ISSN 2039-1676


27 settembre 2019 |

Anime belle e anime morte, nessuna anima salva. Requiem per DPC? Premessa

Editoriale

1. La storia di DPC, che come tutte le cose di questo modo potrebbe volgere alla sua fine, è stata una storia di un successo editoriale con pochi precedenti, ed è utile capirne le ragioni; ma la storia di DPC ha anche qualche aspetto meno luminoso, e non per questo meno interessante, di cui è necessario discutere.

Il problema su cui desidero attirare l’attenzione è un problema generale, che riguarda le regole della comunicazione pubblica del e sul diritto penale, quando essa avvenga con l’uso di media che, come DPC, hanno l’immensa capacità di diffondere in modo sistemico i propri contenuti all’intera comunità del diritto penale e sono gestiti da una persona o al più un nucleo ristretto di persone.

Nella prima parte di questo editoriale studierò due casi concreti di comunicazione, che hanno toccato DPC, la cui politicità è stata a tal punto manifesta da aver annullato il diritto, ridotto a maschera, e sulla scorta di questi due casi proverò a dimostrare i pericoli che la potenza mediatica di riviste online, come DPC, produce o può produrre in un tempo in cui la distanza tra diritto e politica tende in generale ad affievolirsi sempre più.

Muovo dalla premessa – invocata ormai talmente tante volte da essere venuta a noia – che il positivismo giuridico, d’impronta liberale, è la costruzione ideologica con la quale la cultura, a partire dal XIX secolo fino ad oggi, ha sperato di poter garantire che la dimensione conflittuale del politico nella società potesse essere neutralizzata e pacificata col diritto votato a lavorare la forma del diritto più che la sua materia.

La speranza che il diritto potesse essere neutrale si è fatta illusione.

Che i conflitti degli interessi e delle visioni del mondo siano neutralizzabili con la fiducia nella onnipotenza, razionalità e giustizia della legge, espressione della volontà del popolo sovrano, e che il processo con cui il Giudice sussume il fatto nella legge sia neutrale e imparziale operazione oggettiva, è sempre più difficile da credere vero.

Se guardiamo in faccia la realtà dobbiamo ammettere che la volontà generale che il Legislatore dovrebbe esprimere con la legge è una chimera, perché non esiste alcuna volontà generale, che la legge è sempre polisemica e ambigua, quanto almeno lo è il linguaggio che usa così come che gli interessi che prevalgono nel conflitto che sottostà alla sua produzione sono quasi sempre quelli del più forte, tant’è che i peggiori crimini contro l’umanità sono stati commessi al riparo della Legge, ritualmente approvata. 

Il Giudice poi non è la bocca della legge, ma detiene ed usa il potere di attribuire – e non semplicemente scoprire – l’un significato piuttosto che l’altro alla legge e alle sue parole, così come il Giudice non è una macchina di mera sussunzione tecnica del fatto nella fattispecie astratta, perché ha il potere di costruire il fatto – e la fattispecie – scegliendo l’uno o l’altro dei plurimi modi sempre possibili.

Se è permesso – perché non può essere vietato – al Giudice di imporre una decisione – che non ha più quegli ancoramenti oggettivi e vincolanti che prima si poteva credere –, vuol dire che la decisione non può più essere creduta neutrale nella guerra degli interessi e dei mondi di vita viventi nella società, se non al prezzo di inaccettabili ipocrisie. Da tutto quel che ho sin qui premesso, dobbiamo quindi trarre la conclusione che è in crisi il modello illuministico-liberale della spoliticizzazione, cioè dell’oggettività e imparzialità del diritto penale.

Il gap da sempre presente tra diritto e fatto si amplia e oggi, e più ancora domani, diventerà frattura. non tanto perché l’incertezza complessiva nell’universo giuridico ed empirico sia cresciuta come l’entropia, ma solo perché è sempre meno facile illudersi di aver neutralizzato il caos dei conflitti e di averli pacificati con l’ordine della legge.

