ISSN 2039-1676


26 settembre 2013 |

Il caso Belpietro c. Italia: la pena detentiva per la diffamazione è contraria all'art. 10 CEDU

Corte eur. dir. uomo, Sez. II, sent. 24 sett. 2913, Belpietro c. Italia, ric. n. 42612/10

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1. Con la sentenza Belpietro c. Italia, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo torna ad occuparsi del diritto alla libertà d'espressione per riaffermare a chiare lettere un principio espresso più volte in sentenze concernenti altri Stati, ma mai sinora nei confronti dell'Italia: l'incompatibilità, cioè, con l'art. 10 CEDU dell'inflizione di una pena detentiva, ancorché sospesa, nei confronti di un giornalista riconosciuto responsabile di diffamazione. La pronuncia è tanto più significativa  se si considera che la Corte non censura la valutazione dei giudici italiani sull'an della responsabilità penale per il delitto di diffamazione,  ravvisando gli estremi della violazione unicamente nell'inflizione della pena della reclusione, ed indipendentemente dal quantum della stessa.

 

2. Ma andiamo con ordine. Maurizio Belpietro viene imputato di diffamazione, nella sua veste di direttore del quotidiano Il Giornale, per avere omesso il controllo - dovuto a norma dell'art. 57 c.p. - sul contenuto dell'articolo «Mafia, tredici anni di scontri tra P.M. e Carabinieri» pubblicato, a firma del senatore Raffaele Iannuzzi, il 7 novembre 2004. Nello scritto - sono parole della Corte - si accusavano i magistrati della Procura della Repubblica di Palermo di avere, tra le altre cose, posto in essere «comportamenti espressivi di un utilizzo distorto dei poteri istituzionali, tra i quali una vera e propria "persecuzione" nei confronti del Generale Mori, il "giochetto" consistente nell'apertura di procedimenti penali destinati a finire in nulla, l'omissione di indagini su certi uomini politici ed imprenditori, e la possibilità, lasciata al pentito Di Maggio, di commettere omicidi» (§ 56).

Il procedimento parallelo nei confronti dell'autore dell'articolo si conclude nel novembre 2007 con la pronuncia di sentenza di non luogo a procedere, avendo nel frattempo il Senato della Repubblica ritenuto le espressioni ivi riportate coperte dalla garanzia di cui all'art. 68 della Costituzione.

Belpietro, invece, viene assolto in primo grado: il Tribunale di Milano, infatti, ritiene l'articolo espressione del diritto di critica giornalistica, sorretto dall'interesse pubblico alla conoscenza dei fatti raccontati, esposti per di più nel rispetto delle regole della continenza formale. Il pezzo, in buona sostanza, non si concretizzava secondo i giudici di prima istanza in un attacco gratuito avverso la reputazione dei querelanti, i magistrati Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte, ma forniva informazioni e dati obiettivamente veri e, sia pur in un quadro complessivo quantomeno «irriverente» (§16), costituiva esercizio della libertà d'espressione.

La Corte d'Appello, investita del ricorso presentato dalla Procura milanese, è invece dell'avviso opposto e, riconosciuto l'imputato colpevole, lo condanna a quattro mesi di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale. La natura diffamatoria dell'articolo, in particolare, emergeva secondo i giudici del gravame sia dalla presentazione grafica del pezzo e dal rilievo assegnato al titolo e all'occhiello - 'settori', questi, ritenuti di più stretta 'pertinenza' del direttore della testata - sia dal testo dello stesso, costellato di affermazioni volte ad «accusare in modo puntuale i magistrati Caselli e Lo Forte d'aver agito in malafede nell'esercizio dei propri poteri» (§ 24) e di insinuazioni gratuite dirette a nuocere gravemente alla loro reputazione professionale. L'articolo, in buona sostanza, oltrepassava i limiti della critica obiettiva esercitata, ancorché aspramente, da un «terzo osservatore dei fatti», e si traduceva in una aggressione gratuita all'altrui sfera morale.

La Corte di Cassazione, con sentenza del 5 marzo 2010, conferma la condanna.

 

3. La Corte europea avvia il proprio esame muovendo, come di consueto, dai presupposti cui l'art. 10 della Convenzione subordina la possibilità di ammettere restrizioni alla libertà d'espressione: a) la previsione di legge e b) la necessità in una società democratica. Non controverso, ovviamente, è il primo requisito: l'art. 57 c.p. è assolutamente chiaro nell'incriminare condotte lesive dell'altrui reputazione.

L'attenzione dei giudici, pertanto, si concentra sull'elemento sub b). In premessa, la Corte rammenta la centralità del ruolo che nello sviluppo di una società democratica riveste una libera stampa, gravata del dovere (e del diritto) di informare su tutte le questioni di interesse generale, comprese quelle relative all'amministrazione della giustizia (cfr. sent. 24 febbraio 1997, De Haes e Gijsels c. Belgio, § 37). La stampa - prosegue la Corte - gioca un ruolo indispensabile di «cane da guardia» (§ 47) del principio democratico, per la cui esplicazione può e deve ammettersi un certo ricorso all'esagerazione e finanche alla provocazione.

