ISSN 2039-1676


20 ottobre 2011 |

Ergastolo per gli eccidi nazisti commessi nel 1944 lungo l'Appennino tosco-emiliano: esclusi stato di necessità  e adempimento del dovere

Trib. Militare Verona, 6 luglio 2011 (dep. 4 ottobre 2011), Pres. Est. Santoro, Est. Bonafiglia, imp. Winkler e altri

SOMMARIO:

1. Gli eccidi nazisti del 1944 e la condanna all’ergastolo del 2011

2. La qualificazione giuridica degli eccidi ai sensi degli artt. 110 c.p., 185 c.p.m.g.

3. L’esclusione delle cause di giustificazione dell’adempimento del dovere e dello stato di necessità.

4. Le questioni civili

 

1. Gli eccidi nazisti del 1944 e la condanna all’ergastolo del 2011
 
Tra marzo e maggio del 1944, lungo l’Appennino Tosco-Emiliano, centinaia di soldati nazisti appartenenti al Reparto esplorante ed al Reggimento contraereo della Divisione Hermann Göring, massacrarono 360 civili inermi, tra cui decine di donne, anziani, e bambini in tenera età, eseguendo gli ordini ricevuti da ufficiali e sottufficiali loro superiori.
 
A 67 anni da quegli eccidi il Tribunale Militare di Verona ha riconosciuto la responsabilità penale di sette tra ex ufficiali e sottoufficiali tedeschi – attualmente ultraottantenni e residenti in Germania – condannandoli a più ergastoli.  Gli imputati erano originariamente dodici, tre dei quali sono deceduti nelle more del processo, mentre due di loro sono stati assolti per non aver commesso il fatto.
 
Gli eccidi furono commessi con feroce efferatezza, della quale la sentenza dà analiticamente conto – senza trascurare i dettagli più crudi e disumani, la cui sola lettura risulta scioccante – nella parte relativa all’esame delle circostanze aggravanti dei motivi abietti e della crudeltà verso le persone, entrambe riconosciute a carico dei nazisti.
 
Le condanne sono per concorso nel delitto di cui all’art. 185 del codice penale militare di guerra, norma che incrimina, tra l’altro, la “violenza con omicidio contro privati nemici”.  La figura criminosa riguarda “il militare, che, senza necessità o, comunque, senza giustificato motivo, per cause non estranee alla guerra, usa violenza contro privati nemici, che non prendono parte alle operazioni militari” (co. 1); sotto il profilo sanzionatorio è previsto che, “se la violenza consiste nell’omicidio, si applicano le pene previste dal codice penale” (co. 2).
 
Nel caso di specie il collegio ha applicato la pena dell’ergastolo, avendo ritenuto sussistenti due delle aggravanti ad effetto speciale di cui all’art. 577 c.p.: quella prevista dal n. 3 , ossia la premeditazione; e quella indicata al n. 4, dal momento che gli imputati agirono per motivi abietti, adoperando sevizie e con crudeltà verso le persone.
 
La prima parte della monumentale motivazione, dedicata alla ricostruzione dei fatti, descrive i quattro diversi episodi di rastrellamenti e stragi civili avvenuti nella primavera del 1944, esaminando, in relazione a ciascuno di essi, le condotte di partecipazione degli imputati (pp. 257 – 414).
 
Nella seconda parte della motivazione vengono valutati i profili di responsabilità penale, alla luce della norma incriminatrice di cui all’art. 185 c.p.m.g., applicata in combinato disposto con l’art. 110 c.p., e dei delicati profili di antigiuridicità sollevati dai difensori in relazione alle scriminanti dell’adempimento del dovere e dello stato di necessità (pp. 414 – 438).
 
Nell’ultima parte della pronuncia, vengono affrontati i temi delle circostanze aggravanti (pp. 438 – 447), del trattamento sanzionatorio e della prescrizione (pp. 447 – 452), delle questioni civili (452 – 491), per poi lasciare spazio al dispositivo.
 
 
2. La qualificazione giuridica degli eccidi ai sensi degli artt. 110 c.p., 185 c.p.m.g.
 
Mentre nella prima parte della sentenza, relativa al fatto, le condotte materiali degli imputati sono esaminate una per una, nella seconda parte della motivazione, dedicata alla loro qualificazione giuridica, il collegio le prende in considerazione congiuntamente.
 