La crescente indeterminatezza del diritto e la ricomparsa del politico nel giuridico sono il problema del diritto penale contemporaneo e se questa patologia sistemica viene ancora celata è perché si vuol continuare a coltivare un’ideologia un tempo illuminata, o illuminista, ma ormai spenta.

La fedeltà all’ideologia illuminista della legge crea, però, nell’attuale diritto penale, gravi ambiguità, che naturalmente hanno a che vedere con l’estensione del nullum crimen, che la giurisprudenza CEDU tenderebbe a dilatare per non dover tener fuori il diritto penale del Giudice. Ma questa estensione disturba soprattutto noi e la nostra cultura giuridica, proprio perché continuiamo a voler credere che la legge sia sempre buona e giusta e non vogliamo ammettere che il diritto penale giurisprudenziale esista, perché ammetterlo ci pare di per sé un vulnus al nullum crimen.

Se tutto questo è vero, vuol dire solo che continuiamo a preferire un’apparenza tranquillizzante ad una realtà problematica.

Dietro la questione della decisione del Giudice come fonte di diritto penale si intravede, infatti, un concetto di diritto penale reale molto diverso e più complesso di quello che abbiamo ricevuto in eredità, da sempre appiattito sulla idolatria della forma della legge.

Se il politico non si può eliminare mai del tutto dal diritto, forse bisogna allora innovare il concetto del diritto, perché faccia i conti col politico, cioè si sporchi le mani nella lotta degli interessi e dei mondi di vita, e il primo passo è smascherare ovunque possibile l’apparizione di quel politico sotto spoglie giuridiche finte.

Che il focus del diritto penale diventi il Giudice più che solo il Legislatore, è solo un guadagno, almeno in onestà intellettuale, anche solo perché il primo è reale, mentre il secondo no, è una finzione.

DPC, nei due casi di cui parlerò, con l’essersi reso strumento di (ab)uso politico, al servizio di interessi di parte, ha contribuito forse a rendere evidente un problema generale, ma non ha voluto o potuto smascherare la finzione del diritto penale oggettivo; al contrario, l’ha assecondata.

 

2. Nella seconda parte, a partire dalla constatazione del successo che DPC ha avuto, per l’impareggiabile vantaggio competitivo che l’uso di internet consente rispetto ad ogni altra rivista tradizionale di carta, dirò come intorno a DPC vedessero la luce altre riviste ad esso apparentate, da DPC a DPC Trimestrale fino a Criminal Justice Network.

La moltiplicazione delle riviste on line è stata attentamente pianificata e perseguita allo scopo di controllare il più possibile dell’intero campo da gioco del diritto penale.

DPC doveva e deve soddisfare le esigenze del pratico del diritto, con la capacità di aggiornamento in tempo reale del diritto vivente. DPC Trimestrale intendeva contribuire e intende offrire chances agli autori interessati al campo strettamente accademico. DPC e DPC Trimestrale hanno avuto un effetto sinergico l’uno sull’altro, che era stato pensato genialmente (e il merito certo non è mio) ed è durato finché chi l’ha pensato l’ha voluto e l’ha voluto fino a che gli è convenuto.

Alla fine, con l’ultimo nato Criminal Justice Network, questa volontà di influenza, che sente ormai stretti i confini nazionali, tenta di estendersi sino alla costruzione di un diritto penale transnazionale, a sua volta politico, perché orientato in ben definite direzioni, ipotizzabili esaminando chi siano i soggetti che del progetto si sono fatti sponsor e promotori, e che naturalmente non hanno affatto il dovere di essere imparziali e oggettivi.

