ISSN 2039-1676


15 luglio 2013 |

Nuova dichiarazione di illegittimità dell'art. 34 c.p.p.: incompatibile, dopo l'annullamento con rinvio, il giudice della esecuzione che abbia provveduto su continuazione o concorso formale di reati

Corte cost., 9 luglio 2013, n. 183, Pres. Gallo, rel. Frigo

1. La Corte costituzionale prosegue la sua opera di definizione delle ipotesi di incompatibilità del giudice, quale presidio fondamentale di terzietà e imparzialità, principi riconosciuti oggi dall'art. 111, comma 2, Cost. Come noto, sin dall'entrata in vigore del codice di rito, la norma dell'art. 34 c.p.p. ha suscitato un vivo interesse nella giurisprudenza costituzionale, che ha arricchito di volta in volta il novero delle ipotesi[1]. In questo filone, si inserisce la declaratoria di illegittimità costituzionale che ha coinvolto gli artt. 34, comma 1, e 623, comma 1, lett. a), c.p.p.

Nel caso di specie, il giudice per le indagini preliminari, in qualità di giudice dell'esecuzione, aveva rigettato la richiesta del condannato di applicare la continuazione, ai sensi dell'art. 671 c.p.p., in relazione a due reati di rapina aggravata giudicati separatamente: a suo dire, le due vicende non erano riconducibili a un medesimo disegno criminoso. La Corte di cassazione rilevava l'incompletezza della motivazione del provvedimento di rigetto e lo annullava con rinvio allo stesso giudice per le indagini preliminari. Questi segnalava la sua ritenuta incompatibilità al magistrato coordinatore della sezione, il quale decideva di assegnargli comunque il procedimento: infatti, la giurisprudenza di legittimità aveva avuto modo di chiarire che solo l'annullamento con rinvio di una sentenza implica l'assegnazione del procedimento a un giudice-persona fisica diverso. Diversamente, secondo un consolidato orientamento, con riguardo alle ordinanze non si porrebbe alcuna situazione di incompatibilità, tanto più che è lo stesso art. 623 c.p.p. a prospettare tale distinzione[2].

Di fronte al quadro così delineato, il giudice per le indagini preliminari sollevava questione di legittimità costituzionale degli artt. 34 e 623, lett. a), c.p.p. «nella parte in cui non prevedono l'incompatibilità a partecipare al giudizio di rinvio del giudice che, quale giudice dell'esecuzione, abbia pronunciato ordinanza - annullata dalla Corte di cassazione - di accoglimento o di rigetto della richiesta di applicazione della continuazione».

Il rimettente denunciava, anzitutto, la lesione dei principi di imparzialità e di terzietà del giudice, sanciti dall'art. 111, comma 2, Cost.: il vaglio al quale è tenuto il giudice per l'applicazione della continuazione in executivis è un giudizio di merito e chiamarlo a pronunciarsi nuovamente sulla medesima questione non lo fa apparire, appunto, terzo e imparziale. Inoltre, a detta del giudice a quo, sarebbe violato anche l'art. 3 Cost., in quanto si prospetterebbe un'ingiustificata disparità di trattamento tra la fase di cognizione e quella esecutiva: l'identica valutazione - di accoglimento o rigetto - dell'istanza di applicazione della continuazione comporta, nell'ipotesi di annullamento con rinvio, incompatibilità in un caso e non nell'altro.

 

2. La Corte costituzionale aderisce all'interpretazione fornita dal giudice per le indagini preliminari e ritiene fondata la questione di legittimità degli artt. 34 e 623, lett. a), c.p.p.

I giudici della Consulta prendono le mosse dalla ratio delle previsioni di incompatibilità, che sono finalizzate «ad evitare che la decisione sul merito della causa possa essere o apparire condizionata dalla "forza della prevenzione" - ossia dalla naturale tendenza a confermare una decisione già presa o a mantenere un atteggiamento già assunto - scaturente da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda»[3]. In particolare, la Corte si concentra sulla c.d. incompatibilità verticale, la quale è posta dal primo comma dell'art. 34 c.p.p., a presidio del sistema delle impugnazioni, che assume valenza garantistica proprio in virtù dell'«alterità tra il giudice che ha emesso la decisione impugnata e quello chiamato a riesaminarla». Ebbene, siffatto presidio viene riconosciuto nell'ottica di una progressione non solo "ascendente", ma anche "discendente", vale a dire nei confronti del giudice del rinvio. Tuttavia, la disposizione dell'art. 34 e lo stesso art. 623 c.p.p. circoscrivono la portata dell'incompatibilità a quel giudice che «ha pronunciato o concorso a pronunciare sentenza»: ciò che comporta l'esclusione dall'àmbito applicativo di tutti quei provvedimenti diversi, incluse le ordinanze. E, come si è ricordato, è pacifica in giurisprudenza l'affermazione secondo la quale - in particolare nella materia cautelare, ma non solo - il giudizio di rinvio può essere celebrato dallo stesso giudice-persona fisica. 

