ISSN 2039-1676


24 settembre 2019 |

La Corte costituzionale "salva" l’art. 576 c.p.p.: legittima la facoltà per la parte civile di impugnare il proscioglimento ai soli effetti civili

Corte cost., sent. 3 aprile 2019 (dep. 12 luglio 2019), n. 176, Pres. Lattanzi, Red. Amoroso

Per leggere il testo della sentenza, clicca qui.

 

1. Con la sentenza n. 176 del 2019 la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 576 c.p.p. sollevate dalla Corte d’Appello di Venezia con ordinanza del 9 gennaio 2018[1]. Il giudice rimettente aveva dubitato della costituzionalità della disposizione censurata laddove consente alla parte civile di impugnare la sentenza dibattimentale di proscioglimento dinanzi al giudice penale, anziché al giudice civile, seppure ai soli effetti della responsabilità civile.

 

2. Come noto, nella sua formulazione originaria, l’art. 576 del codice di rito abilitava la parte civile ad impugnare le sentenze ivi indicate (incluse le sentenze dibattimentali di proscioglimento) «con il mezzo previsto per il pubblico ministero».

Tale ultimo inciso è stato soppresso dall’art. 6 della legge n. 46 del 2006 (c.d. legge Pecorella) per svincolare il potere di impugnazione della parte civile da quello del pubblico ministero, al quale, invece, l’art. 1 della stessa legge (prima di essere dichiarato incostituzionale da Corte cost., sent., 24 gennaio 2007, n. 26) precludeva di appellare le sentenze di proscioglimento[2].

Peraltro, il riformatore non si era premurato di specificare con quale mezzo la parte civile avrebbe potuto censurare la decisione ritenuta sfavorevole.

Nel 2007 le Sezioni Unite hanno sancito la sopravvivenza alla l. n. 46 del 2006 dell'appello della sola parte civile[3], smentendo il diverso orientamento che dall’art. 568 cpv. c.p.p. argomentava la possibilità di esperire soltanto il ricorso per cassazione.

Tale decisione è stata avallata dalla Corte costituzionale, la quale ha invocato la giurisprudenza di legittimità, ormai consolidata, per dichiarare manifestamente infondate – quando non inammissibili – le molteplici questioni di costituzionalità sollevate rispetto all’art. 576 del codice di rito[4].

 

3. I dubbi di conformità alla Costituzione che hanno indotto la Corte veneziana a sottoporre nuovamente l’art. 576 c.p.p. allo scrutinio del Giudice delle leggi connotano di novità la relativa questione.

La premessa interpretativa alla base delle precedenti rimessioni era che la riforma del 2006 avesse privato la parte civile della facoltà di appellare la sentenza di proscioglimento.

Secondo la Corte d’Appello di Venezia, invece, «attribuire oggi al giudice penale, ed in particolare alla Corte d'appello penale, anziché al giudice civile, la cognizione delle impugnazioni della sola parte civile avverso le sentenze di proscioglimento costituisce scelta in atto manifestamente irrazionale e oggi del tutto priva di alcuna giustificazione»[5].

In sostanza, la sopravvenuta irrazionalità (e dunque incostituzionalità) della norma sarebbe conseguenza del progressivo aggravio dei carichi pendenti dinanzi alle sezioni penali delle corti d’appello. Una prima causa di ciò andrebbe ravvisata nella devoluzione a queste ultime dei giudizi di secondo grado, che, nella vigenza del sistema pretorile (soppresso con d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51), appartenevano alla competenza del tribunale.

Vi avrebbe poi concorso la scarsa appetibilità dei riti alternativi, i quali, ben lungi dalle previsioni ambiziose del riformatore del 1988, non hanno portato alla auspicata deflazione dei processi penali.

Infine, i tempi processuali si sarebbero drammaticamente dilatati per effetto della recente codificazione nell’art. 603 c.p.p. dell’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello, a fronte della impugnazione della sentenza di proscioglimento da parte del pubblico ministero[6].

