ISSN 2039-1676


03 marzo 2015 |

La Corte costituzionale elimina per il querelante la facoltà  di opporsi al decreto penale di condanna

Corte cost., sent. 28 gennaio 2015, n. 23, Pres. Criscuolo, Rel. Napolitano

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1. Con la sentenza pubblicata il 27 febbraio scorso la Consulta ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 459, comma 1, cod. proc. pen., nella versione introdotta con la cd. "legge  Carotti" (n. 479 del 1999), avuto specifico riguardo alla "parte in cui prevede la facoltà del querelante di opporsi, in caso di reati perseguibili a querela, alla definizione del procedimento con l'emissione di decreto penale di condanna".

La Corte ha identificato una violazione degli artt. 3 e 111 della Costituzione. In sostanza, non ha individuato una ragione giustificatrice della potestà di interdizione riconosciuta alla persona offesa con riguardo ai reati punibili a querela della parte. Si tratta dell'ennesima manifestazione del favor che la Consulta intende riservare ai riti di deflazione, anche quando ciò comporta uno scostamento, più o meno sensibile, da schemi argomentativi altrimenti usuali.

 

2. È certamente vero, nella specie, che la discrezionalità tradizionalmente riconosciuta al legislatore, in punto di conformazione degli istituti processuali, appare essere stata esercitata senza una ratio riconoscibile.

Le regola censurata è probabilmente il frutto del trascinamento di una scelta concepita nell'ambito di un diverso regime del procedimento per decreto, cioè quello originario. Era stabilito, in particolare, che la procedura semplificata fosse applicabile, nella ricorrenza delle ulteriori condizioni, solo ai reati perseguibili d'ufficio. Una spiegazione era data dalla Relazione al progetto preliminare del codice: si presumeva che le notizie di reato non provenienti dalla polizia giudiziaria, come sono in genere quelle prospettate nelle querele, avrebbero nella generalità dei casi richiesto verifiche ed approfondimenti particolari, scarsamente compatibili con la struttura del procedimento per decreto.

Con la legge n. 479 del 2009, ispirata da uno scopo politico di forte incentivazione dei riti speciali, si era pensato di rimuovere la preclusione, e dunque di consentire la condanna per decreto anche quanto ai reati perseguiti su querela. Inopinatamente, nella norma riformata era stata inserita anche la condizione che il querelante non si fosse opposto alla procedura monitoria: norma letta, com'è ovvio, nel senso che la dichiarazione di dissenso in querela impediva la legittima adozione del decreto penale, tanto che il provvedimento eventualmente assunto  avrebbe dovuto considerarsi nullo (ad esempio, Cass., Sez.  2, Sentenza n. 32539 del 10/05/2011, Freno, CED Cass. n. 250762). V'è da aggiungere che, anche data la tendenza di molti legali ad inserire la dichiarazione di opposizione nel "modello" utilizzato per la stesura professionale delle querele, la norma ha di fatto limitato grandemente l'applicazione della riforma.

Si intuisce che il legislatore del 1999 ha inteso bilanciare in qualche modo l'estensione del rito, ma certo l'ha fatto nel peggiore (e più imperscrutabile) dei modi.

 

3. La ratio più o meno attendibile che era stata proposta per la preclusione originaria non è ovviamente spendibile per il nuovo regime, visto che la necessità di verifiche istruttorie non è condizionata dalla mera manifestazione di volontà del querelante. A quest'ultimo, d'altra parte, è stata conferita una facoltà che prescinde dalla sua condizione di persona offesa. Ed infatti, alle persone offese in quanto tali, non è possibile opporsi alla procedura per decreto.

La spiegazione potrebbe consistere nel ruolo determinante che la vittima esercita, attraverso la querela, per la stessa instaurazione del procedimento penale, tale che potrebbe essersi pensato di riconoscerle una qualche particolare influenza sui meccanismi definitori: sia per ottenere la tutela risarcitoria dal giudice penale, sia per influire sull'esito del procedimento attraverso l'ipotetica costituzione di parte civile, sia per l'ambizione (umanamente comprensibile) di evitare un trattamento penale troppo blando per l'autore del reato. A queste finalità, immaginabili per qualunque persona offesa, potrebbe aggiungersi quella della pressione esercitabile sul responsabile del fatto grazie al meccanismo della remissione, che naturalmente può condurre alla soddisfazione delle pretese risarcitorie quale contropartita dell'esaurimento del giudizio senza danni penali.