 

3. La Corte rileva, riguardo al giudizio di rinvio nel procedimento di esecuzione concernente l'applicazione dell'art. 81 c.p., come «la mancata previsione dell'incompatibilità in tale ultima ipotesi confligg[a] con entrambi i parametri evocati dal giudice rimettente, determinando una incongruenza interna tra la ratio dell'art. 671 c.p.p. e i suoi effetti».

L'art. 671 c.p.p. rappresenta una delle novità più significative del codice Vassalli e trova il suo fondamento nell'esigenza di garantire un uguale trattamento sanzionatorio al condannato per più reati giudicati con procedimenti separati, anziché con simultaneus processus[4]. Questa ricerca dell'uguaglianza, tuttavia, se vale «in rapporto alla determinazione del trattamento sanzionatorio (applicazione del cumulo giuridico delle pene, in luogo del cumulo materiale), (...) non può non valere anche in relazione all'applicazione della disciplina sull'incompatibilità del giudice, posta a presidio della sua imparzialità».

La Corte fa leva su due considerazioni.

Da un lato, il sindacato cui è chiamato il giudice dell'esecuzione nel caso di richiesta di applicare la continuazione non consiste in un mero scrutinio attinente all'esecuzione delle pronunce di condanna, ma è un accertamento sul merito delle imputazioni: in dottrina, si è parlato infatti di una sorta di «frammento di cognizione finito (...) nella fase della esecuzione penale»[5]. Invero, l'accertamento della connotazione unitaria del disegno criminoso comporta «valutazioni tecnico-giuridiche attinenti al fatto, tanto sul piano teorico che su quello operativo».

Dall'altro lato, la Corte rileva come l'art. 671 c.p.p. implichi «l'apertura di una evidente breccia nel principio di intangibilità del giudicato»: il giudice dell'esecuzione può modificare le pene principali, ma anche incidere sulle pene accessorie e sulle misure di sicurezza, nonché sugli stessi effetti penali della condanna (art. 671, comma 3, c.p.p.).

Sulla scorta di tali caratteri, si è concluso che «l'apprezzamento demandato al giudice dell'esecuzione presenta, dunque, tutte le caratteristiche del "giudizio", quali delineate dalla giurisprudenza di questa Corte». Se da esso possono derivare "pregiudizi" e "condizionamenti", ne consegue che il giudice chiamato a effettuare tale delicata valutazione dopo l'annullamento con rinvio potrà essere (e apparire) imparziale solo ove si tratti di persona fisica diversa da quella che ha già giudicato sulla stessa domanda.

Di qui la declaratoria di illegittimità costituzionale degli artt. 34 e 623, comma 1, lett. a), c.p.p. nella parte in cui non prevedono che non possa partecipare al giudizio di rinvio dopo l'annullamento il giudice che ha pronunciato o concorso a pronunciare ordinanza di accoglimento o rigetto della richiesta di applicazione in sede esecutiva della disciplina del reato continuato, ai sensi dell'art. 671 c.p.p.

Peraltro, la Corte non si è fermata a tanto; ha infatti esteso in via consequenziale la declaratoria di illegittimità anche all'ipotesi dell'annullamento con rinvio dell'ordinanza che si pronunci sulla richiesta di applicazione in sede esecutiva della disciplina del concorso formale: a detta della Corte, si tratta di «fattispecie regolata congiuntamente a quella oggetto del quesito dallo stesso art. 671 cod. proc. pen. e in rapporto alla quale valgono le stesse considerazioni».

 


[1] Sul tema dell'incompatibilità di cui all'art. 34 c.p.p., basti richiamare G. Di Chiara, L'incompatibilità endoprocessuale del giudice, Torino, 2000; G. Guiducci, L'incompatibilità a giudicare, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, Vol. I, Soggetti e atti, a cura di G. Dean, Torino, 2008, p. 242 ss.; P.P. Rivello, L'incompatibilità del giudice penale, Milano, 1996, p. 206 e ss. (in particolare, 228 ss. Sui rapporti con gli artt. 604 e 623 c.p.p.).

[2] Cfr., tra le tante, Cass., sez. I, 12 gennaio 2009, Giardini, in Riv. pen., 2009, 1448; Cass., sez. I, 15 gennaio 2008, Varagnolo, in Arch. n. proc. pen., 2009, 106; Cass., sez. I, 19 maggio 2004, Montini, in Cass. pen., 2005, 2630.

[3] Si veda Cass., sez. IV, 28.11.2008, n. 47405; Cass., sez. I, 15.1.2008, n. 2098.

[4] In tema di applicazione della disciplina del reato continuato in executivis, si veda L. Marafioti, La separazione dei giudizi penali, Milano, 1990, p. 420 ss.; D. Potetti, La prova nel procedimento esecutivo di cui all'art. 671 c.p.p., in Cass. pen., 1996, p. 1685 ss.; G. Varraso, Il reato continuato tra processo ed esecuzione penale, Padova, 2003, p. 357 ss.

[5] Così, D. Paoletti, La prova nel procedimento esecutivo di cui all'art. 671 c.p.p., in Cass. pen., 1996, p. 1686.