Nella prospettiva del giudice a quo, la convergenza di questi fattori avrebbe reso «manifestamente irrazionale quell'allora (1987) fisiologicamente discrezionale scelta del legislatore» di attribuire la competenza per la domanda di impugnazione ai soli effetti civili al giudice penale d’appello.

L’art. 576 c.p.p. si porrebbe, dunque, in contrasto con l’art. 3 Cost., «perché l’attuale attribuzione altera significativamente, con palese assenza di razionale giustificazione, lo svolgimento della essenziale propria e naturale funzione del giudice penale dell’impugnazione per la deliberazione nel merito sul contenuto della pretesa punitiva pubblica»; e violerebbe anche l’art. 111, secondo comma, Cost., nonché i «principi costituzionali di efficienza ed efficacia della giurisdizione», per la irragionevole dilatazione della durata dei processi, determinata dalla cognizione «su meri interessi civili, per la quale vi è già sede autonoma adeguata efficace e propria».

 

4. La Corte costituzionale ha dichiarato infondate le censure della Corte veneta ritenendo «del tutto coerente con l’impianto del codice di rito che, una volta esercitata l’azione civile nel processo penale, la pronuncia sulle pretese restitutorie o risarcitorie della parte civile avvenga in quella sede: pertanto, anche quando l’unica impugnazione proposta sia quella della parte civile non è irragionevole che il giudice d’appello sia quello penale con la conseguenza che le regole di rito siano quelle del processo penale».

Il percorso argomentativo della Corte prende le mosse dalla considerazione del carattere accessorio proprio delle pretese restitutorie e risarcitorie azionate dalla parte civile nel giudizio penale.

Detta connotazione emerge chiaramente dall’art. 538 c.p.p., in forza del quale il giudice decide sulla domanda di restituzioni e risarcimento del danno soltanto quando pronuncia sentenza di condanna.

L’eventualità di non conseguire una pronuncia sulle proprie pretese rappresenta un rischio che la persona offesa non può trascurare nella valutazione sull’opportunità di esercitare l’azione civile fuori della sua sede naturale: soprattutto tenuto conto dell’efficacia di giudicato che assiste la sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile, ai sensi dell’art. 652 c.p.p.

Si tratta di una delle conseguenze, legate alla funzione di interesse pubblico di accertamento e repressione dei reati svolta dal processo penale che – secondo il tradizionale insegnamento della Corte, ribadito nella sentenza in commento – l’azione civile è destinata a subire per via della sua posizione ancillare[7].

L’art. 538 c.p.p., fulcro del sistema normativo nel quale si colloca l’art. 576 c.p.p., incontra, però, delle deroghe. Una è posta dall’art. 578 c.p.p., che impone al giudice dell’impugnazione di decidere sugli effetti civili anche laddove pervenga ad una dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione o amnistia.

Altrettanto eccezionale risulta la norma di cui all’art. 622 c.p.p., a mente del quale, fermi gli effetti penali della sentenza, la Corte di cassazione, se si limita ad annullare le statuizioni relative all’azione civile, rinvia, quando occorre, al giudice di appello civile competente per valore, anche se la sentenza impugnata è inappellabile.

La Corte rimettente aveva invocato la disposizione in parola per dimostrare che il sistema attuale già prevede una translatio del procedimento dinanzi al giudice civile allorché la vicenda penale si sia esaurita lasciando spazio alla sola controversia civile.

Sul punto, i giudici di Palazzo della Consulta precisano che il disposto dell’art. 622 c.p.p. «trova la sua giustificazione nella particolarità della fase processuale collocata all’esito del giudizio di cassazione, dopo i gradi (o l’unico grado) di merito, senza che da ciò possa desumersi l’esigenza di un più ampio ricorso alla giurisdizione civile per definire le pretese restitutorie o risarcitorie della parte civile che abbia, fin dall’inizio, optato per la giurisdizione penale»[8].

Del resto, la legittimazione della parte civile ad impugnare la sentenza di proscioglimento non è illimitata.

