Ricorre in questi giorni l’anniversario del massacro di Srebrenica, ove tra l’11 e il 14 luglio 1995 oltre 8000 uomini e ragazzi musulmani furono uccisi dalle armate serbo-bosniache sotto il comando del generale Ratko Mladić. Il contingente di pace dell’Onu, sotto la cui protezione era stata posta la cittadina di Srebrenica e la circostante area in Bosnia-Erzegovina, non riuscì ad impedire la cattura della città e l’esecuzione di massa dei civili, considerato il peggiore sterminio in Europa dopo la seconda guerra mondiale.
Nel 2004 il Tribunale penale per la ex-Jugoslavia (ICTY), con sede all’Aia, ha qualificato come genocidio quanto avvenuto a Srebrenica nel luglio del 1995, incluso il trasferimento forzato di circa 30.000 persone – donne, bambini e anziani – con l’intento di epurare la regione dalla popolazione non serba. Le maggiori responsabilità per questo e altri massacri ai danni della popolazione bosniaco-musulmana (i ‘bosgnacchi’) e croata furono imputate all’allora presidente della Repubblica Serba della Bonia-Erzegovina, Radovan Karadžić, e al generale Ratko Mladić.
Due circostanze appaiono particolarmente degne di note in questo sedicesimo anniversario del genocidio di Srebrenica:
- la prima è il recente arresto di Ratko Mladić ed la sua consegna all’ICTY per essere processato (infra, § 1);
- la seconda è la recentissima condanna dell’Olanda, da parte di una corte interna, a risarcire alcune delle vittime del massacro, derivante dalla responsabilità dei caschi blu olandesi nella mancata protezione della popolazione di Srebrenica (infra, § 2).
1. Il generale Mladić davanti all’ICTY
Per la prima volta quest’anno la commemorazione del massacro di Srebrenica si svolgerà con entrambi Karadžić e Mladić in stato di detenzione. Il primo è stato arrestato dopo 13 anni di latitanza il 21 luglio 2008 e trasferito all’Aia dove si trova attualmente sotto processo di fronte all’ICTY. Il mandato di arresto nei confronti di Ratko Mladic è stato finalmente eseguito in Serbia il 25 maggio 2011. Il primo capo di accusa (indictment) nei suoi confronti risale al 24 luglio 1995 (ICTY case number IT-95-5); un secondo capo d’accusa è stato confermato dai giudici il 16 novembre 1995 (ICTY case number IT-95-18), ed in seguito unito al primo (ICTY case number IT-95-5/18). In concomitanza con l’arresto dell’accusato, l’attuale procuratore dell’ICTY, Serge Brammertz, ha chiesto ed ottenuto di emendare il capo di accusa al fine di meglio chiarire e specificare le accuse in particolare rispetto alla responsabilità personale dell’imputato.
11 capi di accusa pendono attualmente sulla testa di Ratko Mladić; il generale, ex comandante dell’esercito serbo-bosniaco (VRS) è accusato di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi in Bosnia-Erzegovina durante la guerra del 1992-1995 contro la popolazione bosniaco-musulmana, croata e contro altri civili non serbi della regione. Insieme a Radovan Karadžić, Ratko Mladić era infatti il personaggio chiave della associazione criminosa avente come fine la eliminazione definitiva di tali gruppi etnici dal territorio della Bosnia Erzegovina, conteso dai serbi.
Agendo in concorso con altri - e nella sua posizione di comandante dotato di effettivo controllo sulle forze armate che materialmente commisero i crimini - Ratko Mladić è accusato di avere pianificato, istigato ed ordinato i crimini. Alle responsabilità commissive si affiancano anche responsabilità di natura omissiva, per non avere preso le misure per impedire la commissione dei crimini (di cui era a conoscenza) da parte degli uomini sotto il suo comando e controllo. In particolare, oltre al massacro di Srebrenica, a Mladić è imputata la responsabilità per altri numerosi e gravissimi episodi criminosi, quali:
- la uccisione, persecuzione, trasferimento forzato, detenzione e maltrattamento della popolazione bosniaco-musulmana e croata nel corso della campagna di eliminazione permanente di tali gruppi dal territorio sotto il controllo delle forze serbe;
- la campagna di terrore, assedio e attacco di civili a Sarajevo da parte delle forze serbo-bosniache sotto il suo comando e controllo, che risultò nella uccisione e ferimento di migliaia di persone, incluse molte donne e bambini;
- la presa in ostaggio di personale Onu (osservatori militari e peacekeepers) nel maggio e giugno 1995.
