ISSN 2039-1676


22 ottobre 2015 |

Monitoraggio Corte Edu luglio-agosto 2015


A cura di Giulio Ubertis e Francesco Viganò.

Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, per questo bimestre, da Andrea Giudici e Luca Pressacco. L'introduzione è a firma di Andrea Giudici per quanto riguarda gli artt. 2, 3, 10, 11 e 2 Prot. n. 4 Cedu, mentre si deve a Luca Pressacco la parte relativa agli artt. 5, 6, e 8 Cedu.

 

1. Introduzione

a) Art. 2 Cedu

b) Art. 3 Cedu

c) Art. 5 Cedu

d) Art. 6 Cedu

e) Art. 8 Cedu

f) Art. 10 Cedu

g) Art. 11 Cedu

h) Art. 2 Prot. n. 4 Cedu

 

2. Sintesi delle pronunce più rilevanti

 

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1. Introduzione

 

a) Art. 2 Cedu

In tema di diritto alla vita e di obblighi positivi, la sent. 21 luglio 2015, Abdullatif Arslan e Zerife Arslan c. Turchia, ha per oggetto la vicenda del suicidio del figlio dei ricorrenti durante il periodo in cui quest'ultimo era sottoposto alla leva obbligatoria. Il ragazzo, già prima della chiamata alle armi, aveva manifestato alcuni disturbi psichici clinicamente diagnosticati, uniti a momenti di delirio e durante la leva aveva cercato di togliersi la vita per mezzo di psicofarmaci e stupefacenti. La Corte europea ravvisa una violazione degli obblighi positivi discendenti dall'art. 2 Cedu, avendo lo Stato convenuto omesso di adottare misure idonee ad assicurare il rispetto del diritto alla vita - si evidenzia - anche contro le azioni autolesive dello stesso titolare. In particolare, la stessa ammissione e la permanenza del ragazzo sotto le armi sono valutate negativamente dalla Corte di Strasburgo, trattandosi di soggetto con problemi psichici che aveva già manifestato propositi suicidi.

Con riguardo, invece, agli obblighi procedurali relativamente a un caso di medical malpractice, la sent. 21 luglio 2015, Zafer Öztürk c. Turchia, ribadisce consolidati arresti della giurisprudenza della Corte, la quale, come è noto, ravvisa la violazione della Convenzione allorché, in presenza di fatti lesivi di diritti fondamentali, la responsabilità penale non abbia potuto essere accertata compiutamente - e dunque l'autore del reato non abbia potuto essere condannato - per l'intervento della prescrizione. Nel caso di specie, la moglie del ricorrente era stata operata di fibrosi uterina e, a seguito di complicanze discendenti dall'intervento, era deceduta; il sanitario, la cui imperizia era stata riconosciuta anche da un consulto peritale, era stato condannato per omicidio colposo a sei mesi di reclusione, prima che il reato fosse dichiarato estinto per l'intervento della prescrizione.

 

b) Art. 3 Cedu

La sent. 7 luglio 2015, V.M. e altri c. Belgio (per una sintesi, v. infra) riguarda un caso di trattamenti inumani inflitti a una famiglia di etnia rom a seguito del rigetto della domanda d'asilo dalla stessa presentata.

Con riferimento ai soli obblighi sostanziali, in relazione a violenze commesse dalle forze dell'ordine, si segnala la sent. 16 luglio 2015, Ghedir e altri c. Francia, con riguardo a lesioni riportate durante a seguito dell'arresto del ricorrente da parte della polizia ferroviaria.

Nella sent. 7 luglio 2015, Kardišauskas c. Lituania, la corte rigetta le doglianze formulate da un soggetto, condannato a tredici anni di reclusione per taluni gravi delitti, che lamenta la violazione degli obblighi procedurali ("di mezzi e non di risultato", come ricorda la Corte europea) di condurre un'indagine effettiva ed efficace circa le violenze che egli afferma di aver subito in carcere. In effetti, il ricorrente era stato violentemente percosso - egli afferma, ad opera di altro detenuto - e per l'effetto era stato costretto a ricorrere a ricovero ospedaliero per una durata complessiva di tre mesi, all'esito dei quali gli era stata riconosciuta una percentuale di invalidità permanente. Benché le indagini non abbiano consentito di individuare il responsabile, la Corte europea ritiene comunque insussistente la violazione lamentata, sia perché le autorità domestiche hanno compiuto sforzi adeguati per far luce sulla vicenda, sia perché il ricorrente non ha saputo indicare attività ulteriori, necessarie o anche solo utili, che gli investigatori avrebbero omesso di considerare. Analogamente, la sent. 16 luglio 2015, Aleksey Borisov c. Russia, in relazione alle lesioni riportate dal ricorrente nell'esecuzione di una perquisizione domiciliare e nei momenti di degenza ospedaliera immediatamente successivi.

Al contrario, la sent. 9 luglio 2015, Malafani c. Croazia, ravvisa la violazione tanto degli obblighi sostanziali quanto di quelli procedurali in relazione a un caso di violenze e di tortura inflitte dalle forze speciali antiterrorismo a un soggetto sospettato, e poi condannato, in relazione alla realizzazione di un attentato costato la vita a due persone.

