ISSN 2039-1676


26 luglio 2011 |

La strage di piazza della Loggia di Brescia ancora senza colpevoli

Nota a Corte d'Assise di Brescia, II sezione, sent. 16 novembre 2011 (dep. 14 febbraio 2011), n. 2, Pres. Fischetti

1. Il 28 maggio 1974, durante una manifestazione organizzata dal Comitato Permanente Antifascista e dalle segreterie provinciali del Sindacato Unitario CGIL, CISL e UIL, in conseguenza dei recenti fatti di sangue che avevano coinvolto la città, un altro ordigno esplodeva uccidendo immediatamente sette persone, e ferendo, inoltre, centinaia di partecipanti alla manifestazione; in seguito altre due persone perdevano la vita per le ferite riportate. Era la c.d. strage della Loggia, una delle pagine più buie della storia della Repubblica.
 
Ne derivava una tormentata vicenda giudiziaria che vedeva portare a processo un gruppo di persone appartenenti ai circoli della “destra” anche estrema. Personaggio centrale dell’intera compagine era Ermanno Buzzi, il quale, dopo essere stato condannato in primo grado per il delitto di strage, veniva assassinato da altri militanti nelle more dell'Appello. Il risultato finale vedeva l'assoluzione di tutti gli imputati, anche se nei confronti di taluni la formula era dubitativa.
 
Non per questo cessavano le indagini sugli ambienti milanesi; ma non ne sortivano migliori effetti. Con sentenza istruttoria del 23 maggio 1993, si proscioglievano dal reato di strage cinque imputati per non aver commesso il fatto. Nello stesso provvedimento si disponeva, peraltro, la trasmissione al procuratore della Repubblica dei verbali relativi alle dichiarazioni rese da Tramonte Maurizio in data 8 marzo 1993.
 
Aveva così inizio, a circa vent'anni dalla strage, quel filone di indagine che si snoderà per circa 15 anni e vedrà il rinvio a giudizio, quali concorrenti nel reato di strage “politica”, ex artt. 110 e 285 c.p., dello stesso Tramonte, degli imputati Pino Rauti, Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi, nonché di Francesco Delfino e Giovanni Maifredi (la posizione di quest'ultimo sarà, nel corso del processo, definita con sentenza di estinzione del reato per morte dell'imputato). In particolare veniva contestato agli imputati:
 
a) di aver, in concorso tra loro e con altre persone, allo scopo di attentare alla sicurezza interna dello Stato, appartenendo all'organizzazione eversiva Ordine Nuovo, cagionato una strage in piazza della Loggia, a Brescia, collocando un ordigno esplosivo in un cestino metallico porta rifiuti aderente ad una colonna dei portici delimitanti la piazza, e provocandone l'esplosione, da cui – per effetto della violenza dello scoppio e delle innumerevoli schegge del cestino e di altri materiali, derivavano la morte di […] e le lesioni personali di […].
 
b) il reato di cui agli artt. 81, 110, 575, 577 n. 3 c.p., perché in concorso tra loro e con altre persone, nelle circostanze di tempo e di luogo e con le modalità descritte nel capo a), cagionavano la morte di […]. Con l'aggravante della premeditazione.
 
c) a Tramonte Maurizio, il reato di cui agli artt. 61, n. 2, 368, 1 e 2 comma, c.p., perché, al fine di conseguire l'impunità per i reati di cui ai capi a) e b), con dichiarazioni rese ai Carabinieri del Reparto Anti Eversione di Roma, ai magistrati delle Procure della Repubblica di Brescia, di Milano, di Bologna e ai giudici della Corte d'Assise di Milano, accusava il Vice Questore della Polizia di Stato […] pur sapendolo innocente, della strage commessa in Brescia il 28 maggio 1974.
 
 
2 Con la sentenza che si annota la Corte d'Assise di Brescia si pronuncia per l'assoluzione con formula piena di tutti gli imputati.
 
Le fonti intorno alle quali ruota tutto l'accertamento probatorio sono sostanzialmente riconducibili a due: le dichiarazioni rese dal Digilio, sentito come imputato di un procedimento connesso a quello de quo, e poi come coimputato nel medesimo procedimento; e le dichiarazioni rese dal Tramonte, imputato nel procedimento de quo, distinguendo, riguardo ad esse, tra:
 
a) le dichiarazioni rese dal Tramonte all'ispettore Felli in data 8 marzo 1993 (il cui verbale viene riprodotto in giudizio); per la valutazione delle quali la Corte richiama i criteri previsti dal codice per la testimonianza indiretta;
 
b) le dichiarazioni sulle responsabilità dei coimputati rese nelle fasi anteriori al giudizio;
 
c) le dichiarazioni rese nel corso del dibattimento, che soggiaciono alla disciplina di cui all'art. 192 comma 3 c.p.p., in quanto rese da un coimputato nel medesimo processo.
 
