ISSN 2039-1676


15 luglio 2019 |

La Corte costituzionale ritiene non irragionevole la norma del TULPS che individua nella condanna per alcuni reati una preclusione assoluta al rilascio del porto d’armi

Corte cost., sent. 20 marzo 2019 (dep. 9 maggio 2019), n. 109, Pres. Lattanzi, Red. Viganò

Per leggere il testo della sentenza, clicca qui.

 

1. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 109 del 20 marzo 2019, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 43, primo comma, lett. a) del TULPS, sollevate, in riferimento all’art. 3 Cost., dal Tar Toscana e dal Tar Friuli-Venezia Giulia (dichiarando inammissibile un’ulteriore questione correlata), nella parte in cui tale norma “prevede un generalizzato divieto di rilasciare il porto d’armi alle persone condannate a pena detentiva per il reato di furto senza consentire alcun apprezzamento discrezionale all’Autorità amministrativa competente”.

 

2. In breve, l’art. 43 r.d. 773/1931 (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), nella versione antecedente alle modifiche apportate recentemente dal D. Lgs. 104/2018, prevedeva un generale divieto di rilasciare il porto d’armi (nonché l’obbligo di revocarlo, in caso di rilascio già avvenuto) alle persone condannate a pena detentiva per una serie di reati (indicati nel I comma, tra cui il furto), non consentendo all’Autorità di pubblica sicurezza alcuna valutazione discrezionale. In via residuale, in caso di condanna per reati diversi da quelli contemplati dal I comma dell’art. 43 TULPS (o di condanna a pena non detentiva anche per tali reati), l’autorità amministrativa aveva invece (e ha tuttora) un potere di valutazione discrezionale.

Sulla disposizione in esame si era da tempo sviluppato un contrasto all’interno della giurisprudenza amministrativa, in merito alla possibilità di consentire all’amministrazione di valutare discrezionalmente la possibilità di concedere o meno il porto d’armi anche ai soggetti condannati per reati ostativi indicati dal comma 1 dell’art. 43 in esame, in presenza di determinate condizioni[1].

In particolare, secondo un orientamento “evolutivo”, l’automatismo preclusivo operante per questi reati verrebbe meno in caso di intervenuta riabilitazione ai sensi dell’art. 178 c.p., in modo da consentire all’Autorità amministrativa di tener conto non solo del reato commesso, ma anche della condotta tenuta nel tempo dall’interessato e di ogni elemento utile a far luce sulla personalità dell’interessato (tra cui appunto la riabilitazione)[2].

Tuttavia, secondo un più recente orientamento di segno restrittivo, maggiormente aderente al dettato normativo dell’art. 43 TULPS vigente al tempo dei fatti in questione, la licenza di porto d’armi non potrebbe essere concessa – e quella rilasciata andrebbe ritirata – in caso di condanna per uno dei reati “ostativi” indicati dal comma 1 dell’art. 43, anche in presenza di riabilitazione[3], escludendosi pertanto qualsiasi tipo di valutazione discrezionale per tali reati.

Da ultimo, ritenendo di aderire al più recente e restrittivo orientamento, che non consente quindi alcuna discrezionalità in capo all’Amministrazione nel rilascio del porto d’armi a soggetti condannati per determinati reati (escludendo a tal proposito anche la rilevanza della riabilitazione), il Tar Toscana, con l’ordinanza n. 79/2018, e il Tar Friuli-Venezia Giulia, con le ordinanze 147 e 148 del 2018, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale relativamente all’art. 43, comma 1 lett. a) TULPS, ritenendo tale disposizione in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza-ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. sotto tre profili:

i) la disposizione censurata non consentirebbe di attribuire alcun rilievo a circostanze successive alla condanna che attestino l’affidabilità dell’interessato (come la riabilitazione, il lungo tempo trascorso dalla condanna, l’ininterrotta concessione della licenza di porto d’armi senza che si sia verificato alcun abuso da parte del suo titolare);