La Corte evidenzia, infatti, come lo stesso art. 576 c.p.p. condizioni l’ammissibilità dell’impugnazione al presupposto che essa abbia ad oggetto una sentenza «pronunciata nel giudizio», ovvero all’esito di giudizio abbreviato quando la parte civile ha consentito all’abbreviazione.

In virtù del principio generale sancito dall’art. 568, comma 4, c.p.p., è altresì necessario che la parte civile impugni la sentenza di proscioglimento per conseguire un risultato utile o evitare un pregiudizio che altrimenti le deriverebbe.

 

5. Alla stregua del canone dell’interesse all’impugnazione, la giurisprudenza di legittimità – ricorda il Giudice delle leggi – ha limato ulteriormente la fattispecie di cui all’art. 576 c.p.p. statuendo, ad esempio, che la parte civile è priva di interesse ad impugnare la sentenza di non doversi procedere per difetto di querela, dato il carattere meramente processuale della pronuncia, perciò irrilevante agli effetti dell’azione civilistica[9].

Analogamente, si è escluso che la parte civile possa avere interesse ad impugnare una sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato fondata sulla condotta riparatoria dell’imputato. In questo caso, infatti, l’accertamento del giudice penale riguarda la sola congruità del risarcimento offerto agli effetti dell’estinzione del reato: pertanto – non rivestendo autorità di giudicato nel giudizio civile – non può arrecare alcun pregiudizio al danneggiato[10].

Del pari inammissibile è stata, infine, ritenuta l’impugnazione della parte civile avverso una sentenza di assoluzione per intervenuta abrogazione del reato, giacché la statuizione sugli interessi civili presuppone una sentenza di condanna[11].

Viceversa, le Sezioni Unite hanno ammesso che il giudice di appello, investito dell’impugnazione della sentenza di assoluzione ad opera della sola parte civile, possa condannare l’imputato al risarcimento in favore di quest’ultima, anche laddove debba essere dichiarata l’estinzione del reato per prescrizione o per amnistia. Ciò in quanto l'art. 576 c.p.p. conferisce al giudice dell'impugnazione il potere di decidere sulla domanda risarcitoria, pur in mancanza di una precedente statuizione sul punto[12].

Da ultimo, le stesse Sezioni Unite hanno enunciato il principio di diritto per cui la parte civile può impugnare la sentenza che abbia dichiarato l’estinzione del reato caduto in prescrizione per contestare la fondatezza di tale declaratoria[13].

 

6. L’articolata disamina del contesto normativo e giurisprudenziale di riferimento conduce la Corte a concludere che, diversamente da quanto opinato dal giudice rimettente, non è irragionevole che il procedimento prosegua dinanzi al giudice penale anche quando ad impugnare sia la sola parte civile.

Infatti, «il giudice dell’impugnazione, lungi dall’essere distolto da quella che è la finalità tipica e coessenziale dell’esercizio della sua giurisdizione penale, è innanzi tutto chiamato proprio a riesaminare il profilo della responsabilità penale dell’imputato, confermando o riformando, seppur solo agli effetti civili, la sentenza di proscioglimento pronunciata in primo grado»[14].

Quanto, invece, al «lamentato aggravio nei ruoli d’udienza dei giudici penali dell’impugnazione in una situazione di elevati carichi di lavoro – denunciato, pur non senza ragione, dalla Corte rimettente», esso rileva sul diverso piano delle scelte discrezionali del legislatore, al quale compete «approntare sufficienti risorse personali e materiali».

 

 


[1] Corte d’App. Venezia, ord. 9 gennaio 2018, in questa Rivista, 13 marzo 2018, con nota di S. Martelli, Alla Consulta l’art. 576 c.p.p.: continuano le ostilità sul fronte tra azione civile e processo penale.

[2] La versione originaria del testo venne rinviata dal Capo dello Stato alle Camere sul rilievo che, in forza del riferimento dell’art. 576 c.p.p. al «mezzo previsto per il pubblico ministero», l’esclusone della facoltà per il pubblico ministero di appellare le sentenze di proscioglimento avrebbe compromesso la possibilità per la parte civile di far valere le proprie pretese all’interno del processo penale.