Diciannove anni dopo i primi crimini contenuti nel capo di accusa, Mladić si trova oggi detenuto all’Aia e sarà presto sottoposto a processo. Le prime due apparizioni davanti al Tribunale - ed in particolare l’ultima di lunedì 4 luglio, quando l’accusato è stato espulso dall’aula a causa del suo comportamento oltraggioso e indisciplinato (una misura mai applicata finora dai giudici dell’ICTY) - hanno fatto capire che il processo sarà lungo e difficile.
Il processo a Mladić, peraltro, sarà presumibilmente l’ultimo celebrato davanti all’ICTY. In quasi 20 anni di attività, il Tribunale internazionale istituito ad hoc dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha processato 161 individui: uno solo e’ ancora latitante. Da tempo il Tribunale è entrato nella sua fase finale, c.d. ‘completion strategy’, per cui si stanno terminando i processi in corso e ed al contempo deferendo alle corti locali altri processi, molti dei quali già in fase di celebrazione.
La Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) nel 2007 ha stabilito che – sebbene non sia direttamente responsabile del genocidio - la Serbia ha violato i suoi obblighi di prevenire il genocidio di Srebrenica e ha affermato il dovere dello Stato di cooperare con l’ICTY, incluso attraverso la consegna di ricercati e accusati del genocidio davanti al Tribunale. L’arresto di Mladić oggi – 16 anni dopo - assume anche un significato politico in un momento in cui la Serbia è seriamente candidata ad entrare nell’Unione Europea. In questo senso quanto sostenuto da Sergio Romano, che “la giustizia si può fare soltanto nei tempi in cui la politica lo consente” e che “si possono fare determinate cose solo nel momento in cui sono tollerabili e opportune”, sebbene cinico (e non soddisfacente alle orecchie del giurista) appare certamente realista nel contesto di questa attuale fase della giustizia internazionale.
2. Olanda condannata a risarcire le vittime del genocidio
Il secondo fatto degno di nota in questo anniversario della commemorazione del massacro di Srebrenica è per certi versi persino più rilevante dell’arresto di Mladić.
Come affermato da Kofi Annan nel 2005, nella sua qualità di allora Segretario Generale dell’Onu in occasione della commemorazione del decimo anniversario del genocidio, sebbene le maggiori responsabilità per quanto avvenuto a Srebrenica riguardino in primo luogo coloro che pianificarono ed eseguirono il massacro, e quindi coloro che prestarono lo loro assistenza e collaborazione, responsabilità importanti sono da attribuire anche agli Stati che non hanno reagito adeguatamente; l’Onu stessa, ha ricordato Kofi Annan, ha commesso gravi errori di valutazione e la tragedia di Srebrenica rappresenta una macchia indelebile.
Una corte olandese ha ora parzialmente tradotto in termini giuridici quanto allora affermato da Annan. In una sentenza emessa il 5 luglio scorso su ricorso di alcune vittime del massacro – parenti stretti di tre persone uccise allora – la corte d’appello dell’Aia ha stabilito che lo stato olandese è responsabile della morte di tali uomini perché il contingente olandese presente in loco su mandato dell’Onu (il ‘Dutchbat’) non avrebbe dovuto consegnarli alle truppe serbo-bosniache di Ratko Mladić, che li uccisero.
Il battaglione olandese ‘Dutchbat’ era stato inviato dall’Onu nel 1995 per proteggere la popolazione civile dagli attacchi serbi.