L’effetto combinato di questa complessa partenogenesi di piattaforme online ha avvantaggiato personalmente il nucleo ristretto di chi ne ha posseduto e ne possiede il controllo operativo, e in ciò non v’è nulla di male, ovviamente. Ci sono però lati oscuri, o almeno opachi, in alcune delle complesse vicissitudini legate a DPC e ai suoi fratelli, che debbono essere chiariti, perché sulla proprietà e sul controllo di piattaforme digitali che hanno così tanto potere non debbono esistere opacità, soprattutto se in queste operazioni, e nell’uso di questo potere, è convolto chi ricopre o ha ricoperto altissime cariche dello Stato.

Quando la missione di DPC e dei suoi fratelli è diventata l’audience, essi sono diventati un’opportunità formidabile per chi li cavalcava, ma il prezzo pagato è che DPC ha lasciato nell’ombra, o meglio ha cancellato del tutto, l’altra missione – molto più pericolosa, perché mettere in discussione i dogmi è pericoloso  –, ossia il fatto che DPC dovesse progettare – o almeno cominciare a intravvedere – il diritto penale di una società in drammatica trasformazione come quella del XXI secolo.

DPC, però, nei miei intenti, proprio a questo grave e immane compito doveva dedicarsi.

 

3. “I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo” (Ludwig Wittgenstein).

Nella terza parte, provando a fare un bilancio culturale di DPC, svolgerò qualche considerazione sul fatto che il suo discorso giuridico, impegnato a rincorrere l’attualità, abbia contribuito a costruire un gergo sempre più tecnico dietro il quale vi era la scelta di non doversi occupare della cultura profonda del diritto penale.

DPC pensa come il linguaggio di chi lo fa parlare gli permette di pensare e, nel decidere la sua agenda – momento tutt’altro che imparziale e oggettivo anch’esso –, è ovvio che siano fatalmente privilegiati i problemi che sono pensabili con l’uso di quel linguaggio, proprio di un positivismo e di un normativismo giuridico formalistico stabilito come un dogma e refrattario ad ogni autocritica.

Amplissimo spazio hanno trovato in DPC problemi tecnici di funzionamento del sistema linguistico cui è stato ridotto il diritto penale, ma allo stesso tempo DPC si è reso cieco ed ha eluso quegli altri problemi, sfortunatamente quasi sempre più importanti dei primi, che stanno al fondo di ogni diritto penale, e che non possono essere trattati solo lavorando le parole della proposizione linguistica della legge.

Specialisti nei fatti della causa, non prestigiatori di tesi giuridiche”: così nel 1906, nel libello La lotta per la scienza del diritto, Hermann Kantorowicz, con lo pseudonimo di Gnaeus Flavius, parlava dei giudici e della necessità che la loro formazione uscisse dagli steccati del solo diritto penale.

Se, più di un secolo dopo (quando sotto i ponti è passata moltissima acqua nell’eterna querelle tra forma e materia del diritto, tra positivismo e normativismo e i suoi naturali nemici, il giusnaturalismo, il diritto libero o il realismo o l’ermeneutica giuridica, o il decisionismo, che negano che il diritto stia tutto nella norma positiva), pur dal mio posto di avvocato e non di professionista della scienza giuridica, non credo di macchiarmi di alcuna eresia se sostengo che DPC avrebbe dovuto aprirsi assai di più alla dimensione del fatto del diritto penale, e non arroccarsi troppo e troppo spesso in una idea di diritto fatta di rompicapi linguistici talvolta di notevole complessità tecnica, ma spesso molto meno importanti di problemi assai più profondi e accuratamente evitati.

La costruzione di un linguaggio tecnico quasi esoterico definisce forse i confini di chi è ammesso al club degli addetti ai lavori – cioè di coloro che hanno titolo a far parte di quel club e ad usare quel linguaggio –, ma alla fine rende fin troppo visibile lo scandalo della perdita della dimensione umana del diritto penale contemporaneo che si gioca ogni giorno nell’aula del processo, su un palcoscenico in cui tutti gli attori recitano la loro parte in una tragedia che eternamente va in scena e che il discorso del diritto penale di DPC nemmeno ha provato a cogliere.