Nello stesso senso, anche la sent. 16 luglio 2015, Samachişă c. Romania, relativa alle violenze commesse da alcuni agenti di polizia ai danni del sospettato di un incidente stradale e delle manchevolezze della susseguente attività investigativa, che ha portato all'assoluzione degli agenti coinvolti; le sent. 23 luglio 2015, Andonovski c. Repubblica ex-jugoslava di Macedonia, in relazione a una vicenda di circolazione stradale; Bataliny c. Russia, in relazione alla vicenda del confinamento contra voluntatem del ricorrente, affetto da disturbi della personalità e da neuropatologie, in un ospedale psichiatrico, dove ha poi subito violenze e maltrattamenti; e Serikov c. Ucraina, nella cui vicenda il ricorrente ha subito violenze finalizzate a estorcergli una confessione.

Nel (purtroppo) abituale filone relativo a violenze e sparizioni di cittadini russi residenti in Cecenia si inserisce la sent. 9 luglio 2015, R.K. c. Francia. In tale vicenda, la Corte di Strasburgo aveva già emesso, nell'ottobre 2011, una interim measure con cui ordinava la sospensione dell'esecuzione dell'ordine di allontanamento del ricorrente, adottato dalle autorità transalpine in conseguenza del rigetto della domanda di asilo. La sentenza, ora, assegna carattere di definitività alla decisione, ravvisando il pericolo di violazione della Convenzione per il caso di rimpatrio, attese sia le violenze già subite in loco dal ricorrente, sia la sparizione di alcuni suoi famigliari.

In materia di sovraffollamento carcerario si segnalano la sent. 9 luglio 2015, Martzaklis e altri c. Grecia, le sent. 16 luglio 2015, Ciprian VlăduÈ› and Ioan Florin Pop c. Romania, Gégény c. Ungheria e Sanatkar c. Romania.

I due casi per primi menzionati presentano alcune particolarità. Il primo, infatti, interessa altresì il rispetto del diritto a un giusto processo garantito dall'art. 6 Cedu allorché l'imputato sia tratto a giudizio all'esito di operazioni condotte da agenti provocatori: la Corte europea, confermando la propria giurisprudenza, afferma che un fatto commesso sulla base dell'azione esclusiva del falsus emptor è incompatibile con la Convenzione, specie se, come in questo caso, agli imputati non è stato concesso il diritto di contestarne le affermazioni.

Nel secondo caso, invece, il dato di rilievo riguarda la positività al virus HIV dei ricorrenti, che lamentano, oltre al menzionato sovraffollamento, la loro sostanziale 'ghettizzazione' nell'ala psichiatrica del penitenziario di Korydallos, alle porte di Atene, in compagnia di altri detenuti affetti, diversamente da loro, da malattie altamente contagiose.

Con riguardo, poi, a casi di inadeguatezza del trattamento ricevuto in corso di detenzione, sia pure cautelare, da un imputato affetto da particolari problemi di salute, si segnala la sent. 16 luglio 2015, Temchenko c. Ucraina, che ravvisa altresì la violazione dell'art. 34 della Convenzione per non aver il governo ucraino ottemperato a una misura provvisoria, emessa dalla Corte europea ai sensi dell'art. 39, con la quale si imponeva il trasferimento del ricorrente in una struttura specializzata. Negli stessi termini, la sent. 23 luglio 2015, Patranin c. Russia: in questo caso, la misura provvisoria violata imponeva allo Stato russo di consentire che il ricorrente, affetto da gravi patologie non adeguatamente trattate in carcere, fosse visitato da personale sanitario indipendente dall'amministrazione penitenziaria.

Infine, per un caso di inadeguatezza delle condizioni di trattenimento presso un centro di permanenza temporanea di un immigrato iraniano, si segnala la sent. 30 luglio 2015, E.A. c. Grecia; in tale vicenda, la Corte di Strasburgo ravvisa altresì la violazione dell'art. 13 della Convenzione, sotto il duplice profilo dell'assenza nell'ordinamento ellenico di un rimedio effettivo contro l'asserita illegittimità del trattenimento e delle carenze del sistema di accoglienza greco.

 

c) Art. 5 Cedu

Tra le pronunce emesse dalla Corte europea nei mesi di luglio e agosto in materia di diritto alla libertà e alla sicurezza (art. 5 comma 1 Cedu), si segnalano la sent. 23 luglio 2015, Bataliny c. Russia (per una sintesi, v. infra) e la sent. 21 luglio 2015, A.H. e J.K. c. Cipro. Nel primo caso, viene riconosciuta la violazione dell'art. 5 comma 1 lett. e Cedu, dovuta al trattenimento forzato del ricorrente presso un ospedale psichiatrico, in assenza di una patologia di tale gravità da giustificare la privazione della libertà personale. Peraltro, con la medesima decisione si censura pure la violazione dell'art. 3 Cedu, dal momento che il ricorrente è stato sottoposto, senza il suo consenso, ad un trattamento farmacologico sperimentale. Con la seconda deliberazione, la C. eur. dir. uomo riconosce l'illegittimità della privazione della libertà personale di un cittadino siriano richiedente asilo a Cipro, in violazione dell'art. 5 comma 1 lett. f. Tale ultima disposizione, infatti, non può giustificare nel caso concreto la detenzione del ricorrente, disposta dalle autorità nazionali nonostante l'espulsione del predetto fosse - all'epoca dei fatti - materialmente impossibile, date le condizioni di guerra presenti in Siria, e giuridicamente illegittima, in quanto contrastante con le misure provvisorie adottate dalla Corte di Strasburgo nelle more del procedimento.

