ISSN 2039-1676


17 novembre 2010 |

Aggravante dei motivi abietti e reati culturalmente motivati

Nota a Cass. pen., sez. II, 18.2.2010, n. 6587 (caso Hina Saleem)

Con la sentenza che può leggersi in calce, la Cassazione ha affermato che nella qualificazione del motivo come “abietto”, al fine dell’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 1 c.p., il giudice non può prescindere, nel suo scrutinio, dalle ragioni soggettive dell’agire in termini di “riferimenti culturali, nazionali e religiosi”.
 
La vicenda è quella tristemente nota alle pagine di cronaca nera dei quotidiani nazionali. Hina Saleem, una ragazza poco più che ventenne di origine pakistana, trasferitasi in Italia con la famiglia da qualche anno, cerca di integrarsi nella cultura occidentale, ne accetta i costumi e sceglie di convivere con un ragazzo italiano non musulmano, in contrasto con la volontà paterna che la vuole invece sposa di un uomo della sua stessa nazionalità. Per effetto di tale dissidio il padre, aiutato da alcuni parenti, la uccide sgozzandola e ne occulta il cadavere nel giardino di casa.
 
Condannato in primo grado a trent’anni con rito abbreviato, confermati in appello, il padre di Hina ricorre per cassazione al fine, tra l’altro, di censurare la sussistenza dell’aggravante dei motivi abietti: la sua condotta, infatti, sarebbe derivata “dal profondo scoramento per non essere riuscito nel suo ruolo di educatore e dal senso di vergogna nei confronti della comunità di appartenenza”.
 
La Cassazione riconosce che il motivo è abietto le volte in cui la motivazione dell’agente ripugni al comune sentire della collettività e, cosa ancora più importante con riferimento al valore della motivazione culturale del reato commesso dall’agente, che nella valutazione di siffatto rapporto di repulsione il giudice del merito non possa prescindere, nel suo scrutinio, dalle ragioni soggettive dell’agire in termini di riferimenti culturali, nazionali, religiosi dell’atto criminoso.
 
I giudici di legittimità ritengono tuttavia che, nel caso di specie, il reato non sia connesso alla cultura del soggetto in quanto “la motivazione assorbente dell’agire dell’imputato è scaturita da un patologico e distorto rapporto di ‘possesso parentale’, essendosi la riprovazione furiosa del comportamento negativo della propria figlia fondata non già su ragioni o consuetudini religiose o culturali (in tal senso si sarebbe dovuto accertare l’esistenza di una sequela di riprovazioni basate su tali ragioni o consuetudini) bensì sulla rabbia per la sottrazione al proprio reiterato divieto paterno”.
 
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Si può pertanto ritenere sulla via di un definitivo superamento il precedente orientamento, prevalente presso la giurisprudenza, che vedeva, quale parametro in base al quale valutare l’abiezione o la futilità del motivo, il sentire comune della comunità sociale (cfr. Cass. 29 marzo 2002, CED 221525), lacoscienza collettiva(cfr. Cass. 21 settembre 2007, CED 237686), la percezione della persona di media moralità (cfr. Cass. 8 febbraio 1985, Di Ponio, in Giust. Pen., 1985, II, pag. 617) o della generalità delle persone (Cass. 11 luglio 1996, in Cass. pen. 1997, p. 2046), tutti parametri i quali precludono all’autore non italiano di un reato culturalmente motivato la possibilità di appellarsi alla propria cultura d’origine per sottrarsi all’applicazione dell’aggravante di cui si tratta (per un’ampia disamina sul tema, nella quale si esprimono anche valutazioni sulla speculare fattispecie dell’attenuante dell’“aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale” di cui all’art. 62 n. 1 c.p., cfr. Basile, “Immigrazione e reati culturalmente motivati”, 2010, pagg. 436 e ss. Si veda inoltre, con riferimento alla qualificazione di tale attenuante come “idonea a regolare le ipotesi di conflitti culturali”, De Maglie, “I reati culturalmente motivati”, Pisa, 2010, p. 241 e ss. ).
 