Il fatto è, però, che parte degli interessi indicati (privi comunque di tutela costituzionale: si veda tra l'altro l'ordinanza della stessa Consulta n. 124 del 1999) sono riferibili indistintamente a tutte le vittime. Quanto alla posizione garantita dalla signoria sulla procedibilità, v'è da dire che lo stesso querelante ne gode unicamente riguardo al decreto penale, perché analoga facoltà interdittiva non è riconosciuta di fronte all'accordo tra le parti per l'applicazione di pena su richiesta.

D'altro canto, alcune facoltà interdittive sono riconosciute dalla legge alla persona offesa in quanto tale, senza privilegi per il querelante, e tuttavia si caratterizzano per l'oggetto del provvedimento contrastato o precluso, cioè una decisione completamente liberatoria (sul piano penale) in favore dell'accusato: si allude ovviamente all'opposizione all'archiviazione, disciplinata dall'art. 409 cod. proc. pen., ed all'opposizione alla pronuncia di non doversi procedere per particolare tenuità del fatto ex art. 34, comma 3, del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, relativamente ai reati di competenza del giudice di pace. Nel caso del decreto penale, e sia pure senza incidenza in punto di responsabilità civile dell'interessato, trova pur sempre attuazione quella istanza di punizione  che costituisce l'essenza della querela (e, visto che la trova, dovrebbe in teoria venir meno anche la necessità di un controllo della persona offesa sulla completezza dell'indagine).

 

4. Come accennato, in queste condizioni, la Consulta ha stabilito che non si trattasse semplicemente di una tutela non costituzionalmente imposta, e che si riscontrasse piuttosto un esercizio irragionevole della discrezionalità legislativa. La Corte aveva già detto in effetti, con la citata ordinanza del 1999 (concernente l'ipotetico effetto preclusivo da assegnarsi alla riserva della persona offesa di costituirsi parte civile nell'instaurando procedimento), che «risulterebbe improprio un sistema che consentisse di esperire un determinato rito alternativo, sussistendone i presupposti, solo in dipendenza di una sorta di determinazione meramente potestativa della persona offesa, che non riveste la qualità di parte» (ordinanza n. 124 del 1999).

Non si è trovato giustificabile, nella prospettiva dell'art. 3 Cost., il "privilegio"  accordato al querelante, per il decreto penale, in eccesso rispetto alla situazione concernente l'applicazione della pena su richiesta.  Oltretutto - si è detto - le aspettative della vittima, che pure sia riuscita a prevenire la condanna del decreto, potrebbero risultare frustrate proprio ed appunto per l'intervento di un patteggiamento.

L'assenza di una logica giustificazione della potestà preclusiva riconosciuta al querelante ha poi indotto la Corte ad escludere l'adeguatezza del bilanciamento attuato in rapporto alla direttiva costituzionale della ragionevole durata del processo.

Ricompare nel provvedimento in esame, con esiti ovviamente negativi,  quel "test di proporzionalità" che i Giudici costituzionali, dopo l'ampia sua valorizzazione nella sentenza sulla legge elettorale (n. 1 del 2014), tengono evidentemente in grande considerazione. Si tratta di «valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi».

 

5. La sentenza in esame si caratterizza tra l'altro per una finale riepilogazione degli argomenti valutati. Nulla di meglio, naturalmente, per dare un'idea sintetica del decisum. La disciplina censurata è stata ritenuta illegittima in quanto  «a) distingue irragionevolmente la posizione del querelante rispetto a quella della persona offesa dal reato per i reati perseguibili d'ufficio; b) non corrisponde ad alcun interesse meritevole di tutela del querelante stesso; c) reca un significativo vulnus all'esigenza di rapida definizione del processo; d) si pone in contrasto sistematico con le esigenze di deflazione proprie dei riti alternativi premiali; e) è intrinsecamente contraddittoria rispetto alla mancata previsione di una analoga facoltà di opposizione alla definizione del processo mediante l'applicazione della pena su richiesta delle parti, in quanto tale rito speciale può essere una modalità di definizione del giudizio nonostante l'esercizio, da parte del querelante, del suo potere interdittivo».