I pubblici funzionari, e tra questi i magistrati, sono d'altra parte esposti a critiche in misura (necessariamente) più estesa di quella tollerabile per i comuni cittadini; ma i limiti che vi presiedono - che altrettanto necessariamente debbono essere più ristretti di quelli ammissibili per gli uomini politici, esposti al controllo del pubblico non soltanto per quanto concerne l'esercizio delle funzioni, ma anche per i propri comportamenti - non possono essere valicati. I Tribunali - rammenta infatti la Corte - sono garanti della giustizia, e necessitano «della fiducia dei cittadini per funzionare adeguatamente» (§ 48), senza subire indebite ingerenze o, peggio, attacchi «destituiti d'un serio fondamento».

Nella valutazione della necessità dell'interferenza con la libertà d'espressione la Corte sottolinea infine che il diritto del giornalista è tutelato a condizione che egli agisca « in buona fede, sulla base di fatti correttamente riportati, e fornisca informazioni "affidabili e precise" nel rispetto dell'etica giornalistica» (§ 52; sul punto, v. sent. 21 gennaio 1999 (Grande Camera), Fressoz e Roire c. Francia, § 54 , e sent. 26 aprile 1995, Prager e Oberschlick c. Austria, §§ 36-38). «Doveri e responsabilità» connessi alla professione di giornalista assumono, dunque, tanto più rilevanza allorché si rischi di offendere la reputazione di una persona determinata o, più in generale, di ledere i diritti altrui.

 

4. Tutto ciò premesso, la Corte osserva come oggetto dell'articolo fosse effettivamente un argomento di interesse generale; ma, condividendo in ciò la valutazione dei giudici interni, ritiene che le gravi accuse mosse ai magistrati palermitani fossero del tutto «sprovviste di elementi fattuali» a sostegno (§ 56). I giudici, anzi, richiamano la sentenza 6 maggio 2003, Perna c. Italia, in cui la Grande Camera aveva escluso la violazione dell'art. 10 CEDU proprio sulla scorta del rilievo che l'articolo allora in questione forniva la distorta immagine di un magistrato non rispettoso dei doveri deontologici e privo dei fondamentali requisiti di imparzialità, indipendenza ed obiettività: ciò che - chiosa implicitamente la Corte - è accaduto anche nel caso in esame.

Né del resto, affermano obiter i giudici, potrebbe la natura della responsabilità del direttore - che risponde di omesso controllo sull'altrui commissione di un reato - indurre a ritenere l'intero art. 57 c.p. tout court incompatibile con la Convenzione, o piuttosto esonerare il responsabile del quotidiano del dovere di controllare la propria pubblicazione anche laddove si offra spazio alle opinioni di membri del Parlamento, non rilevando la qualità di senatore ai fini della neutralizzazione della carica lesiva delle affermazioni riportate. A tal proposito, anzi, la Corte rammenta che la libertà d'espressione di un uomo politico non può in ogni caso dirsi illimitata, dovendosi al contrario valorizzare, ai fini dell'operatività di cause di non punibilità quali quella prevista dalla nostra Costituzione, un «legame effettivo [dell'esternazione diffamatoria] con l'attività parlamentare» (cfr. sent. 30 gennaio 2003, Cordova c. Italia n. 1, §§ 59-66).

Il direttore del quotidiano, proseguono i giudici, è altresì responsabile della veste grafica dell'articolo, del modo in cui la notizia è presentata e della rilevanza che le viene attribuita nell'economia della pubblicazione. E nel caso in esame, oltre agli elementi già menzionati, anche la fotografia del Generale Mori posta al centro della pagina, accompagnata da una didascalia con richiami alla «persecuzione» da questi subita, e alla «guerra» condotta dalla Procura di Palermo contro i Carabinieri, è espressiva di una scelta editoriale certamente lesiva dell'onorabilità professionale dei magistrati interessati.

Conseguentemente, chiosa la Corte, per tutti gli elementi esaminati, e per quanto concerne la responsabilità del direttore del quotidiano, la condanna del ricorrente - si noti: in sede penale - non può certamente dirsi incompatibile con l'art. 10 CEDU (§ 60).

 

5. Tuttavia, l'ultimo elemento decisivo che la Corte deve valutare per poter licenziare come legittima l'interferenza con la libertà d'espressione risiede nella natura e nella gravità della sanzione concretamente inflitta al ricorrente. Gli Stati, beninteso, sono addirittura tenuti, in virtù degli obblighi positivi discendenti dall'art. 8 Cedu, a limitare la libertà d'espressione in modo da tutelare l'onore e la reputazione individuali; ma «non possono far ciò attraverso misure che indebitamente trattengano i mezzi di informazione dall'adempiere alla propria funzione di sensibilizzazione dell'opinione pubblica in ordine all'abuso, manifesto o solo supposto, dei pubblici poteri»: «l'effetto dissuasivo che il timore di siffatte sanzioni ha sull'esercizio della libertà d'espressione da parte dei giornalisti, d'altronde, è evidente» (per la piena affermazione di tali principi, cfr. sent. 17 dicembre 2004 (Grande Camera), Cumpănă e Mazăre c. Romania, §§ 113-115).

Proprio la giurisprudenza Cumpănă, del resto, aveva affermato che la previsione di una sanzione detentiva per il giornalista diffamatore (e a fortiori l'irrogazione della pena della reclusione in concreto) non è sempre incompatibile con l'art. 10, risultando al contrario legittimata in «circostanze eccezionali» lesive di altri diritti fondamentali, come nei casi di istigazione all'odio razziale o etnico, o di incitamento alla violenza. Casi, peraltro, del tutto distinti da quello in esame.

Nel caso di specie, dunque, la pena detentiva cui Belpietro è stato condannato (in aggiunta, peraltro, ad un gravoso risarcimento del danno subito dalle parti civili, pari ad oltre 100.000 euro) «avrebbe potuto effettivamente comportare uno spiccato effetto deterrente» nei confronti della funzione sociale esercitata dalla stampa.

Non rileva dunque, secondo la Corte che la pena sia stata sospesa (e che in concreto neppure un giorno di reclusione sia stato scontato); che l'articolo in questione fosse davvero gravemente diffamatorio, come i giudici interni avevano rilevato; che il direttore fosse davvero responsabile per omesso controllo, non potendo egli trincerarsi dietro la 'autorevole' provenienza delle opinioni ospitate sul proprio quotidiano. In assenza di alcuna delle «circostanze eccezionali» esemplificate dalla giurisprudenza Cumpănă, in cui sia interessato altro diritto di pari rango, il ricorso per un giornalista ad una pena «tanto severa» (§ 61) quale la detenzione, qualunque ne sia la durata, non è (mai) giustificato.

Tanto basta, in ultima analisi, perché la Corte differenzi la presente vicenda dal precedente Perna, in cui al giornalista era stata irrogata una semplice multa: la condanna alla reclusione, di per sé sola, è idonea a determinare un contrasto con l'art. 10 CEDU, in quanto non proporzionata agli scopi legittimi perseguiti (si vedano, in senso conf., anche le sent. 22 novembre 2011, Koprivica c. Montenegro, §§ 73-74, e sent. 22 aprile 2010, Fatullayev c. Azerbaijan, §§ 102-104).

 

7. Ai giudici italiani, pertanto, la strada della condanna a pena detentiva per il giornalista diffamatore - ancora di recente avallata dalla Cassazione nel caso Sallusti (clicca qui per scaricare la sentenza della Cassazione, e la relativa nota di F. Viganò) - pare, ormai, irrimediabilmente preclusa dalla giurisprudenza di Strasburgo, sia pur con l'eccezione dei casi - «eccezionali», appunto - che la stessa ammette.

Sempre più dubbia appare, a questo punto, la legittimità dell'art. 13 l. 47/1948 - che non consente al giudice di optare per la sola multa - al metro dell'art. 117 co. 1 Cost., quale parametro interposto rispetto alla disposizione convenzionale e all'interpretazione che di esso rende la Corte europea.

 

8. Sia tuttavia consentita, prima di chiudere, una brevissima considerazione. Non vi è dubbio che la previsione (astratta) e l'inflizione (concreta) di una pena detentiva a censura dell'attività giornalistica costituiscano un freno efficace ad un libero sviluppo della stessa; e parimenti indubbio, del resto, è che tale risultato appaia scarsamente desiderabile tanto agli occhi dei giudici di Strasburgo, quanto, più in generale, nel quadro di uno sviluppo armonioso delle fondamentali libertà democratiche.

Tuttavia, l''automatismo' con il quale la Corte mostra di 'cassare' le condanne a pena detentiva per i casi di diffamazione a mezzo stampa e che punta a fare della pena pecuniaria la sanzione massima praticabile in campo penale, benché mosso dal nobile intento di impedire l'apposizione di briglie alla libertà giornalistica, potrebbe comportare, ad avviso di chi scrive, il pericolo di trattare l''alea penale' come un semplice 'costo di produzione' dell'informazione. In altre parole, la previsione di sanzioni soltanto patrimoniali potrebbe far sì che gli editori più malevoli si abbandonino con maggior agio a vere e proprie 'campagne' diffamatorie nei confronti di bersagli individuati, mettendo a bilancio le risorse necessarie a tenere indenni i propri giornalisti dalle condanne eventualmente occorrenti al pari, per dire, di ogni altra spesa 'necessaria'.

Il riconoscimento di un più ampio margine di apprezzamento per i giudici interni, chiamati a valutare il singolo caso, potrebbe forse garantire una più puntuale comparazione dei diritti e delle libertà in gioco, esercitando una più efficace azione preventiva avverso potenziali lesioni (sistematiche) di diritti non meno fondamentali.