ISSN 2039-1676


28 maggio 2012 |

La Grande Camera della Corte EDU nel caso Scoppola (n. 3): la disciplina italiana della decadenza dal diritto di voto dei detenuti non contrasta con l'art. 3 Prot. 1

Nota a Corte EDU, grande camera, sent. 22 maggio 2012, Scoppola c. Italia (n. 3)

Con la sentenza qui  allegata la grande camera della Corte EDU (con sedici voti a favore e un solo dissenso) ha completamente ribaltato il giudizio espresso dalla seconda sezione in merito alla compatibilità con l'art. 3 Prot. 1 della disciplina italiana sull'interdizione dei pubblici uffici, da cui discende - ai sensi  dell'art. 28 co. 1 n. 1 c.p. - la privazione dell'elettorato attivo e passivo [cfr. sul punto L. Beduschi - A. Colella, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il diritto a libere elezioni (art. 3 Prot. 1), in Dir. pen. cont. - Riv. trim., 2011, pp.  328-333].

Nella sentenza Scoppola c. Italia (n. 3) del 18 gennaio 2011 - della quale avevamo a suo tempo dato conto su questa Rivista - i giudici della seconda sezione avevano censurato la disciplina italiana in ragione dell'automatismo della privazione del diritto di voto (che consegue direttamente alla condanna, annoverandosi tra gli effetti penali della stessa, e della quale non viene neppure fatta menzione nella sentenza di condanna); automatismo che era già stato stigmatizzato dalla Corte nelle sentenze Hirst c. Regno Unito (n. 2) del 2005, Frodl c. Austria dell'aprile 2010 e Greens e M.T. c. Regno Unito del novembre 2010.

La grande camera, ribadita la validità del precedente Hirst c. Regno Unito (n. 2), vero e proprio leading case in materia, ne ha tuttavia dato un'interpretazione restrittiva: il contrasto con l'art. 3 Prot. 1 Cedu - ha affermato la Corte - si manifesta esclusivamente quando la privazione del diritto di elettorato attivo costituisce una misura di carattere generale, automatico e indiscriminato e si fonda esclusivamente sulla pronuncia di una sentenza di condanna, senza che vengano in considerazione la durata della pena inflitta, la natura e la gravità dei reati e le circostanze personali del detenuto; mentre non è necessario che tali elementi siano presi concretamente in esame dal giudice di merito per valutare se la privazione del diritto di elettorato attivo possa dirsi, nel caso di specie, proporzionata ai sensi dell'art. 3 Prot. 1.

L'assenza di un'uniformità di soluzioni nel panorama europeo attribuisce infatti agli Stati membri un margine di apprezzamento particolarmente ampio in materia: essi possono pertanto decidere se demandare al giudice il suddetto vaglio di proporzionalità o invece  predeterminare in astratto, tramite la previsione di apposite norme di legge, i presupposti ai quali consegue l'applicazione di tale misura (in particolare, individuando un elenco di reati ad hoc o una soglia di pena al di sotto della quale la stessa non opera).

Alla luce di tale lettura della sentenza Hirst, la grande camera ha rilevato come il legislatore italiano abbia in effetti preso in considerazione la gravità e la natura dei reati che determinano la privazione del diritto di voto nello stabilire che la stessa consegua a una condanna ad almeno tre anni di reclusione, o alla condanna per un delitto realizzato con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio: ciò che consente, appunto, di escludere il carattere generale, automatico e indiscriminato che aveva spinto in precedenza la Corte a censurare la disciplina prevista dall'ordinamento inglese.

Per suffragare ulteriormente il proprio orientamento, la Corte EDU ha rilevato che un gran numero di detenuti in Italia conservano il diritto di votare alle elezioni politiche e, soprattutto, che la legge prevede la possibilità di riacquistare il diritto di elettorato attivo una volta ottenuta la riabilitazione.

In forza di tali considerazioni, essa ha dunque escluso la violazione dell'art. 3 Prot. 1.

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Per comprendere appieno la portata della sentenza in commento occorre tener conto delle implicazioni della stessa sul caso Greens e M.T. c. Regno Unito.

Il 23 novembre 2010, proprio con tale pronuncia, la Corte EDU aveva rilevato come  il legislatore inglese non avesse apportato alcuna modifica alla normativa censurata nel 2005 con la citata sentenza Hirst, e gli aveva pertanto imposto di sottoporre al Comitato dei Ministri una proposta di riforma entro sei mesi dalla data in cui la stessa fosse divenuta definitiva.