ii) la disposizione sancirebbe irragionevolmente un automatismo ostativo anche rispetto a fatti di reato di particolare tenuità, per i quali oggi, ai sensi dell’art. 131-bis c.p., non vi sarebbe alcuna condanna;

iii) il meccanismo preclusivo stabilito dalla disposizione censurata darebbe luogo a una disciplina irragionevolmente più severa di quella apprestata da altre disposizioni che attribuiscono effetti favorevoli alla riabilitazione intervenuta dopo la condanna (è il caso ad esempio della revoca della patente di cui all’art. 120 del Codice della strada[4]).

 

3. La Consulta tuttavia non ha ritenuto persuasive tali argomentazioni e ha dichiarato le questioni non fondate, rilevando che – come già sostenuto in passato dalla stessa Corte costituzionale (sent. n. 440/1993[5]) – “il porto d’armi non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, eccezione al normale divieto di portare le armi e che può divenire operante soltanto nei confronti di persone riguardo alle quali esista la perfetta e completa sicurezza circa il ‘buon uso’ delle armi stesse”[6]; inoltre, “dalla eccezionale permissività del porto d’armi e dai rigidi criteri restrittivi regolatori della materia deriva che il controllo dell’autorità amministrativa deve essere più penetrante rispetto al controllo che la stessa autorità è tenuta ad effettuare con riguardo a provvedimenti permissivi di tipo diverso, talora volti a rimuovere ostacoli a situazioni giuridiche soggettive di cui sono titolari i richiedenti”.

L’inesistenza nel nostro ordinamento di un diritto di portare armi – ad avviso del Giudice delle Leggi – comporta “un ampio margine di discrezionalità in capo al legislatore nella regolamentazione dei presupposti in presenza dei quali può essere concessa al privato la relativa licenza, nell’ambito di bilanciamenti che – entro il limite della non manifesta irragionevolezza – mirino a contemperare l’interesse dei soggetti che richiedono la licenza di porto d’armi per motivi giudicati leciti dall’ordinamento e il dovere costituzionale di tutelare, da parte dello Stato, la sicurezza e l’incolumità pubblica (…): beni, questi ultimi, che una diffusione incontrollata di armi presso i privati potrebbe porre in grave pericolo, e che pertanto il legislatore ben può decidere di tutelare anche attraverso la previsione di requisiti soggettivi di affidabilità particolarmente rigorosi per chi intenda chiedere la licenza di portare armi”.

In conclusione, la Corte costituzionale ritiene che la disciplina in esame, pur particolarmente severa, non sia manifestamente irragionevole nel sancire il divieto assoluto della licenza di porto d’armi anche nei confronti di un soggetto condannato per furto e successivamente riabilitato, dal momento che “tale delitto comporta pur sempre una diretta aggressione ai diritti altrui, che pregiudica in maniera significativa la sicurezza pubblica e al tempo stesso rivela una grave mancanza di rispetto delle regole basilari della convivenza civile da parte del suo autore”.

Peraltro, come viene osservato nella sentenza, il legislatore – con il recente D. Lgs. 104/2018 – ha deciso di declinare diversamente il bilanciamento tra gli interessi in gioco, optando per una attenuazione della rigidità della preclusione, valorizzando l’intervenuta riabilitazione del condannato. Alla luce di questa riforma, non sarebbe utile una restituzione degli atti al giudice a quo per una nuova valutazione delle questioni alla luce dello ius superveniens (come ipotizzato dall’Avvocatura di Stato), in quanto la modifica normativa non potrebbe essere applicata nei giudizi pendenti di fronte a tale giudice; infatti – osserva la Consulta – “in virtù del principio tempus regit actum, una normativa sopravvenuta rispetto all’adozione dei provvedimenti amministrativi impugnati non può spiegare effetti nei giudizi di impugnazione dei provvedimenti stessi”[7]. Pertanto, i ricorrenti dovranno ripresentare l’istanza, che verrà valutata secondo la nuova formulazione normativa, la quale prevede ora margini di apprezzamento discrezionale dell’Autorità amministrativa in caso di condanna a qualsiasi reato, in presenza della riabilitazione dell’interessato.