Cambiare il linguaggio per spostare un po’ più in là i confini del nostro mondo. Questo DPC avrebbe dovuto provare a fare.

 

4. DPC ha assecondato una tendenza di fondo del tempo che viviamo, in cui la tecnica tende a prevaricare l’uomo e l’uomo, ammaliato dalla tecnica – anche dalla tecnica del linguaggio, che lo illude di essere oggettivo e addirittura super partes – svaluta ogni valore che a quel linguaggio non può essere piegato, producendo quella malattia dello spirito che, anche nel diritto, oggi si chiama nichilismo, che infine può facilmente degenerare in egoismo, carrierismo e volontà di potenza.

Se giustizia e verità sono diventate parole vuote nel discorso sul diritto penale che quasi ci vergogniamo a pronunciare; se, con leggerezza equivoca e servile accettiamo l’equivalenza tra diritto e giustizia che il positivismo rigoroso ci impone, accettiamo che la giustizia sia espulsa dal discorso; se l’interpretazione della legge è diventata affabulazione spesso ipocrita, cioè razionalizzazione ex post di una decisione presa ex ante e quest’ultima è relegata nell’irrazionale e quindi anch’essa espulsa dal discorso, allora, forse, abbiamo perduto per strada quel che davvero è importante. 

Forse riaprire i cantieri della giustizia e della verità, cioè dei valori e dei fatti che contano per il diritto, senza i quali il diritto non può essere diritto, è impresa ardua. Forse illuminare per quanto è possibile il lato oscuro della decisione (che talvolta è tutt’altro che oscuro) del giudice, sapendo che da quelle parti c’è il diritto penale reale, è lavoro ancor più difficile.

Se le sfide sono a un tempo filosofiche, sociologiche, epistemologiche e psicologiche, e sono terribilmente difficili, è però troppo comodo liquidare il problema col dire che affrontarle non è compito della scienza giuridica, perché nessun altro deve occuparsene più di chi abbia la responsabilità di aver cura del diritto penale di una società.   

Questa stessa scienza giuridica che non vede quel che è sempre più visibile, e che in parte è nuovo, corre, per altro verso, il rischio opposto di prendere per nuovi problemi che sono antichi quanto il diritto.

Leggendo DPC, pare quasi che il problema della prevedibilità del diritto penale – così come il problema del diritto penale giurisprudenziale, che è del primo la vera e inquietante faccia, perché prevedibilità del diritto penale significa prevedibilità della sentenza del Giudice – sia stato scoperto sulla scia della giurisprudenza CEDU, solo da pochi anni. Non è ovviamente vero. Si tratta di capire quanto DPC ha fatto per produrre pensiero profondo su questi difficili problemi, promuovendone lo studio storico e filosofico prima ancora che giuridico.

La risposta almeno per me è sconfortante.

DPC è restato aggrappato alla superficie dell’attualità e per questo non ha mai visto la radice profonda che, oggi più che mai, si deve scavare, perché se non si scava non è possibile nemmeno capire l’attualità e le ragioni per cui antichi problemi che parevano risolti tornano vivi.

 

5. Il penalista – DPC o non DPC – è ormai addestrato a considerare il diritto penale poco più che un complesso apparato linguistico che può essere isolato da ogni parte e reso autonomo dai fatti e dai valori, e vive in un mondo artificiale, nel quale spesso il suo lavoro intellettuale è solo quello di compulsare la letteratura giuridica, e soprattutto quella più recente, che parla solo di quel mondo artificiale.

Se studiamo solo il diritto penale pensabile con questo ristretto linguaggio, diventiamo però sempre meno colti, restringiamo sempre più il confine del nostro mondo, acquistiamo ignoranza (per quanto dotta essa possa apparire), e la perdita di cultura dei fatti e dei valori – che il feticismo della forma inevitabilmente produce – porta con sé la pericolosa conseguenza di occultare anche a noi stessi la materia del diritto penale e di non poter più nemmeno vedere la sua crisi flagrante di fronte al moltiplicarsi e all’arroventarsi dei conflitti nella società del XXI secolo.