L'11 aprile 2011 un comitato di cinque giudici rigettava la richiesta di rinvio alla grande camera, facendo così acquisire carattere di definitività alla suddetta pronuncia.

Nell'agosto 2011, nondimeno, la Corte accoglieva la richiesta del Regno Unito di far decorrere i sei mesi per la presentazione del progetto di riforma legislativa non da tale data, ma quella in cui la grande camera si fosse pronunciata sul caso Scoppola c. Italia (n. 3). In ragione di ciò, il Governo inglese veniva autorizzato a presentare osservazioni in ques'ultimo procedimento ai sensi dell'art. 36 § 2 Cedu (che disciplina l'intervento di terzi nei procedimenti dinanzi alla Corte EDU).

La pronuncia in commento ha, dunque, una duplice valenza.

Per quel che concerne l'ordinamento italiano, essa fa venir meno i rilievi di contrarietà all'art. 3 Prot. 1 che la seconda sezione aveva formulato in relazione alla disciplina delineata dal combinato disposto degli artt. 19, 20 e 28 co. 1 n. 1) c.p.: poiché lo Stato italiano non ha oltrepassato il proprio margine di apprezzamento in materia, non si rende necessario alcun intervento di riforma da parte del legislatore (né tantomeno una pronuncia della Corte costituzionale che censuri tale disciplina ex artt. 117 co. 1 Cost e 3 Prot. 1 Cedu).

Per quel che attiene invece agli altri ordinamenti - primi fra tutti quello inglese - la sentenza individua le linee-guida che dovranno orientare in futuro l'attività del legislatore, ribadendo da un lato che la privazione dei pubblici uffici non può conseguire in modo automatico a qualsiasi condanna a pena detentiva, ma precisando dall'altro che non è necessario attribuire al giudice del merito il potere di vagliare, caso per caso, se la suddetta misura sia o no proporzionata rispetto alla gravità dei fatti contestati e all'entità della pena inflitta.

Da oggetto di censura, la disciplina italiana diviene dunque, paradossalmente, una sorta di "modello"  esportabile in altri Paesi membri del Consiglio d'Europa. Il non detto della pronuncia suona pressappoco così: se il Regno Unito presenterà una proposta di riforma che grossomodo ricalchi quella prevista dal codice penale italiano, essa passerà indenne il vaglio del Comitato dei Ministri e scongiurerà, per il futuro, ulteriori sentenze di condanna da parte della Corte EDU.

Per altro verso, la sentenza Scoppola (n. 3) costituisce un'espressione emblematica dell'orientamento più rispettoso del margine di apprezzamento dei singoli Stati di recente fatto proprio dalla Corte EDU, e in particolar modo dalla grande camera (si pensi, in particolare, alle pronunce A, B e C c. Irlanda del dicembre 2010 in tema di aborto e S.H. e altri c. Austria del novembre 2011 in tema di fecondazione assistita eterologa).

Tale orientamento, che di fatto anticipa una importante novità di recente prefigurata dalla Conferenza di Brighton (una modifica della Convenzione che introduce un riferimento espresso, nel riformulando Preambolo della Convenzione, al criterio del margine di apprezzamento), ha per un verso il pregio di non urtare le diverse sensibilità nazionali, specie su temi eticamente sensibili, ma per altro verso espone maggiormente la Corte alle censure di quanti la reputano un organo non realmente indipendente, o comunque troppo condizionato da fattori lato sensu politici.

E' difficile pensare, in effetti, che la lettura restrittiva del precedente Hirst e il revirement rispetto alla pronuncia della seconda sezione nel caso Scoppola (n. 3) non abbiano nulla a che vedere con le reazioni fortemente critiche che la sentenza Green c. M.T. ha suscitato nell'opinione pubblica inglese, e più in generale con il dibattito - accesissimo nel Regno Unito dopo alcune recenti condanne inanellate a Strasburgo - sull'opportunità di denunciare la Convenzione europea dei diritti dell'uomo e uscire dal Consiglio d'Europa, proprio per sottrarsi alle indebite "ingerenze" della Corte EDU.

Solo le future prese di posizione della Corte mostreranno se essa sia effettivamente in grado di non delegittimarsi sé attraverso la progressiva fissazione di standard di tutela dei diritti umani che si avvicinano sempre più alla ratifica dello status quo.