione del testo, dalle conclusioni, dalle modalità di citazione, dalla identica bibliografia (salvi due richiami), dalle tabelle finali, dai casi clinici esaminati. Minime e trascurabili apparivano le differenze, rinvenibili nell’anteposizione di un’introduzione di carattere discorsivo e sociologico, nell’aggiunta di poche righe in alcune parti del lavoro, nella sostituzione di qualche parola.
 
Particolarmente significativa appariva la trattazione dei casi clinici, per il fatto che gli stessi venivano presentati come frutto di osservazione diretta dell’imputato, nonostante fossero datati a diversi anni addietro. Da quei riferimenti i giudici traggono l’importante conclusione che la tesi presentata dall’imputato non avesse realmente inclinazione compilativa, ma fosse piuttosto di taglio sperimentale. E allora l’enumerazione dei molteplici e concordanti elementi d’identità della tesi con l’elaborato precedente assume un ben diverso significato, inducendo a ritenere integrato il reato.
 
 
3. La Corte di Cassazione ritiene non censurabile il ragionamento effettuato dai giudici di merito. Dopo aver ricordato che la fattispecie della l. n. 475/1925 mira a tutelare l’interesse alla genuinità degli elaborati presentati alla commissione incaricata di procedere alla valutazione dei candidati (cfr. Cass. Sez. V, 22.2.1989, Mazzocca, in Cass. pen., 1991, 130; Cass. Sez. III, 4.6.1984, Pilade, in Cass. pen., 1986, 584) e che per falsa attribuzione del lavoro altrui s’intende non solo la presentazione di un elaborato materialmente redatto da terzi, ma anche quello redatto dal candidato, seppur copiandolo da altri lavori (Cass. Sez. III, 20.12.1978, Dell’Anno, in Cass. pen., 1980, 1211), i giudici di legittimità ritengono coerente escludere la natura compilativa di un elaborato che presenti l’esame di casi clinici. E quando quello stesso lavoro realmente di taglio sperimentale propone come frutto di proprio esame diretto un’indagine che l’imputato non può materialmente aver svolto, esce pienamente confermata l’assoluta mancanza di originalità del lavoro.
 
Ma la Suprema Corte si spinge più in là e precisa che, se anche il lavoro presentato dal candidato in sede di laurea avesse davvero rivestito un taglio compilativo, non per questo l’imputato sarebbe andato esente da addebito, una volta riscontrata una così diffusa identità di impostazione del suo lavoro con quello di un precedente candidato in quella stessa Facoltà. Anche una tesi compilativa dovrebbe essere infatti connotata – secondo la S.C. – da una elaborazione critica dei dati acquisiti, il cui confronto serva a verificarne l’attendibilità e a trarre conclusioni che offrano un contributo scientifico autonomamente apprezzabile. Quantunque compilativa, la tesi non può consistere nella mera riproduzione grafica di un elaborato altrui, seppure con modeste aggiunte che non incidono minimamente sull’impianto complessivo del testo.
 
 
4. Non constano precedenti sulla specifica questione. La decisione appare nondimeno condivisibile. Il principio di cui fa applicazione la Corte, e in forza del quale è la complessiva mancanza di originalità del lavoro a denotare l’integrazione del reato, trova corrispondenza con quanto deciso da Cass., Sez. VI, 21.6.2010, n. 32368, in Guida dir., 2010 (49) 76 e in Riv. pen., 2010, 1248, la quale ha riconosciuto l’esistenza del delitto nel caso di copiatura integrale del testo di una sentenza, pur puntualmente citata, nel corso della redazione di una prova concorsuale, dato che anche quell’operazione denota la mancanza di autonoma elaborazione logica del candidato (v. anche Cass. Sez. II, 10.12.1984, Chiodi, in Cass. pen., 1986, 997).
 
 
5. Risolvendo la seconda questione, la Suprema Corte statuisce che, quando il giudice di primo grado, nel pronunciare condanna per il reato in epigrafe, dichiari solo implicitamente la falsa attribuzione del lavoro altrui omettendo di assumere i conseguenti provvedimenti di cancellazione del titolo indebitamente conseguito e di pubblicazione della sentenza di condanna, pur obbligatoriamente prescritti dalla legge, tali provvedimenti non potranno essere assunti dalla Corte di Appello, se non vi sia stata specifica impugnazione da parte del Pubblico Ministero relativamente alla mancata dichiarazione della falsità dell’attribuzione del lavoro al candidato.
 
L’art. 5 della legge 19.4.1925, n. 475 stabilisce che nei procedimenti per i reati ivi contemplati, qualora sia accertato il fatto illecito, ne debba essere dichiarata l’esistenza in sentenza anche se non si debba ulteriormente procedere oppure non si possa dichiarare la condanna. La sentenza di condanna o che dichiara l’esistenza del fatto di reato ordina la cancellazione del provvedimento indebitamente conseguito in virtù della falsa attribuzione del lavoro altrui. La sentenza di condanna è poi affissa in tutte le Università della Repubblica quando il reato riguardi il conseguimento di esami universitari.
 
Dalla pronuncia in esame risulta che per prima la Corte d’Appello aveva disposto la cancellazione, obbligatoriamente prescritta dalla legge, del diploma di laurea conseguito mediante presentazione della tesi falsamente attribuita. Perciò l’imputato ha lamentato la violazione del divieto di reformatio in pejus stabilito dall’art. 597, terzo comma, c.p.p. Nessuno dei giudici di merito ha poi ordinato la pubblicazione della sentenza per affissione presso le sedi di Università.
 
La Corte di Cassazione osserva che l’art. 5 della l. 475/1925 rimette l’adozione dei provvedimenti accessori a modalità attualmente definite dall’art. 425, ultimo comma, e dall’art. 537 c.p.p. Alla luce di tali ultime disposizioni, l’adozione di quei provvedimenti, per quanto obbligatoriamente stabilita dalla legge (cfr. Cass. Sez. V, 22.2.1989, Mazzocca, cit.), presuppone che la falsità della attribuzione del lavoro al candidato sia espressamente dichiarata dal giudice nel dispositivo della sentenza.
 
Invece una tale dichiarazione è mancata in entrambi i pronunciamenti dei giudici di merito, i quali solo implicitamente hanno dato per esistente la falsità dell’attribuzione della paternità della tesi. Mancava quindi la condizione perché in particolare la Corte territoriale disponesse la cancellazione del diploma di laurea. Indiscutibile perciò, secondo la S.C., il vizio di legittimità della decisione impugnata che conduce all’annullamento della stessa sul punto.
 
Siccome, però, l’art. 537 c.p.p. consente l’impugnazione della falsità anche autonomamente dal capo che contiene la decisione sull’imputazione, e poiché né il pubblico ministero né l’imputato hanno eccepito la mancata dichiarazione di falsità da parte dei giudici di merito, la Cassazione conclude non potersi rimediare al rilevato profilo d’illegittimità, sì che non rimane che annullare senza rinvio.