Il tema della ragionevole durata della custodia cautelare viene affrontato dalla Corte europea, anzitutto, con la sent. 9 luglio 2015, El Khoury c. Germania (per una sintesi, v. infra), in cui, nonostante la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza e di legittime esigenze cautelari, viene accertata la violazione del dettato pattizio in ragione della mancata diligenza delle autorità nazionali nella conduzione del procedimento principale. Successivamente, la C. eur. dir. uomo riconosce la violazione dell'art. 5 comma 3 Cedu nella sent. 21 luglio 2015, Galambos c. Ungheria (per una sintesi, v. infra), considerato che il prolungamento della detenzione cautelare dell'accusato è stato motivato dalle autorità nazionali mediante richiami stereotipati, privi di qualsiasi riscontro concreto, al pericolo di fuga.

In quest'ultima pronuncia, la Corte europea affronta anche la questione dell'effettività del controllo giurisdizionale sulla privazione della libertà personale, sotto il profilo della parità delle armi nel procedimento cautelare. La violazione dell'art, 5 comma 4 Cedu consegue, infatti, alla posizione della difesa, che non ha potuto esaminare le richieste del pubblico ministero in ordine alla libertà personale del ricorrente anteriormente alla celebrazione delle udienze fissate dal tribunale per deliberare sull'eventuale prolungamento della custodia cautelare. La violazione del predetto parametro convenzionale viene accertata anche nella già richiamata sent. 23 luglio 2015, Bataliny c. Russia (per una sintesi, v. infra), dal momento che il Governo non è stato in grado di indicare un rimedio giurisdizionale effettivo a disposizione del ricorrente o dei suoi familiari per contestare l'internamento forzato presso un ospedale psichiatrico.

 

d) Art. 6 Cedu

Per quanto concerne i corollari e i profili della garanzia di un equo processo, dalle pronunce emesse dalla Corte europea nei mesi di luglio e agosto emerge un quadro piuttosto composito. Per quanto riguarda la ragionevole durata del processo, si segnala, anzitutto, la sent. 7 luglio 2015, Rutkowski e altri c. Polonia, in cui la C. eur. dir. uomo, dopo aver riconosciuto la violazione del parametro convenzionale in relazione al procedimento penale a carico del primo ricorrente, giunge nuovamente (dopo i precedenti italiano, con la nota sentenza "Torreggiani", e ungherese in materia di sovraffollamento carcerario) a fare applicazione della cosiddetta "sentenza pilota", stante l'altro numero di ricorsi pendenti nei confronti della Polonia per l'eccessiva durata delle procedure giudiziarie in campo sia civile che penale. La Corte europea respinge, invece, le doglianze del ricorrente sul punto nella sent. 9 luglio 2015, El Khoury c. Germania (per una sintesi, v. infra): nonostante il prolungamento irragionevole della custodia cautelare, la durata complessiva del procedimento viene considerata congrua in relazione alle circostanze del caso specifico.

Il principio di pubblicità processuale viene in rilievo nella sent. 21 luglio 2015, Meimanis c. Lettonia. In particolare, il ricorrente si duole della violazione di tale profilo dell'art. 6 comma 1 Cedu, con riferimento al procedimento incidentale instaurato per il giudizio di costituzionalità delle norme legislative in materia di intercettazioni. Respingendo le argomentazioni del ricorrente, la Corte europea rileva che, indipendentemente dall'applicabilità delle garanzie inerenti all'equità processuale nel giudizio di fronte alla Corte costituzionale, l'ambito di cognizione di quest'ultima risulta limitato, nel caso concreto, al solo esame della questione di costituzionalità, con esclusione di qualsiasi accertamento fattuale, per il quale solo la giurisprudenza europea prescrive il diritto ad una pubblica udienza.

La sent. 21 luglio 2015, Neagoe c. Romania si occupa, invece, della presunzione d'innocenza del soggetto accusato di aver commesso un reato, garantita dall'art. 6 comma 2 Cedu. La Corte di Strasburgo, riconoscendo la violazione del dettato pattizio, stigmatizza l'operato del giudice nazionale che, in qualità di portavoce del collegio chiamato a pronunciarsi in sede di appello sulla sentenza di assoluzione resa in prime cure, invece di limitarsi ad un sobrio resoconto circa lo stato di avanzamento nella trattazione della causa, ha sostanzialmente anticipato alla stampa l'esito del giudizio, sfavorevole all'imputato. 