La motivazione posta a fondamento della decisione, che ha destato certamente scalpore nell'ordine pubblico per la valenza strettamente social-politica del fatto storico di riferimento, si incentra, innanzitutto, sulla inutilizzabilità parziale delle dichiarazioni rese dal Tramonte.
 
Infatti, la Corte afferma che tutte le dichiarazioni rese dal Tramonte nelle fasi anteriori al giudizio, non sono utilizzabili con valore di prova nei confronti degli altri imputati ma solo nei confronti del Tramonte stesso, in quanto non confermate a dibattimento, anzi espressamente smentite nel corso dell'escussione.
 
Né la produzione dei verbali delle dichiarazioni contestate al Tramonte ed acquisite al fascicolo del dibattimento (art. 503 c.p.p.) scalfisce la posizione degli altri imputati non avendo prestato il consenso alla loro utilizzazione ed essendo tali dichiarazioni utilizzabili solo per la valutazione della credibilità del dichiarante.
 
L'affermazione è espressione del principio del “contraddittorio nella formazione della prova” enunciato dal quarto comma dell'art. 111 Cost., recentemente riaffermato dalla Corte Costituzionale[1], il quale comporta che tutte le parti devono essere poste in grado di partecipare attivamente al momento genetico, e non soltanto di formulare a posteriori valutazioni su elementi acquisiti unilateralmente.
 
In tutti i casi in cui l'imputato – dichiarante erga alios – non versi in situazione di incompatibilità a testimoniare trova diretta applicazione la disciplina dettata dall'art. 500 c.p.p. per l'esame testimoniale: disciplina a fronte della quale le pregresse dichiarazioni difformi dell'imputato sulla responsabilità altrui, lette per la contestazione, sono utilizzabili dal giudice solo per valutare la credibilità del dichiarante e non costituiscono prova dei fatti in esso affermati (comma 2), salvo ricorrano le speciali ipotesi previste dal comma 4.
 
Ma la conclusione non può essere diversa neppure quando ricorra una situazione di incompatibilità all'assunzione di ufficio di testimone. Le regole sull'esame testimoniale, di cui al citato art. 500 c.p.p., risultano attualmente richiamate, difatti – in luogo di quelle dell'art. 503 – anche dall'art. 210 c.p.p.: norma questa che fissa i modi con i quali è possibile acquisire il contributo probatorio delle persone imputate in un procedimento connesso o di un reato collegato, che siano incompatibili come testimoni (quale tra gli altri l'imputato di concorso nel medesimo reato, nei cui confronti non sia stata pronunciata sentenza irrevocabile: ipotesi ricorrente nel giudizio de quo).
 
Dall'anzidetto rinvio si desume che le dichiarazioni erga alios rese da uno di detti imputati nelle fasi anteriori al giudizio, ancorché acquisite al fascicolo del dibattimento a seguito di contestazione, hanno la stessa limitata valenza probatoria delle precedenti dichiarazioni difformi utilizzate per le contestazioni nell'esame testimoniale[2]
 
L'inutilizzabilità, nei confronti degli altri imputati, delle dichiarazioni rese dal Tramonte ha spinto la pubblica accusa, in sede di discussione, a valorizzare le dichiarazioni rese da Carlo Digilio, sentito in incidente probatorio prima con la qualifica di imputato di reato connesso, per un brevissimo periodo come teste, e poi come coimputato nel medesimo reato.
 
Nel processo peraltro sono transitate, non opponendosi le parti, tutte le dichiarazioni rese da questi anche in istruttoria, essendo nel frattempo il Digilio deceduto, ad eccezione di alcuni specifici verbali istruttori assunti dal Pubblico Ministero nel corso dell'incidente probatorio in divieto di quanto prescritto dall'art. 430 bis c.p.p.
 
Rispetto alle dichiarazioni rese da Digilio, come anche a quelle dichiarazioni del Tramonte utilizzabili nei confronti degli altri imputati, si pone un'altra diversa questione: esse di per sé non assumono piena valenza probatoria dovendo essere valutate, ai sensi dell'art. 192, comma 3, c.p.p. unitamente agli altri elementi che ne confermino l'attendibilità. 
 