In primo luogo viene svolta la sussunzione delle condotte nell’art. 185 c.p.m.g., dei cui elementi costitutivi la sentenza svolge una pregevole analisi.
 
Pacifica essendo la qualifica di “militare” in capo agli imputati, il primo nodo che i giudici devono sciogliere riguarda la qualificazione delle vittime alla stregua di “privati nemici”. Il passaggio chiave, sul punto, afferma che le persone uccise rivestivano, de jure oltre che de facto, la veste di nemico dello Stato tedesco, in quando cittadini di uno Stato che il 13 ottobre 1943 aveva dichiarato guerra al Reich, irrilevante essendo che i fatti avvennero entro i confini della c.d. Repubblica Sociale di Salò: quest’ultima, infatti, altro non poteva considerarsi se non uno “Stato fantoccio”, privo di sovranità sia esterna che interna.
 
L’ulteriore elemento costitutivo del reato è rappresentato dal fatto che “le vittime non abbiano preso parte alle operazioni belliche”, e trova la sua ratio nella considerazione che “non si potrebbe chiedere ad una parte in conflitto di astenersi dal fronteggiare, ed eventualmente uccidere, coloro che gli si contrapponessero nell’ambito di una operazione militare”. Nel caso di specie, pacifico essendo che le vittime non appartenevano a milizie regolari, deve altresì escludersi che le stesse rientrassero tra i c.d. soggetti belligeranti, come definiti dall’art. 7 della Convenzione dell’Aja del 1907, ed in particolare nella categoria della “popolazione di un territorio non occupato che, all’avvicinarsi del nemico, prende spontaneamente le armi”: ad avviso dei giudici, “gli eccidi di cui a tutti i capi d’accusa altri non colpirono se non inermi civili, tra i quali donne, vecchi e bambini, i quali non opposero alcuna resistenza e sovente vennero uccisi nell’atto in cui imploravano pietà per loro o per i piccoli affidati alle loro cure”.
 
Dal momento che il delitto in esame configura un illecito di guerra, per la sua configurazione si richiede altresì che la violenza sia realizzata “per cause non estranee alla guerra”. Anche questo requisito risulta integrato nel caso di specie, alla luce della grande importanza strategica della zona geografica a sud di Bologna per la costituzione della Linea Gotica, lungo la quale i tedeschi intendevano opporre la loro ultima resistenza alle truppe alleate: sicché l’iniziativa militare in quei luoghi era senz’altro “attinente alla guerra”, e gli stessi eccidi “trovarono causa nella presenza di formazioni partigiane sulle montagne circostanti i paesi rastrellati e devastati”.
 
I contorni della norma incriminatrice in esame sono infine delimitati da due requisiti negativi. Anzitutto il fatto deve essere stato posto in essere “senza necessità”, la quale deve essere intesa come “necessità militare”, concetto chiave del diritto bellico in quanto avente “lo scopo di consentire, in talune situazioni, l’uso della violenza anche nei confronti di coloro che non prendono parte alle operazioni militari” (come nei casi di soggetti che svolgano attività di sostegno logistico, in tal modo fornendo un contributo positivo all’esito delle operazioni militari). Dopo aver ribadito, sulla scorta della sentenza sul caso Priebke (Cass., sez. I, 16.11.1998), che la necessità non va confusa con la mera convenienza militare – nozione che porterebbe allo svuotamento della portata selettiva del requisito – il collegio esclude che nel caso di specie sussistesse una “situazione imposta dalla guerra”, dal momento che gli eccidi “vennero attuati in difetto assoluto di ogni resistenza attiva da parte dei civili ed in circostanze in cui non vi era la benché minima traccia di quegli elementi che, nell’attualità degli scontri armati, possono rendere necessario l’impiego della violenza bellica anche contro non belligeranti”.
 