Vengono, poi, in rilievo i corollari dell'equo processo specificamente dedicati alla materia penale, tutti analizzati in connessione con la norma generale dell'art. 6 comma 1 Cedu. Con la sent. 9 luglio 2015, Tolmachev c. Estonia (per una sintesi, v. infra), la Corte europea sancisce la violazione del diritto alla difesa tecnica (art. 6 comma 3 lett. c): il difensore del ricorrente, infatti, non ha potuto svolgere compiutamente le proprie funzioni, in quanto il procedimento giurisdizionale - conseguente, nell'ordinamento interno, all'atto di opposizione alla sanzione irrogata dall'autorità amministrativa nei procedimenti relativi a reati bagatellari - è stato interrotto dal tribunale nazionale, non appena constatata la mancata comparizione personale dell'imputato in udienza. Il medesimo parametro di cui all'art. 6 comma 3 lett. c, unitamente al diritto a non rendere dichiarazioni autoaccusatorie, rileva anche nella sent. 21 luglio 2015, Zachar e ÄŒierny c. Slovacchia (per una sintesi, v. infra). Con quest'ultima pronuncia, la Corte di Strasburgo accerta la violazione del dettato pattizio poiché gli accusati non hanno ricevuto alcuna comunicazione specifica in ordine alle garanzie procedurali loro spettanti, nonostante il mutamento dell'ipotesi di reato formulata inizialmente dagli organi inquirenti. In tale circostanza, l'utilizzazione delle dichiarazioni confessorie rese dai ricorrenti, in assenza del difensore e nelle fasi iniziali del procedimento, rende quest'ultimo complessivamente iniquo, anche qualora tali dichiarazioni non costituiscano la prova unica o determinante della condanna, essendo sufficiente che abbiano comunque influito sull'esito del processo.

Doveroso, infine, è il richiamo alla già citata sent. 9 luglio 2015, El Khoury c. Germania (per una sintesi, v. infra), che consente alla Corte europea tornare a confrontarsi col tema del contraddittorio, sotto il profilo del diritto al confronto con i testimoni d'accusa (art. 6 comma 3 lett. d). Il ricorrente lamenta il mancato inserimento della fonte di prova a carico nel circuito del contraddittorio, dal momento che il concorrente nel reato, giudicato con separato procedimento, si è sempre rifiutato di rispondere alle domande poste dalla difesa, adducendo il privilegio contro l'autoincriminazione. La Corte di Strasburgo, da parte sua, ritiene che non vi sia stata alcuna violazione del dettato pattizio, considerando che la menomazione del diritto di difesa non risulta in alcun modo imputabile alle autorità nazionali (trovando la sua radice nel principio nemo tenetur se detegere) e che, comunque, vi sono state nel processo garanzie sufficienti a controbilanciare l'ammissibilità della prova dichiarativa sottratta al vaglio del contraddittorio con la difesa.

 

e) Art. 8 Cedu

Il diritto al rispetto della vita privata e familiare, in relazione ai mezzi di ricerca della prova adoperati nel processo penale, è oggetto della sent. 7 luglio 2015, M.N. c. San Marino (per una sintesi, v. infra). Con tale pronuncia, la Corte europea riconosce la violazione del suddetto parametro convenzionale, causata dall'assenza nell'ordinamento interno, come interpretato dalle autorità nazionali, di un rimedio giurisdizionale idoneo a tutelare i soggetti terzi - non indagati nel procedimento penale, ma interessati dal sequestro di documentazione bancaria presso le sedi di alcuni intermediari finanziari - contro l'arbitrio delle autorità. In particolare, essi non hanno potuto contestare tempestivamente l'ordine di esecuzione delle perquisizioni locali, emanato dal giudice interno investito da una richiesta di assistenza giudiziaria internazionale.

 

f) Art. 10 Cedu

Lo stringente sindacato della Corte di Strasburgo in tema di limitazioni ammissibili alla libertà d'espressione nelle ipotesi di diffamazione a mezzo stampa trova una nuova manifestazione nella sent. 7 luglio 2015, Morar c. Romania: la violazione della Convenzione è qui ravvisata principalmente perché la condanna penale del giornalista, autore di varie pubblicazioni satiriche, è stata inflitta malgrado il tenore dubitativo e suppositivo delle medesime e, soprattutto, la riconosciuta impossibilità di verificarne la veridicità, per la persistente (all'epoca dei fatti) inaccessibilità dei fascicoli della polizia segreta romena. Conseguentemente, la Corte europea ha ritenuto la condanna in parola non necessaria in una società democratica.

Invece, nella sent. 21 luglio 2015, Satakunnan Markkinapörssi Oy e Satamedia Oy c. Finlandia (per una sintesi, v. infra), la Corte europea esamina la compatibilità con la libertà d'informazione di restrizioni apposte alla pubblicazione di dati personali (relativi, nella specie, all'ammontare dei redditi imponibili esposti nelle relative dichiarazioni) che nell'ordinamento finlandese hanno nella specie dato luogo all'irrogazione di sanzioni amministrative; per il penalista italiano, però, la vicenda riveste interesse con riguardo alla disciplina (appunto, penale) cui l'art. 167 d.lgs. 196/2003 (c.d. codice privacy) assoggetta le condotte di trattamento illecito di dati personali.