Le due rivoluzioni in atto, da un lato la nuova complessa biologia scientifica del cervello umano e dall’altro l’inquietante e apparentemente inarrestabile progresso della scienza del cervello non biologico (l’intelligenza artificiale) convergono, con la parallela nascita di nuove filosofie e nuove sociologie sempre più ardite e problematiche, nel processo in atto – tutt’altro che lineare – di trasformazione del concetto stesso di natura umana.

La sfida a tutti i saperi, giuridici e non, che avevamo pensato ormai definitivamente stabiliti, non potrebbe essere più strana inattesa e radicale.

I dogmi della causalità – quando sparisce il paradiso delle certezze della necessità si entra nella ragnatela del rischio e dell’incerto non si sa come uscirne – e della colpevolezza – quando il problema della non consistenza del vecchio caro libero arbitrio – riappare come una folgore inattesa negli ultimi due decenni del secolo scorso, e non si sa come trattarla – sono o stanno per diventare formanti vuoti di contenuto, e, per logica conseguenza, la pena è diventata e diventerà un male sempre meno comprensibile e giustificabile.

Non c’è però, nel nostro mondo, il segno dell’urgenza del lavoro intellettuale che deve essere fatto di fronte al pericolo che tutto frani.

Presto l’idea che nessuno può essere colpevole nemmeno se lo vuole (perché non può non volere quel che vuole) non sarà più l’arabesco di una filosofia astratta e liquidabile in poche battute, com’è oggi, ma apparirà come un’ovvia constatazione della visione scientifica – e filosofica – del mondo, che certo non potremo abbandonare, solo quando disturba il diritto penale della tradizione, e tenerla per tutto il resto.

Quel diritto penale, se in chi ne ha cura c’è ancora umanità, sarà scosso nelle fondamenta.

La sentenza della Consulta di ieri ha deciso che la punizione dell’aiuto al suicidio, in certi estremi e determinati casi, è “ingiusta e irrazionale”, ed è sacrosanto principio, ma che cosa faremo quando dovremo ammettere che la punizione di qualunque delitto, se fondata sulla colpevolezza, è altrettanto ingiusta e irrazionale, perché se è vero che il presunto reo non poteva agire in modo diverso da come agì, etichettarlo comunque come colpevole sarà un’infamia disumana?

Non vedete la pietra dello scandalo morale su cui andremo a sbattere?

La crisi di legittimazione del diritto penale è radicale.

Chi creda, infatti, che la sicurezza sociale, che il diritto penale sarebbe votato a garantire, sia un concetto oggettivo, avalutativo e neutro, è ormai solo un ingenuo o peggio.

Forse ignora che siamo nel tempo in cui il capitalismo globalizzato produce crescenti disuguaglianze sociali, che presto masse di uomini inutili, perché espulsi dal ciclo della produzione e del consumo (o divenuti inutili perché il loro lavoro lo faranno meglio i computer), già ora sono trattati dagli Stati nazionali, che usano il carcere come metodo di smaltimento sociale e ultima forma della loro perduta sovranità, e che ciò accade proprio col pretesto, spesso falso quanto infame, di placare bisogni di sicurezza, che sono stati creati e manipolati ad usum delphini.

I delitti dei poveri infatti diminuiscono ma cresce, tra le file dei poveri, il numero dei detenuti in carcere.

Il finto ingenuo forse non vuol nemmeno vedere che i danni alla sicurezza sociale che possono dirsi prodotti dalle condotte delle classi sociali dominanti – abusi e manipolazione dei mercati, danni all’ambiente, morti nel lavoro e tant’altro – sono spesso più gravi di ordini di grandezza rispetto ai danni che possono essere prodotti dalle classi inferiori, dagli outsiders.