Infine, si legge nella motivazione, le stragi vennero realizzate “senza giustificato motivo”, essendo escluso che ricorressero i presupposti sia di una rappresaglia legittima ai sensi del diritto consuetudinario internazionale, sia di una “peine collective” ai sensi della Convenzione dell’Aja del 1907. La rappresaglia “nasce, nel diritto internazionale, come strumento di autotutela a disposizione di uno Stato che, alla violazione di una norma di diritto bellico, faccia seguire la trasgressione della stessa o di altra norma dello stesso diritto di guerra, fermi restando i limiti della proporzionalità e del rispetto delle principali norme del diritto umanitario”: è del tutto evidente che l’ingiustificato massacro di centinaia di inermi civili si pone totalmente al di fuori dei confini tracciati da tale consuetudine. Pure il ricorso alla repressione collettiva viene escluso: tale strumento è ammesso dall’art. 50 della citata Convenzione solo quando una popolazione risulti solidalmente responsabile di un precedente fatto individuale; inoltre, quando si tratta di sanzione diversa da quella pecuniaria, come nel caso della presa di ostaggi, essa deve riguardare uomini di età compresa tra i 18 e i 55 anni, e deve essere formalmente autorizzata da un tribunale militare.
 
Dopo aver sussunto i fatti nella norma incriminatrice di cui all’art. 185 c.p.m.g., il collegio constata che “il dibattimento non ha consentito di individuare, per ciascun evento di morte, gli esecutori materiali, ad eccezione del reo confesso Heinroth e dell’altrettanto reo confesso Luhmann”;sicché “l’accertamento deve aver presenti le regole che disciplinano il concorso di persone nel reato dettato dagli artt. 110 c.p. e ss. Questo comporta […] la valenza di tutti quei comportamenti che in qualsiasi modo abbiano cagionato o agevolato il crimine descritto dall’art. 185 c.p.m.g.”.
Tale valenza deve essere senz’altro riconosciuta alle condotte di tutti gli imputati, atteso che gli stessi “rivestivano la posizione di comandanti di compagnia, plotone e squadra ed hanno avuto un determinante ruolo nella catena di trasmissione degli ordini che hanno reso possibile il massacro della popolazione civile”: una qualunque interruzione della catena avrebbe precluso la traduzione di quell’ordine in azione concreta. Senza contare, inoltre, che “la scelta di obbedienza di ognuno degli ufficiali e sottoufficiali non può che aver rafforzato il proposito criminoso di ogni altro appartenente all’unità militare”, sicché a carico degli imputati è altresì configurabile una responsabilità a titolo di concorso morale.
 
Sintetica, infine, è la parte della motivazione dedicata all’elemento soggettivo del reato: alla luce delle risultanze probatorie, infatti, il collegio ritiene che non si possa dubitare della “consapevolezza circa il carattere dell’azione criminosa e della volontà di partecipare alla sua realizzazione insieme a tutti gli altri militari coinvolti”.
 
 
3. L’esclusione delle cause di giustificazione dell’adempimento del dovere e dello stato di necessità
 
Anche i profili di antigiuridicità delle condotte degli imputati vengono affrontati dalla sentenza in maniera unitaria.
 
Con riferimento alla scriminante dell’adempimento di un dovere, viene in rilievo l’art. 40 c.p.m.p. – attualmente abrogato ma più favorevole dell’art. 51 c.p. – ai sensi del quale “Per i reati militari, in luogo dell'articolo 51 del codice penale, si applicano le disposizioni dei commi seguenti. L'adempimento di un dovere, imposto da una norma giuridica o da un ordine del superiore o di altra autorità competente, esclude la punibilità. Se un fatto costituente reato è commesso per ordine del superiore o di altra autorità del reato risponde sempre chi ha dato l'ordine. Nel caso preveduto dal comma precedente, risponde del fatto anche il militare che ha eseguito l'ordine quando l'esecuzione di questo costituisce manifestamente reato”.
 
Il collegio afferma che la norma deve essere applicata congiuntamente al “par. 47 del codice penale militare tedesco, applicabile durante il conflitto mondiale, secondo il quale vigeva la regola della sostanziale irresponsabilità dell’esecutore materiale dell’ordine, a meno che questo non avesse ad oggetto un fatto manifestamente criminoso”.
 
Il problema consiste nell’ “individuazione del limite oltre il quale l’ordine del superiore non svolge più la sua efficacia esimente e si determina l’opposto dovere di disobbedienza”. Secondo la sentenza in esame, tale limite è rappresentato proprio dalla manifesta criminosità dell’ordine, da valutarsi secondo “un apprezzamento che fa parte integrante di ogni comune sensibilità e che, per tale evidente ragione, viene richiesto anche al subordinato chiamato a dare esecuzione agli ordini”.
 