 

g) Art. 11 Cedu

La sent. 21 luglio 2015, AkarsubaÅŸi c. Turchia, riguarda il caso di una sanzione pecuniaria inflitta al ricorrente dal prefetto, e poi confermata da un giudice penale ("tribunal correctionel"), per aver partecipato a un sit-in del sindacato cui è iscritto. Tale manifestazione, svolgendosi davanti al palazzo di giustizia di Adana, contravveniva infatti alle disposizioni dell'ordinanza prefettizia che regolava le pubbliche adunate e, per tale ragione, era sanzionata dalla legge. La Corte europea, a maggioranza, ritiene violata la libertà d'associazione del ricorrente: sproporzionata, in particolare, è l'ingerenza operata dalle autorità statali - a prescindere dall'importo della sanzione inflitta - atteso che il doveroso bilanciamento tra la libertà individuale e l'interesse generale al mantenimento dell'ordine pubblico non poteva in alcun modo concludersi in favore del secondo, in presenza di una manifestazione pacifica. Secondo la Corte di Strasburgo, infatti, l'inflizione della sanzione in parola non potrebbe che rispondere a una funzione deterrente, volta cioè a scoraggiare gli appartenenti ai sindacati dal porre in essere in futuro iniziative analoghe.

 

h) Art. 2 Prot. n. 4 Cedu

In tema di libertà di movimento, si segnala la sent. 16 luglio 2015, Kerimli c. Azerbaijan (per una sintesi, v. infra), in relazione alla legittimità del rifiuto di procedere al rinnovo del passaporto in favore di un soggetto sottoposto da molto tempo a un procedimento penale per fatti ormai prescritti.

 

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2. Sintesi delle pronunce più rilevanti

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 7 luglio 2015, V.M. e altri c. Belgio

I ricorrenti sono una famiglia di nazionalità serba e di etnia rom: padre, madre e i loro cinque figli, dei quali la maggiore, affetta da disabilità psicofisiche fin dalla nascita, è deceduta nel dicembre 2011. Nel marzo 2010, la famiglia ha raggiunto la Francia, dove ha presentato una domanda d'asilo, rigettata dalle competenti autorità. Nel marzo 2011, si è allora spostata nel vicino Belgio: le autorità locali, però, hanno chiesto agli omologhi francesi di riprendersi la famiglia in virtù del regolamento "Dublino II", che regola le procedure di asilo. L'ordine di allontanamento, prorogato una volta in considerazione della gravidanza della madre, è scaduto il 26 settembre 2011; una nuova proroga, in considerazione della disabilità della figlia maggiore, è stata rifiutata dalle autorità belghe. La famiglia, espulsa dal centro di trattenimento temporaneo di Sint-Truiden, è stata assistita da associazioni di volontariato che, alla fine, hanno organizzato il viaggio di ritorno in Serbia nell'ottobre 2011. Il ricorso si incardina, essenzialmente, su due punti. Quanto al primo, la famiglia lamenta la violazione dell'art. 3, sull'assunto che l'esclusione dalle strutture d'accoglienza belghe l'ha esposta a un trattamento inumano e degradante, abbandonata a condizioni di assoluta indigenza; quanto al secondo, invece, si lamenta altresì la violazione dell'art. 2, asserendo che le condizioni di vita in Belgio hanno causato il decesso della figlia maggiore.

La Corte di Strasburgo ritiene fondata la prima doglianza, non la seconda. Più precisamente, si osserva che secondo la stessa legislazione belga in tema di accoglienza, l'assistenza materiale ai migranti dev'essere assicurata lungo l'intera procedura d'asilo, finché il termine per l'esecuzione dell'ordine di allontanamento non sia scaduto ovvero, comunque, finché ne perduri la necessità in casi particolarmente significativi. Dopo l'espulsione dal centro di trattenimento, al contrario, la famiglia non ha potuto beneficiare di alcun sostegno fino all'effettivo rimpatrio, per un periodo complessivo di quasi trenta giorni trascorsi in larga parte all'aperto, su una piazza di Bruxelles: secondo la Corte europea, per quanto sovraccarico abbia potuto essere il sistema di accoglienza belga al momento dei fatti, le autorità nazionali non hanno tenuto in adeguata considerazione la particolare vulnerabilità dei ricorrenti, esponendoli a condizioni di estrema povertà per quattro settimane. Da tale acquisizione, tuttavia, non discende automaticamente anche la violazione dell'art. 2 della Convenzione, con riguardo alla morte della figlia maggiore. Rileva la Corte europea, infatti, da un lato che la gravità delle patologie ("rischio reale e immediato", § 169) non era nota alle autorità belghe e dall'altro che l'esito infausto è in sé e per sé compatibile con una pluralità di fattori causali, alcuni dei quali indipendenti dalle condizioni di trattenimento prima e di vita poi nel paese ospitante. Di conseguenza, in assenza di elementi univoci sul punto, la Corte non ravvisa qui alcuna violazione. (Andrea Giudici)