 

* * *

 

4. La Corte costituzionale, con la sentenza in commento, mostra come non tutti gli automatismi imposti dalla legge, aventi conseguenze limitative o sanzionatorie, siano necessariamente irragionevoli.

Occorre anzitutto rilevare che la pronuncia non prende posizione circa la natura sanzionatoria o meno del diniego/revoca del porto d’armi ex art. 43 TULPS[8].

Al riguardo può rilevarsi che, già prima dell’intervento della Consulta, la dottrina e la giurisprudenza amministrative si erano interrogate sulla natura della revoca del porto d’armi, concludendo nel senso di ritenerlo un atto di ritiro di autorizzazione precedentemente concessa (e non di un ordine amministrativo, come il differente divieto di detenere armi)[9]. Non sembrerebbe dunque trattarsi di una vera e propria sanzione, posto che tale misura non consegue direttamente ad un illecito penale o amministrativo (come accade per le pene accessorie), ma deriva invece da uno status del soggetto (quello di essere pregiudicato per determinati reati), che non offre più garanzia di un sufficientemente affidamento ad essere titolare del porto d’armi, in esito ad una valutazione prognostica dell’autorità di pubblica sicurezza: parrebbe quindi trattarsi di una misura amministrativa volta a garantire la sicurezza e l’incolumità pubblica.

4.1. Ad ogni modo, la Corte costituzionale, nel valutare la legittimità dell’art. 43, comma 1 TULPS, si è concentrata sulla ragionevolezza dell’automatismo che contiene.

In precedenza, la stessa Corte, pronunciandosi relativamente al diniego di rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno allo straniero condannato per determinati reati[10], aveva rilevato che “gli automatismi procedurali sono basati su una presunzione assoluta di pericolosità e devono quindi ritenersi arbitrari laddove non rispondono a dati di esperienza generalizzati, quando cioè sia agevole formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa”.

La Consulta, tuttavia ritiene implicitamente questo precedente, evocato dal Tar rimettente, non dirimente nel caso di specie. Invero, per dare giustificazione alla sopravvivenza di tali automatismi, rivestono importanza determinante i beni da tutelare che vengono in rilievo e il loro bilanciamento: nel caso di specie, da un lato c’è l’interesse del cittadino ad ottenere la licenza di portare armi, che si qualifica come un’autorizzazione amministrativa di carattere ampliativo, che rimuove il generale divieto vigente per i civili di possedere e portare armi; dall’altro lato troviamo invece l’interesse dello Stato a tutelare la sicurezza e l’incolumità pubblica – beni di rilevantissimo livello – che possono essere messi in pericolo dalla diffusione di armi presso soggetti che non offrano piena garanzia di utilizzarle adeguatamente e legittimamente. Nel caso di specie, secondo la costante giurisprudenza amministrativa, confermata da quella costituzionale, la scelta del legislatore è legittima poiché l’interesse della collettività viene correttamente bilanciato con quello del singolo cittadino: nel giudizio di bilanciamento tra questi interessi è destinato infatti a prevalere quello della collettività, alla quale dev’essere garantita l’incolumità[11]. L’interesse alla concessione del porto d’armi è una posizione giuridica di interesse legittimo, i cui confini sono tracciabili dal legislatore nei limiti della non manifesta irragionevolezza, ma con un’ampia discrezionalità in merito a limiti e restrizioni che si possono imporre: di fronte a quest’area discrezionale, la Consulta correttamente riconosce il ruolo (e la libertà) del legislatore di compiere scelte in senso più o meno restrittivo[12].