Se questi danni crescono costantemente, le condotte di chi li ha procurati restano sempre più privi di sanzione, giuridica morale e sociale, anzi nemmeno vengono riconosciute come devianti e dannose o è sempre più difficile che lo siano.

I danni sociali di chi è potente dovrebbero produrre paure collettive assai maggiori, ma se quei fatti sono resi socialmente invisibili, le paure nemmeno nascono o vengono sopite senza sforzo, segno evidente che la paura (e il connesso bisogno di sicurezza) è sempre un concetto socialmente (e giuridicamente!) costruito, perché chi ha il potere crea anche il linguaggio, dominante su tutti gli altri, nel quale la sicurezza è solo la tutela contro il danno degli altri, cioè di coloro che non hanno analogo potere di produrre e far valere nella società il proprio linguaggio.

La vecchia e cara teoria dei beni giuridici non è la leziosa serenata che il giurista canta al potente che serve? Non è il caso di cominciare a costruire una teoria critica del beni giuridici del diritto penale?

DPC di questi duri argomenti non ha quasi mai parlato.

 

6. Dovevano essere i maestri del diritto, e DPC poteva essere il mezzo ideale per cominciare il lavoro, a intravvedere questo gap che eufemisticamente definiamo ritardo del diritto penale sui tempi, e a orientare gli allievi a cominciare a pensare in altro modo un altro diritto penale.

Questo una società si attende dai suoi intellettuali.

Se i maestri non possono o non vogliono mettersi su questo sentiero, forse, allora, tocca agli allievi che si affacciano alla scienza del diritto, dover osare il pensiero pericoloso che forse non c’è più un solo modo possibile per pensare il diritto penale, che anzi quello solito è forse il modo sbagliato di pensare il diritto penale, che forse quel modo è solo lo specchio di una divisione del lavoro intellettuale accademico, utile a spartire cattedre e poteri burocratici, ma che è ormai storicamente e culturalmente datata, e deve essere urgentemente riformata.

Chi, se non le future generazioni di giudici avvocati e pubblici ministeri, debbono capire che il diritto penale, più di qualunque altro ramo del diritto, deve saper comprendere – per poter regolare e giudicare – i mondi della vita dell’uomo, soprattutto quando essi sono in accelerata transizione verso lidi ignoti come nei nostri tempi, e osare pensare che se la cultura penale dominante non prevede che essi siano rilevanti, forse la cultura penale dominante sbaglia?

Forse, nel nostro tempo così disincantato, non ci sono più né maestri né allievi, ma solo immensi problemi che aspettano di essere scoperti e forse compresi, prima che sia troppo tardi; prima, cioè, che il diritto ridotto a tecnologia linguistica conservativa di privilegi di casta e cancelli il diritto.

DPC avrebbe dovuto almeno aiutare la crescita di una cultura capace di riformare il linguaggio e il pensiero del diritto penale, ampliandone il più possibile i confini e rompendone i limiti disciplinari fittizi, e così formare una generazione di penalisti capaci di pensare il nuovo, ma ha fallito, anzi non ci ha nemmeno provato.

 

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Le tre parti di questo editoriale che ho anticipato saranno pubblicate nelle prossime settimane.

Se ho chiamato questo documento Requiem per DPC, avrei potuto aggiungere che esso è anche un atto di speranza per la difficile vita che attende DPU – un Gloria? speriamo non un Miserere! –, da poco nato, e già ora impegnato in smisurate fatiche, alle prese col tentativo di ricreare l’humus culturale generale e non disciplinato artificiosamente, da cui solo può nascere un diritto realmente umano (proprio di homo che di humus è parola di vicina genealogia).

C’è ancora qualcuno che crede che sia un dovere totalmente disinteressato (o almeno sinceramente percepito come tale) lasciare il mondo in cui abbiamo avuto la ventura o la sventura di essere stati gettati un poco migliore di come l’abbiamo trovato?