Viene quindi di fatto esteso anche all’abiezione dei motivi quel complesso di riflessioni che la giurisprudenza aveva già posto in essere con riferimento alla futilità degli stessi.
 
 In una pronuncia del 1999, infatti (cfr. Cass. 16 aprile 1999, Casile, CED 213378), la Suprema Corte aveva ritenuto che “il giudizio sulla futilità del motivo non può essere astrattamente riferito ad una medianità comportamentale, peraltro difficilmente definibile in una realtà sociale per molti versi disomogenea, ma va ancorato agli elementi concreti della fattispecie, tenendo conto delle connotazioni culturali del soggetto giudicato, nonché del contesto sociale in cui si è verificato l’evento e dei fattori ambientali che possono aver condizionato la condotta criminosa”.
 
La sentenza in oggetto si poneva in un’ottica di continuum con alcune precedenti pronunce di poco precedenti, nelle quali si era messa in evidenza la necessità di dare adeguato spazio all’ambiente in cui viveva il reo (cfr. Cass. 22 gennaio 1996, Pellegrino, CED 203548 nonché Cass. 21 febbraio 1994, Etzi, CED 196416. Nello stesso senso anche Cass. 27 gennaio 1996, Coppolato, CED 203499 in cui la Cassazione aveva disposto l’esclusione dell’aggravante in questione qualora si accertasse che la reazione abnorme fosse dovuta a “concezioni particolari, in base alle quali si sia portati ad annettere a certi eventi un’importanza di gran lunga maggiore rispetto a quella che la maggioranza della gente normalmente vi riconnette”).
 
L’importanza di pronunzie di questo genere è quella rilevata dalla dottrina (cfr. Basile, op. cit., pag. 439), che ha evidenziato come l’estensione di siffatte valutazioni ai motivi abietti avrebbe aperto un varco attraverso il quale giudicare i motivi per i quali gli autori di un reato hanno agito sulla base di valori “non necessariamente coincidenti con quelli della cultura di maggioranza. Il tutto, ovviamente, prestando la dovuta attenzione a che i responsabili delle condotte in questione non invochino questa difesa a sproposito, tentando di giustificare mediante la propria cultura comportamenti in realtà considerati sproporzionati anche in tale prospettiva.
 
Simili riflessioni sono state impiegate dalla sentenza in commento. Confermando la sussistenza dei motivi in parola, la Cassazione ha in effetti accolto la valutazione della vicenda prospettata dal Tribunale, che aveva ritenuto esistente l’aggravante di cui all’art. 61 n. 1 c.p. “anche parametrando il motivo del delitto, così come ricostruito, alle connotazioni culturali del soggetto ed al contesto sociale in cui si è verificato l’evento”. Alla stessa comunità pakistana infatti il fatto era parso “privo di qualsiasi proporzione ed i motivi biasimevoli ed assolutamente insufficienti a portare all’azione così come concretamente realizzata.
 
Proprio questa sottolineatura ad opera dei giudici di merito, e non la semplice valutazione di un “patologico e distorto rapporto di possesso parentale”, appare di rilevante importanza. Il riferimento a un simile "rapporto di possesso parentale", infatti, se non valutato attentamente, potrebbe rappresentare semplicemente una maschera dietro la quale nascondere considerazioni che ineriscono in realtà proprio ai motivi culturali.
 
Si è osservato infatti in dottrina (cfr. Basile, op. cit.; si veda anche De Maglie, op. cit.) come tali motivi emergano con forza proprio nelle relazioni parentali delle quali i rapporti tra moglie e marito, nonché tra padre e figlia, costituiscono le ipotesi più comuni.
 
Conseguentemente, una generica valutazione quale quella in precedenza sottolineata, che non tenga conto della complessità delle implicazioni culturali che ne stanno alla base, costituirebbe in realtà una sorta di frode delle etichette, dietro alla quale poco spazio avrebbe una reale considerazione per i motivi che hanno determinato la condotta dell’agente.