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 7 luglio 2015, M.N. e altri c. San Marino

Nell'ambito di un procedimento penale concernente fattispecie di criminalità economica, l'autorità giudiziaria italiana avanza una richiesta di assistenza giudiziaria internazionale finalizzata all'esecuzione di perquisizioni locali e all'acquisizione di documenti presso talune banche e società fiduciarie, ai sensi dell'art. 29 della Convenzione di amicizia e buon vicinato tra Italia e San Marino risalente al 1939. Nel novembre 2009 le autorità sanmarinesi autorizzano le perquisizioni richieste, precisando le concrete modalità di svolgimento degli atti in questione, disponendo altresì che l'exequatur sia notificato ai cittadini italiani che - non indagati nel procedimento penale da cui origina la richiesta di rogatoria internazionale, né detentori di quote sociali degli intermediari finanziari interessati dalle perquisizioni - intrattenevano rapporti economici con tali soggetti (notificazioni pervenute ai ricorrenti tra gennaio e febbraio del 2011). In primo luogo, i ricorrenti lamentano di non aver avuto accesso a un tribunale per contestare l'ordine di esecuzione dell'autorità sanmarinese. Secondariamente, sostengono che l'interferenza nella loro sfera privata, cagionata dal sequestro di documentazione bancaria, sia stata sproporzionata rispetto agli obiettivi che il mezzo di ricerca della prova si prefiggeva e si sia svolta senza le garanzie procedurali necessarie a prevenire l'arbitrio dell'autorità (§ 24). 

Anzitutto, ai fini dell'ammissibilità del ricorso ex art. 35 comma 1 lett. b Cedu, la Corte europea precisa che i ricorrenti, pur essendo soggetti terzi rispetto al procedimento penale da cui origina la misura, hanno comunque subito un "pregiudizio significativo" dall'esecuzione di quest'ultima, se non altro sotto il profilo reputazionale (§ 39). Successivamente, la C. eur. dir. uomo affronta la tematica dell'applicabilità al caso di specie dell'art. 8 Cedu, affermando che la documentazione bancaria rientra sia nella nozione di "vita privata" che in quella di "corrispondenza" (§ 51-52). Infine, per quanto riguarda il merito del ricorso, la Corte di Strasburgo osserva che è assente nella normativa interna - così come interpretata dalle autorità nazionali - un rimedio giurisdizionale effettivo che consenta ai soggetti terzi, interessati dal sequestro, di contestare utilmente e tempestivamente l'ordine di esecuzione degli atti richiesti mediante rogatoria internazionale (§ 79-80). Di conseguenza, i ricorrenti - i quali patiscono pure una significativa discriminazione rispetto al regime di tutela giuridica riservato a coloro che siano accusati nel procedimento penale - non hanno potuto usufruire di uno strumento di controllo giurisdizionale idoneo a ricondurre le misure in questione, il cui ambito di applicazione risulta particolarmente esteso, nell'alveo di quelle "necessarie in una società democratica" al fine di perseguire i reati e proteggere le finanze pubbliche (§ 83). Ne deriva la violazione dell'art. 8 Cedu. (Luca Pressacco)

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 9 luglio 2015, Tolmachev c. Estonia

Il ricorrente viene multato dalla polizia per aver commesso un'infrazione penale bagatellare. Egli propone opposizione contro la decisione dell'autorità amministrativa, affinché l'accertamento sulla responsabilità penale sia devoluto a un organo giurisdizionale. Il tribunale competente provvede a citare l'imputato e gli altri soggetti interessati (funzionari di polizia e testimoni). Nell'atto di citazione - notificato al domicilio eletto dal ricorrente nelle fasi iniziali del procedimento - viene indicata la data fissata per l'udienza e si avvisa che, in caso di mancata comparizione personale dell'imputato, l'esame del ricorso potrà essere legittimamente declinato dal tribunale. Nonostante le rimostranze avanzate dal difensore del ricorrente, affinché si procedesse in ogni caso, il tribunale - verificata la mancata comparizione dell'imputato in udienza - dichiara estinto il procedimento senza affrontare il merito della causa (§ 11-13). Nel far ciò, l'organo giurisdizionale nazionale osserva che la mancata comparizione dell'imputato contribuisce a rendere oggettivamente impossibile la ricostruzione dei fatti, impedendo in particolare lo svolgimento della ricognizione personale dell'imputato da parte dei testimoni oculari. Peraltro, nemmeno l'aggiornamento dell'udienza sortirebbe effetti positivi, dal momento che il ricorrente si trova all'estero ed è ignota la data del suo eventuale rimpatrio. Il tribunale, ad ogni modo, ritiene verosimile che il ricorrente sia a conoscenza del procedimento instaurato nei suoi confronti per il tramite dei suoi genitori.