Srebrenica era stata dichiarata ‘safe area’, ossia zona sicura, sotto la protezione delle Nazioni Unite. Il battaglione olandese tuttavia si ritirò lasciando campo libero alle truppe del generale Mladić che compì il massacro quasi senza incontrare resistenza. Migliaia di profughi musulmani avevano chiesto protezione all’interno dell’area protetta ma vennero lasciati all’esterno, o forzatamente mandati fuori dell’acquartieramento, finendo presto vittime delle milizie serbe. I giudici olandesi hanno ritenuto che i caschi blu dell’Onu, essendo già stati testimoni di omicidi e maltrattamenti della popolazione musulmana, sapevano che quelle persone sarebbero state in grande pericolo se avessero lasciato la ‘safe area’ e nonostante ciò omisero di garantire loro la dovuta protezione, consegnandoli ai soldati serbi.
La corte ha ritenuto che le responsabilità dei peacekeepers del ‘Dutchbat’, per avere omesso di proteggere le tre vittime in questione, siano attribuibili non solo all’Onu (sotto il cui mandato la missione agiva) ma anche direttamente allo Stato di provenienza del contingente. Infatti, nonostante la confusione del momento, i caschi blu del ‘Dutchbat’ erano sotto l’effettivo controllo degli alti ufficiali militari e dei vertici olandesi quando presero la decisione di ordinare a centinaia di civili musulmani di lasciare il compound dell’Onu. Pertanto i giudici hanno condannato lo Stato olandese al risarcimento del danno, annullando una precedente sentenza di primo grado del 2008 che aveva escluso ogni responsabilità olandese. L’ammontare del risarcimento non è per ora stato fissato.
Nel caso di specie le vittime che hanno adito la giurisdizione olandese erano parenti di persone in qualche modo legate con il ‘Dutchbat’; Rizo Mustavic, i cui parenti si sono costituiti parte civile, era un elettricista che lavorava per i caschi blu, mentre Hasan Nuhanovic, il cui fratello e padre vennero uccisi, svolgeva lavoro di interprete per i peacekeepers olandesi. Hasan cercò di salvare suo fratello, allora diciassettenne, inserendolo nelle liste di persone che il battaglione olandese portò con sè al ritiro da Srebrenica, ma invano. Il suo nome venne cancellato dall’ufficiale olandese incaricato e il ragazzo venne ucciso poco dopo il ritiro del contingente Onu, insieme agli altri circa ottomila uomini e ragazzi, molti dei cui corpi – buttati in fosse comuni - non sono ancora stati riconosciuti.
L’impatto della sentenza olandese è potenzialmente enorme: centinaia di vittime potrebbero adire ora le corti olandesi e vedersi riconosciuto il risarcimento per quelle morti che forse avrebbero potuto essere evitate. L’associazione ‘Madri di Srebrenica” ha già intentato un’altra azione legale contro lo stato olandese per ottenere il risarcimento dei danni subiti sulla base degli stessi principi. Certamente la sentenza olandese è destinata a fare discutere: fino a questo momento le corti avevano affermato il principio della immunità dei caschi blu impegnati in missioni di mantenimento della pace sulla base della Carta dell’Onu, senza la quale garanzia di immunità è prevedibile che difficilmente gli Stati acconsentirebbero all’invio di proprio personale in tali missioni.
La sentenza in oggetto peraltro tocca un nervo scoperto nella società olandese, ove la vicenda dei caschi blu mandati in missione in Bosnia non sufficientemente equipaggiati e a cui vennero negati rinforzi (che pure gli uomini del battaglione avevano più volte invocato, in particolare sotto forma di intervento aereo, nel corso di quei drammatici giorni) è ancora una ferita dolorosa. Il governo olandese si dimise nel 2002 dopo la pubblicazione dei risultati di una indagine interna che avevano messo in luce gravi mancanze a livello politico e militare nei confronti di tale missione in Bosnia.
Il governo olandese aveva finora ammesso le proprie “responsabilità politiche” per quanto avvenuto a Srebrenica, ripetendo sempre tuttavia che la responsabilità (giuridica) per il massacro era da attribuirsi esclusivamente ai serbo-bosniaci. Dalla sentenza del 5 luglio tale affermazione non può più dirsi valida.
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Per approfondimenti si veda: