ISSN 2039-1676


10 luglio 2015 |

Diffamazione e diritto di critica: rientra nel dissenso motivato riferire di procedimenti penali, ancorché risalenti e conclusi senza condanne

Cass. civ., Sez. III, 31 ottobre 2014 (dep. 12 marzo 2015), n. 4931, Pres. Petti, Rel. Rossetti, ric. Colombo e NIE s.p.a.

1. Da tempo il Parlamento si rimpalla il d.d.l. Costa, tornato al Senato il 15 giugno per il quarto passaggio parlamentare: il d.d.l., ricordiamo, sulla scia di quanto richiesto all'Italia dal Consiglio di Europa (da ultimo, nel dicembre 2013, all'indomani della decisione Belpietro c. Italia, C. Edu 24 settembre 2013, ric. n. 43612/10 in questa Rivista)prevede, tra le innovazioni più significative, l'abolizione della pena detentiva per la diffamazione a mezzo stampa (cfr. in proposito, in questa Rivista la scheda di Montanari del 28 ottobre 2013 relativa alla prima versione del d.d.l.). Nel frattempo, con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione, nel ribadire la rilevanza costituzionale del diritto di critica politica, ne evidenzia le peculiarità rispetto al diritto di cronaca.

 

2. Questo il caso da cui muove la Corte di Cassazione. Sul quotidiano L'Unità veniva pubblicato un articolo nel cui occhiello (riportato dalla sentenza) si legge: "tra i tecnici chiamati da Castelli per i controlli su Napoli anche A. M., ex indagato per amicizie pericolose". Nell'articolo la giornalista dava atto, tra l'altro, dei precedenti penali e disciplinari del magistrato M., sostenendo l'inopportunità della sua nomina a ispettore del ministero della giustizia, sebbene i procedimenti che interessavano M. non fossero approdati a condanne.

 

3. Il magistrato conveniva in giudizio l'autrice dell'articolo, il direttore e la casa editrice, asserendo che i contenuti ed i toni dell'articolo fossero lesivi del suo onore e della sua reputazione e oltrepassassero il diritto di cronaca e di critica. In particolare, da quanto si desume dalla lettura della sentenza di Cassazione, l'articolista avrebbe eccessivamente indugiato su particolari inerenti i procedimenti penali e disciplinari del magistrato, benché, come si diceva, conclusi senza condanne.  Il Tribunale, prima, e la Corte d'appello, poi, accoglievano le istanze del magistrato e condannavano i convenuti al pagamento di una cospicua somma di denaro a titolo di risarcimento del danno. La sentenza di merito veniva, però, annullata con rinvio dai giudici di legittimità con la motivazione che ripercorriamo nei tratti essenziali.

 

4. Secondo quanto si evince dalla decisione in esame, la Corte d'appello aveva ritenuto diffamatorio l'articolo giornalistico essenzialmente per due motivi: in primo luogo, come si accennava, per la dovizia di particolari con cui si dava conto dei procedimenti penali (risalenti a 5 anni prima) che avevano coinvolto il neo ispettore del ministero, senza limitarsi a "richiamarli genericamente"; in secondo luogo per  l'assenza di neutralità della giornalista, che avrebbe preteso di formulare un giudizio di opportunità "scavalcando" e "sostituendosi" agli organi competenti che avevano, evidentemente, ritenuto il magistrato idoneo al ruolo affidatogli. Secondo la Corte d'appello, si legge nei passaggi della Cassazione, la giornalista, così facendo, "avrebbe suscitato ad arte nel lettore l'opinione che A. M. fosse stato nominato ispettore ministeriale 'per vendicarsi' dei colleghi che in passato l'avevano inquisito in sede penale e disciplinare" e avrebbe dato conto dei procedimenti penali e disciplinari a suo carico "senza altro scopo che quello di denigrare l'attore".

 

5. In estrema sintesi, i giudici di legittimità ritengono la motivazione addotta dalla Corte d'appello viziata sotto tre profili: quello dell'esaustività, quello della logica e quello della coerenza. Quanto al primo aspetto, attinente la carenza di motivazione, di minor interesse in questa sede, la Corte di cassazione censura la mancata individuazione delle "proposizioni, degli accostamenti o delle metafore adottate dalla giornalista" tali da far ritenere al lettore che la nomina fosse finalizzata ad una vendetta nei confronti dei colleghi che lo avevano in passato inquisito.

 

6. Quanto al vizio di tipo logico-deduttivo, la decisione della Corte d'Appello viene censurata dalla Corte di cassazione in quanto il giudice di merito avrebbe riconosciuto, in astratto, la rilevanza del diritto di critica, ritenuto comprensivo della possibilità di contestare l'opportunità di un scelta politica, ma, in concreto, avrebbe ritenuto "denigratoria" l'esposizione delle ragioni sulle quali si fondava il giudizio di inopportunità espresso dalla giornalista.

A tal proposito i giudici di legittimità, richiamandosi ad una consolidata giurisprudenza in tema di liceità del dissenso motivato, ne traggono la logica e condivisibile conseguenza che censurare un giornalista per aver motivato la propria critica significa di fatto negare quello stesso diritto. A parere dei giudici di legittimità (che citano il brocardo "historia magistra vitae") la dovizia di particolari nella descrizione dei precedenti procedimenti del magistrato "era funzionale all'esercizio del diritto di critica che altrimenti sarebbe stato - in questo caso ben a ragione - gratuito ed offensivo". Da tale prima censura, quindi, e dall' importante principio, già altrove espresso dai giudici di legittimità (v., tra le più recenti, Cass. civ., III sez., 3 febbraio 2015, n. 1939, in DeJure) per cui la critica (per non essere 'gratuita') deve essere motivata, la sentenza in esame fa discendere la liceità della citazione di fatti, anche storicamente risalenti, lesivi della reputazione (purché veri) che fondano il dissenso, dando prova, nel bilanciamento di interessi contrapposti (onore/libera manifestazione del pensiero), di propendere, in ossequio ai costanti insegnamenti della Corte Edu, per la libertà di espressione ogni qual volta i fatti narrati siano veri e non si sfoci nel turpiloquio o nell'aggressione gratuita.

 

7. Per venire all'ultima censura mossa alla sentenza di merito, i giudici di legittimità ne evidenziano l'incoerenza, "per eccentricità rispetto all'oggetto del decidere", rilevando che la sentenza d'appello ritiene "l'articolo denigratorio perché la giornalista che lo scrisse non fu neutra" in quanto avrebbe "riferi[to] fatti lontani nel tempo" "pretende[ndo] di formulare giudizi di inopportunità", così "sostituendosi e scavalcando" scelte di organi competenti.

Ebbene. Sul punto la Corte di cassazione, dopo aver richiamato i giudici d'appello a concentrare la propria attenzione sulla sussistenza del diritto di critica secondo i noti e consolidati parametri giurisprudenziali (verità dei fatti, interesse pubblico della notizia e correttezza espositiva),  sottolinea, in un altro significativo passaggio, che al giornalista d'opinione può chiedersi di non essere mendace, di non indulgere nel turpiloquio, ma non può chiedersi di essere neutro. A questo proposito, la Corte evidenzia la fondamentale linea di confine tra giornalismo "che riferisce i fatti" e giornalismo "che formula giudizi di critica politica": la Corte di cassazione si riporta così idealmente alla distinzione, cara alla Corte Edu (cfr. Corte Edu, Mengi c. Turkey, 27 febbraio 2013, ric. n.13471/05 e n. 38787/07), tra statements of facts [stati di fatto] e value judgments [giudizi di valore], i quali ultimi, per loro natura, non possono essere neutri. Va sottolineato che i giudici di legittimità si spingono oltre, precisando, con parole che ancora una volta fanno pensare alla Corte Europea, che l'opinionista politico, una volta dichiarata la propria appartenenza ideologico-politica, ha il preciso dovere di non essere neutro, così che, in un contesto democratico, caratterizzato dall' "alternarsi di tesi e antitesi", sia consentito al lettore di "raggiungere una nuova e più esauriente sintesi".