Il legislatore impone che sia fatto un riscontro particolarmente accurato delle dichiarazioni rese dall'imputato connesso o collegato, poiché l'imputato ha di regola l'interesse più forte in relazione all'esito del procedimento penale e le sue dichiarazioni potrebbero, pertanto, essere finalizzate ad “alleggerire” la propria posizione. L'obbligo di riscontro è posto dal codice in modo espresso come condizione per valutare le dichiarazioni rese sia dal coimputato del medesimo reato, sia dall'imputato di un reato connesso o collegato probatoriamente (art. 371, comma 2 lett. b) c.p.p.).
 
 
3 La Corte d'Assise di Brescia, richiamando espressamente i criteri indicati dalla Corte di Cassazione[3] compie una valutazione di attendibilità delle dichiarazioni rese dal Digilio, e di quelle di Tramonte utilizzabili, sia da un punto di vista intrinseco, soggettivo ed oggettivo, sia dal punto di vista dei riscontri esterni, giungendo alle seguenti valutazioni:
 
a) Sostanziale inattendibilità del Digilio. Le sue dichiarazioni sembrano “far acqua” da tutte le parti.
 
Dal punto di vista intrinseco-soggettivo, la questione che desta maggiori dubbi è rappresentata dal progressivo aumento di gravità delle dichiarazioni rese (all'inizio si tratta di dichiarazioni sul coimputato Zorzi sostanzialmente irrilevanti o comunque riguardanti reati già prescritti, successivamente vengono fuori dichiarazioni molto più rilevanti) che coincide con una situazione economica e di salute del dichiarante che va progressivamente peggiorando (specie a seguito dell'ictus che ne determina una menomazione fisica permanente).
 
Dalle rivelazioni dello stesso Digilio la Corte deduce che il collaboratore ritenesse il programma di protezione strumentale alla sua stessa sopravvivenza, tanto da indurlo ad emettere una serie di dichiarazioni false, e di apparente rilievo per gli inquirenti, allo scopo di non perdere i benefici del programma medesimo.
 
Le cose non migliorano dal punto di vista intrinseco-oggettivo e, cioè, della coerenza, costanza, precisione e completezza delle dichiarazioni rese. Da un lato, la modalità espositiva (la narrazione parte da fatti secondari, riportando solo in un secondo momento i fatti che presumibilmente rimangono più impressi nella memoria; il dichiarante si giustifica facendo spesso ricorso ai c.d. flash) dà l'idea di un racconto non spontaneamente narrato; dall'altro la contraddittorietà del contenuto ne escludono la valenza probatoria.
 
Infine per quanto riguarda i riscontri esterni (confronto con la testimonianza di Battiston; perizia sul tipo di esplosivo utilizzato) anch'essi forniscono risultati negativi sull'attendibilità del dichiarante.
 
b) Sostanziale inattendibilità delle dichiarazioni rese da Tramonte:
 
In primo luogo, viene in considerazione il narrato di Tramonte all'ispettore Felli. In tal caso siamo in presenza di una testimonianza indiretta da parte di Felli relativamente a quanto riferitogli dal Tramonte. In ordine a tali dichiarazioni non si pone un problema di valutazione dell'attendibilità del dichiarante ex art. 192, comma 3 c.p.p., ma un normale problema di valutazione della testimonianza indiretta.
 
Quanto alle dichiarazioni rese dal Tramonte nel corso dell'istruttoria e contestategli nel corso dell'esame, non utilizzabili nei confronti dei coimputati ma valutabili ai fini dell'attendibilità del dichiarante, la Corte ritiene difficile formulare un giudizio di piena attendibilità del dichiarante dal punto di vista soggettivo nella parte in cui l'imputato chiede di essere creduto proprio allorché nega il proprio coinvolgimento nella vicenda delittuosa (ritrattando la precedente versione).
 
Altrettanto problematico appare il giudizio di attendibilità del Tramonte allorché si considerino gli elementi della spontaneità, autonomia e precisione, completezza, coerenza e costanza della narrazione, apparendo le dichiarazioni rese nel procedimento per la strage di Piazza Fontana in assoluto conflitto con quelle rese nel corso dell'esame nel procedimento de quo.
Anche i riscontri esterni (confronto con le dichiarazioni di Zotto, Gerardini, Affigato) danno esito negativo.
 