Ebbene, concludono i giudici, “il sistematico ed indiscriminato sterminio della popolazione civile, intesa nella sua globalità e comprendente donne, vecchi e bambini, costituiva un crimine di abnorme efferatezza e si presentava con tali connotati a chiunque fosse stato chiamato, a qualsiasi titolo, a prendervi parte e dare il suo contributo”. Coerentemente, viene esclusa l’operatività della scriminante in parola.
 
Ugualmente la sentenza nega che gli imputati abbiano agito in stato di necessità, ai sensi dell’art. 54 c.p., “in relazione al supposto pericolo di vita– prospettato dai difensori degli imputati – che correvano quei militari tedeschi che si fossero rifiutati di dare obbedienza agli ordini ricevuti dai loro superiori”.
 
A parte la considerazione che l’esimente in parola è stata spesso invocata nei processi contro i gerarchi nazisti, a partire da quello di Norimberga, senza che, però, sia stato comprovato un solo caso di esecuzioni sommarie di militari disobbedienti”; assorbente è la considerazione che l’art. 54 c.p. potrebbe tutt’al più essere invocato dal “militare chiamato materialmente a dare esecuzione all’ordine di sparare, cioè ad un soggetto che versa in una situazione psicologica connotata da particolare pathos e, non, dalla freddezza ed opportunità di riflessione che, invece, accompagna la fase ideativa e preparatoria”. Ora, “poiché l’eccidio non fu un’operazione improvvisata […] ma anzi scrupolosamente preparata, e data l’importanza e l’autonomia funzionale garantita anche alle unità più piccole […], deve ritenersi che il primo momento in cui ciascuno degli ufficiali o dei sottoufficiali impiegati fornì il proprio decisivo contributo fu proprio quello in cui vi fu la comunicazione dell’obiettivo da perseguire e la ripartizione delle rispettive competenze […] quando la pressione psicologica non poteva che essere inferiore”.
 
Né è privo di rilievo osservare che – conclude sul punto la sentenza – portando alle estreme conseguenze la linea difensiva dello stato di necessità si arriverebbe al paradosso – respinto con decisione da tutte le sentenze per crimini di guerra – di giustificare gli imputati a tutti i livelli gerarchici, finendo con l’impossibilità di addebitare ad alcuno, se non al capo supremo, cioè al Führer stesso, la responsabilità di tutto”.
 
 
4. Le questioni civili
 
Nel procedimento si sono costituite numerose parti civili: la Presidenza del Consiglio dei Ministri, alcuni enti territoriali (in particolare le Regioni, le province ed i comuni interessati dai fatti), centinaia di persone fisiche e l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Tutte hanno chiesto la condanna degli imputati in solido al risarcimento del danno; alcune anche la condanna della Repubblica Federale di Germania quale responsabile civile.
 
Alla luce dei “compiti di tutela e di rappresentanza degli interessi delle comunità locali loro affidati dall’ordinamento”, lo Stato e gli enti locali sono stati riconosciuti quali soggetti danneggiati. Salva la concessione di alcune somme a titolo di provvisionale, la quantificazione del risarcimento è stata rimessa al giudizio civile.
 
Ai parenti delle vittime il collegio ha riconosciuto danni sia jure hereditario che jure proprio– questi ultimi derivati dalla lesione dei diritti inviolabili, costituzionalmente riconosciuti, connessi alla sfera degli affetti famigliari – accordando provvisionali comprese tra i 1.000 ed i 300.000 euro.
 
La pretesa risarcitoria dell’A.N.P.I. è stata dichiarata ammissibile, con il riconoscimento di una provvisionale di 50.000 euro, “sia per la continuità tra i gruppi-formazioni partigiane e l’Associazione, sia per via degli scopi perseguiti fin dal momento in cui essa è stata eletta ad ente morale il 5 aprile 1945”.
 
Infine la sentenza ha condannato la Repubblica Federale di Germania quale responsabile civile, osservando, sulla scorta di una giurisprudenza consolidata, che “nel caso di gravi violazioni del diritto umanitario” è “inoperante il principio consuetudinario internazionale di immunità degli Stati dalla giurisdizione per atti compiuti iure imperii”, atteso che “la violazione dei diritti fondamentali dell’uomo che contraddistingue i crimini contro l’umanità segna il punto di rottura tollerabile della sovranità”.
 
 
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