Diverso è invece il caso in cui gli automatismi imposti dalla legge finiscano col comprimere diritti dell’individuo, specialmente quelli garantiti dalla Carta costituzionale (come, ad esempio, la libertà di movimento, con riferimento al ritiro della patente conseguente a condanna per reati in materia di stupefacenti), di fronte ai quali il potere di intervento statale risulta essere molto più limitato: in tal caso, la presenza di automatismi appare molto più problematica poiché la rilevanza costituzionale dei diritti in questione mal si concilia con le presunzioni aprioristiche della legge e pertanto risulterà maggiore il rischio di censure di legittimità costituzionale, sotto il profilo della ragionevolezza.

 

 


[1] Sul punto si consenta il rinvio a D. Sibilio, Sulla condanna penale come motivo ostativo al rilascio del porto d'armi e causa di revoca del medesimo, nonché sugli effetti della riabilitazione, in questa Rivista, 26 aprile 2018; nonché, D. Sibilio, Il Consiglio di Stato sugli effetti della condanna alla pena pecuniaria sostitutiva rispetto alla concessione e al rinnovo del porto d’armi, in questa Rivista, fasc. 6/2017, pp. 317 ss.

[2] In tal senso, Cons. Stato sez. III, 4 marzo 2015, n. 1072; 10 luglio 2013, n. 3719.

[3] Così orientato il Cons. Stato, sez. I, parere 11 luglio 2016, n. 1620; sez. III, sent. 9 novembre 2016 n. 4660 e 31 maggio 2016, n. 2312.

[4] Questa disposizione – osserva il Tar rimettente – “riconosce espressi effetti favorevoli di carattere amministrativo ai provvedimenti riabilitativi, pur a fronte della commissione di reati di significativa offensività”; inoltre, sull’art. 120 C.d.S. è di recente intervenuta la Consulta, con sent. 22/2018, in merito all’automatismo della revoca; sul tema, cfr. S. Felicioni, Revoca prefettizia della patente di guida per condanne in materia di stupefacenti: la misura può essere applicata retroattivamente perché non è una sanzione penale ma è illegittima la sua applicazione automatica, in questa Rivista, fasc. 3/2018, pp. 242 ss.

[5] Questa sentenza aveva dichiarato incostituzionali gli artt. 11 e 43 TULPS nella parte in cui ponevano a carico dell’interessato l’onere di provare la sua buona condotta.

[6] In tal senso si è anche solidamente orientata la giurisprudenza amministrativa: Cons. Stato, sez. VI sent. 20 luglio 2006 n. 4604, sez. IV 8 maggio 2003 n. 2424, Tar Campania, Salerno, sez. I 7 dicembre 2011 n. 1944, Tar Piemonte, sez. II 4 novembre 2011 n. 1149; cfr. D. Lamanna Di Salvo – G. Raimondo, La natura della revoca del porto d’armi, in Giurisprudenza di merito, II, p. 1639.

[7] In tal senso, Corte cost. sentenze n. 7 del 2019 e 30 del 2016.

[8] Tuttavia, con riferimento all’art. 120 C.d.S., la Consulta aveva escluso la natura sanzionatoria (e quindi la natura penale) della revoca prefettizia della patente, pur ritenendo illegittimo l’automatismo applicativo; cfr. Felicioni, Revoca prefettizia della patente di guida cit. pp. 242 ss.

[9] Cfr. Lamanna Di Salvo – Raimondo, La natura della revoca del porto d’armi cit. pp. 1644-1645; Tar Sicilia, Palermo, sez. II 7 marzo 1991 n. 69.

[10] Corte cost. n. 202/2013, che ha dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 5, comma 5 D. Lgs. 286/1998 (TU immigrazione).

[11] Così, Tar Emilia-Romagna, sez. II 3 aprile 2008 n. 1935; cfr. Lamanna Di Salvo – Raimondo, La natura della revoca del porto d’armi cit. p. 1641.

[12] Del resto il legislatore – con il sopravvenuto d.lgs. 104/2018 – ha mostrato di far uso di tale discrezionalità, optando per una minore rigidità dell’automatismo in questione.