[3] Cass., Sez. Un., 29 marzo 2007, n. 27614, in C.E.D. Cass., rv. 236539.

[4] Cfr. Corte cost., ord., 6 febbraio 2007, n. 32, con la quale la Corte ha dichiarato la manifesta inammissibilità della q.l.c. dell’art. 576 c.p.p. in ragione della «assenza, allo stato, di un “diritto vivente”» che, al pari dei giudici a quibus, ritenesse soppresso il potere di impugnazione della parte civile. Dello stesso tenore Corte cost., ord, 18 gennaio 2008, n. 3; Id., ordd., 16 maggio 2008, nn. 154 e 155; Id., ord., 20 giugno 2008, n. 226.

[5] Così l’ordinanza di rimessione a p. 4.

[6] Al riguardo, viene anche richiamata la giurisprudenza di legittimità inaugurata dalle sentenze Cass., Sez. Un., 28 aprile 2016, Dasgupta, in C.E.D. Cass., rv. 267486 e Cass., Sez. Un., 19 gennaio 2017, Patalano, in questa Rivista, 8 maggio 2017, con commento di H. Belluta – L. Lupària, Ragionevole dubbio e prima condanna in appello: solo la rinnovazione ci salverà?

[7] In proposito, la Corte, citando dalla sua sentenza n. 12 del 2016, rammenta che «l’azione civile “assume carattere accessorio e subordinato rispetto all’azione penale, sicché è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dalla funzione e dalla struttura del processo penale, cioè dalle esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi”».

[8] Così il § 7 del Considerato in diritto.

[9] Cfr. Cass., Sez. Un., 21 giugno 2012 (17 settembre 2012), n. 35599, in questa Rivista, 12 novembre 2012, con nota di G. Leo, Per le Sezioni Unite la parte civile non può impugnare la sentenza di non doversi procedere per difetto di querela.

[10] Cfr. Cass., sez. IV, 15 gennaio 2015 (30 gennaio 2015), n. 4610, in C.E.D. Cass., Rv. 261875.

[11] Cfr. Cass., Sez. Un., 29 settembre 2016 (7 novembre 2016), n. 46688, in questa Rivista, 30 gennaio 2017, con nota di S. Ucci, Le Sezioni Unite della Cassazione sulle sorti delle statuizioni civili nel giudizio di impugnazione a seguito della depenalizzazione operata con i decreti legislativi n. 7 e n. 8 del 2016: un punto di arrivo?

[12] Cfr. Cass., Sez. Un, 11 luglio 2006 (19 luglio 2006), n. 25083, in C.E.D. Cass., rv. 233918. In ordine all’estensione di tale potere, il Supremo Collegio ha puntualizzato che «se [il giudice dell’impugnazione] si convince che tale giudice [ossia, il giudice di prime cure] ha sbagliato nell'assolvere l'imputato ben può affermare la responsabilità di costui agli effetti civili e (come indirettamente conferma il disposto di cui all'art. 622 cod. proc. pen.) condannarlo al risarcimento o alle restituzioni, in quanto l'accertamento incidentale equivale virtualmente - oggi per allora - alla condanna di cui all'art. 538 comma 1 cod. proc. pen., che non venne non pronunziata per errore».

[13] Cfr. Cass., Sez. Un, 28 marzo 2019 (3 luglio 2019), n. 28911, in C.E.D. Cass., rv. 275953. La Corte ha precisato che la legittimazione della parte civile ad impugnare deriva direttamente dalla previsione dell'art. 576, comma 1, cod. proc. pen. L'interesse concreto deve invece essere individuato nella finalità di ottenere, in caso di appello, il ribaltamento della prima pronuncia e l'affermazione di responsabilità dell'imputato, sia pure ai soli fini delle statuizioni civili; e, in caso di ricorso in cassazione, l'annullamento della sentenza con rinvio al giudice civile in grado di appello, ex art. 622 cod. proc. pen., senza la necessità di iniziare ex novo il giudizio civile.

[14] Così il § 7 del Considerato in diritto.