La Corte europea, dal canto suo, muove dalla seguente considerazione: se è vero che la legislazione nazionale può prevedere meccanismi destinati a scoraggiare assenze ingiustificate in giudizio da parte dell'accusato, tuttavia essa non può spingersi legittimamente fino al punto di privare quest'ultimo del diritto di difesa tecnica nei casi in cui la comparizione personale non si verifichi (§ 47). Fatte queste premesse di ordine generale, la Corte di Strasburgo rileva che - nel caso di specie - il ricorrente ha rinunciato consapevolmente e volontariamente a difendersi personalmente in giudizio, mentre nulla induce a ritenere che abbia inteso abdicare pure alla garanzia dell'assistenza tecnica nel procedimento penale a suo carico (§ 53). Per questo motivo, tenuto conto che l'interruzione del procedimento ha determinato l'irrevocabilità del provvedimento adottato dall'autorità amministrativa, la Corte europea ritiene che al difensore del ricorrente - regolarmente comparso in udienza - sia stato impedito di svolgere compiutamente le proprie funzioni, in violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. c Cedu (§ 54). (Luca Pressacco)

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 9 luglio 2015, El Khoury c. Germania

Il ricorrente, accusato dalle autorità tedesche di partecipazione a un sodalizio criminale dedito al contrabbando di sostanze stupefacenti, viene arrestato in Portogallo ed estradato in Germania per essere sottoposto a processo. Egli lamenta, anzitutto, l'eccessiva durata della custodia cautelare, protrattasi per tre anni e nove giorni dalla data dell'estradizione processuale verso la Germania a quella della condanna in primo grado. La Corte europea considera la misura coercitiva personale giustificata dalla sussistenza di elementi rilevanti e sufficienti (gravi indizi di colpevolezza ed esigenze cautelari) per l'intera sua durata (§ 65); ritiene, tuttavia, che le autorità nazionali non abbiano impiegato la "speciale diligenza" richiesta dal dettato pattizio nella conduzione del procedimento principale, essendosi tenute mediamente appena quattro udienze al mese (§ 69). La Corte di Strasburgo, dunque, riconosce la violazione del parametro costituito dall'art. 5 comma 3 Cedu. Viene, invece, respinta la successiva prospettazione del ricorrente in ordine alla violazione dell'art. 6 comma 1 Cedu, sotto il profilo della ragionevole durata del procedimento: un periodo complessivo di cinque anni, cinque mesi e quattro giorni dalla data dell'arresto in Portogallo a quella del passaggio in giudicato della sentenza viene giudicato congruo in relazione alla complessità del caso concreto e all'esigenza di compiere una completa ricostruzione dei fatti di causa.

Il passaggio più delicato della pronuncia riguarda il diritto al confronto con i testimoni di accusa (art. 6 commi 1 e 3 lett. d Cedu): la condanna del ricorrente, infatti, si è fondata in misura determinante sulle dichiarazioni accusatorie rese dal concorrente nel reato - nei cui confronti si è proceduto separatamente - il quale si è sempre sottratto alle domande della difesa (non a quelle poste dall'accusa e dal tribunale), adducendo il diritto a non rendere dichiarazioni autoaccusatorie. Nel merito la Corte di Strasburgo osserva, anzitutto, che l'impossibilità per la difesa di interrogare il testimone a carico non può in alcun modo essere imputata alla negligenza delle autorità nazionali, tenute anch'esse al rispetto del principio nemo tenetur se detegere (§ 97). Secondariamente, la C. eur. dir. uomo rileva che - pur non potendo esaminare direttamente il testimone a carico - la difesa ha potuto comunque osservare il contegno tenuto da quest'ultimo in aula e contestare credibilità e precisione della ricostruzione dei fatti, da lui operata nel corso dell'escussione (§ 98). Infine, la Corte europea rileva come le chiamate in correità su cui si fonda la condanna trovino precisi riscontri nelle dichiarazioni rese dagli inquirenti e dai giudici coinvolti nel procedimento a carico del coimputato del medesimo reato. Il tribunale, peraltro, ha provveduto ad acquisire i verbali di tutte le dichiarazioni del testimone a carico, provenienti dal procedimento instaurato nei confronti di quest'ultimo, di modo che è stato possibile operare un controllo penetrante su tali elementi di prova (§ 100). Per questi motivi, la Corte di Strasburgo ritiene che il tribunale fosse, al momento della decisione, in possesso di tutti gli elementi necessari per valutare la credibilità del testimone d'accusa e l'attendibilità delle sue dichiarazioni, concludendo che nel processo vi sono state garanzie procedurali sufficienti a controbilanciare la lesione del diritto di difesa (§ 101). (Luca Pressacco)

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 16 luglio 2015, Kerimli c. Azerbaijan