Infine, anche la valutazione di attendibilità delle dichiarazioni rese dal Tramonte in dibattimento dà esito negativo, in particolare per l'illogicità del racconto e la mancanza di riscontri positivi. Ne consegue che nemmeno quanto dichiarato dal Tramonte in Corte d'Assise può essere utilizzato contro gli imputati Maggi, Zorzi e Rauti alla luce del giudizio negativo espresso ex art. 192, comma 3 c.p.p.
 
 
4 A questo punto, ristretto il nucleo di quello che può costituire prova a carico degli imputati alle sole dichiarazioni rese dal Tramonte all'ispettore Felli, la Corte esamina la posizione di ciascun imputato.
 
Per ognuno di essi (Maggi, Zorzi, Rauti, Tramonte, Delfino) la conclusione è analoga: assoluzione dell'imputato dai reati ascrittigli per non aver commesso il fatto, in ossequio al disposto dell'art. 530, comma 2 c.p.p., con le seguenti motivazioni:
 
a) inutilizzabilità delle dichiarazioni rese in istruttoria da Tramonte (per i motivi sopra esposti); inattendibilità di Digilio e di Tramonte in ordine alle dichiarazioni utilizzabili nei confronti dei coimputati e totale incongruenza e non coincidenza tra quanto riferito da Digilio e quanto riferito da Tramonte sulla vicenda Bresciana.
 
b) gli elementi di prova assunti a carico degli imputati hanno carattere o nullo, o ambiguo e non sono utilizzabili, da soli, per provarne la responsabilità.
 
 
5 In conclusione, la decisione emessa dalla Corte d'Assise è perfettamente e logicamente motivata in base ai vigenti principi in tema di prova.
 
L'unica riflessione che si può muovere in questa sede è che, nel caso di specie, appare particolarmente evidente una tendenza alla frantumazione dell’unitarietà del mezzo di prova – intendendo, per unitarietà, una eguale valenza nei confronti di tutte le parti processuali - correlata alla progressiva affermazione della categoria della inutilizzabilità parziale.
 
Ne possono derivare inconvenienti sul piano della “giustizia sostanziale”, e la frustrazione delle attese di chi pretenda dal processo penale l’ attestazione di una “verità” in termini storici ed eventualmente politici. Invero, in base alle regole oggi vigenti, si possono delineare più verità processuali per ogni imputato, in rapporto al medesimo fatto storico, in ragione dell’utilizzabilità di certi elementi di prova nei confronti di alcuni ma non di altri, sino al quasi paradosso di poter negare, per taluno, la stessa sussistenza del fatto.
 
Questo risultato costituisce peraltro l’esito di una corretta declinazione di principi fondamentali, quali il diritto alla difesa, al contraddittorio, al giusto processo. Scopo del procedimento non è, per vero, fornire un contributo appunto storico-politico, ma valutare se sussistono i presupposti, sostanziali e processuali, affinché lo Stato sia legittimato ad attribuire ad uno specifico soggetto una responsabilità penale, con quel che ne consegue. E’ insomma nel rapporto con la persona – imputato, non con “la verità”, che si articolano le dinamiche processuali, le quali devono preservare il delicatissimo equilibrio tra libertà del singolo ed esigenze della difesa sociale su cui si fonda un sistema penale liberale. Sarebbe dunque opportuno che le agenzie dell’informazione e della politica non alimentassero quelle attese e quelle pretese della “pubblica opinione” verso il processo, per quanto dolenti e umanamente comprensibili.


[1]Corte Costituzionale, sentenza n. 197 del 2009
[2] In questi termini si è espressa la Corte Costituzionale, con sentenza n. 361 del 1998.
[3]Cass. 21. 9. 2006, n. 31442; Cass. 25.5.2009, n. 21599: “La chiamata in correità posta a fondamento di una affermazione di responsabilità richiede che il giudice affronti e risolva, anzitutto il problema della credibilità del dichiarante in relazione tra l'altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche, al suo passato e ai suoi rapporti con il chiamato in correità nonché alla genesi e alle ragioni che lo hanno indotto alla confessione e all'accusa dei coautori e complici; in secondo luogo, il giudice deve verificarne l'intrinseca consistenza e le caratteristiche, alla luce di criteri quali, tra gli altri, quelli della spontaneità, della autonomia, precisione, completezza della narrazione dei fatti, coerenza e costanza; infine egli deve verificare i riscontri esterni, i quali sono realmente rafforzativi della chiamata in quanto siano individualizzanti e, quindi, inequivocabilmente idonei ad istituire un collegamento diretto con i fatti per cui si procede e con il soggetto contro il quale si procede”.