Il ricorrente è un esponente politico azero, dal 2001 segretario del partito d'opposizione. Da semplice militante, nel 1994 era stato fermato durante una manifestazione e trovato in possesso di una bomba a mano; in conseguenza di ciò era stato arrestato - ma subito rilasciato - ed era stato avviato un procedimento penale. Nelle more, il ricorrente veniva eletto per due volte al parlamento di Baku, nel 1995 e nel 2000; per effetto del proprio status, gli veniva rilasciato il passaporto diplomatico. Cessata la carica, il passaporto diplomatico era ritirato. Risultando nelle more scaduto anche il passaporto 'ordinario', nel 2006 il ricorrente domandava il rilascio del nuovo documento, ma senza successo. La ragione del rifiuto risiedeva nella persistente pendenza del procedimento penale, sospeso nel dicembre 2006 e mai proseguito. Il ricorrente, allora, si rivolgeva alle competenti autorità civili, domandando di rilevare l'estinzione del procedimento - nel frattempo era intervenuta la prescrizione - e di rimuovere la restrizione alla propria libertà di movimento. In ogni grado di giudizio, però, la richiesta era disattesa, principalmente per ragioni procedurali. La questione giunge così a Strasburgo, sub specie di ricorso per la violazione dell'art. 8 della Convenzione. La Corte europea, però, rileva che la disposizione interessata è più correttamente l'art. 2 del prot. n. 4, che dispone in materia di libertà di movimento, ivi incluso, ovviamente, il diritto di lasciare il proprio paese.

Secondo la Corte di Strasburgo, invero, il rifiuto delle autorità nazionali di procedere al rinnovo del passaporto costituisce una restrizione di tale libertà, determinata, per di più, senza esplicitarne la relativa base legale. Rileva la Corte, infatti, che mentre ragioni valide possano suggerire a un Governo di vietare l'espatrio di soggetti sottoposti a procedimento penale, onde preservare l'ordine pubblico e prevenire ulteriori reati (§ 48), è dubbio che tali finalità vengano in considerazione nel presente caso. Il dato decisivo, secondo i giudici, è costituito dall'intervento della prescrizione che, già nel 1999, aveva determinato l'estinzione del reato (§ 51): benché tale argomento sia più volte stato avanzato davanti alle competenti autorità nazionali, esse si sono sempre rifiutate di prenderlo in considerazione. Senza contare, in aggiunta, che quante volte si era trovato a viaggiare all'estero quale membro del parlamento, il ricorrente aveva sempre fatto ritorno in patria, così evidenziando l'assenza di qualsiasi volontà di sottrarsi alle indagini. In conclusione, alle autorità nazionali non è permesso per periodi "lunghi" (§ 56) restringere la libertà di movimento dei propri cittadini senza esaminarne a intervalli regolari la persistente giustificazione. Il rifiuto di procedere a tale valutazione, rileva la Corte europea, si traduce di fatto in un'estensione sine die del divieto, come tale integrante una violazione della Convenzione. (Andrea Giudici)

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 21 luglio 2015, Galambos c. Ungheria

Il ricorrente, generale dell'esercito in pensione già direttore dei servizi di sicurezza ungheresi, viene tratto in arresto e sottoposto a processo con l'accusa di sovversione ed alto tradimento. Egli lamenta, in primo luogo, l'irragionevole durata della custodia cautelare, in violazione dell'art. 5 comma 3 Cedu. La Corte europea accoglie la doglianza, rilevando che la detenzione cautelare del ricorrente è stata prolungata, a più riprese e nonostante molteplici richieste di rilascio, sulla base di motivazioni stereotipate: in particolare, le autorità nazionali hanno enfatizzato il profilo concernente il pericolo di fuga che, lungi dall'essere supportato da riscontri concreti, è stato fatto derivare unicamente dalle relazioni internazionali di cui gode l'accusato (§ 22-24). Secondariamente, il generale Galambos sostiene di non aver potuto esercitare il diritto a un controllo giurisdizionale effettivo al fine di verificare la legittimità della privazione della libertà personale, garantito dall'art. 5 comma 4 Cedu. Infatti - secondo la ricostruzione del ricorrente - la difesa non avrebbe potuto esaminare le istanze del pubblico ministero tese ad ottenere il prolungamento della custodia cautelare, se non in occasione delle udienze all'uopo fissate (§ 29). Il Governo sostiene, al contrario, che il giudizio cautelare si sia svolto nel rispetto dei principi sanciti dal dettato pattizio, adducendo che le limitazioni del diritto di difesa troverebbero legittimo fondamento nella normativa interna concernente il segreto di Stato, considerato che il fascicolo d'indagine conteneva informazioni sensibili per la sicurezza dello Stato (§ 30). La Corte di Strasburgo respinge fermamente tale argomentazione: è vero che la tutela delle informazioni coperte da segreto di Stato ed interessate da un procedimento penale spetta alle autorità nazionali; queste ultime, tuttavia, hanno l'obbligo di individuare modalità concrete di gestione e comunicazione di quelle informazioni, tali da garantire il pieno esercizio dei diritti della difesa (§ 33). Ne consegue che in sede cautelare si è consumata una violazione del principio di parità delle armi, nella misura in cui la difesa del ricorrente non ha avuto accesso al fascicolo d'indagine - in particolare alle richieste formulate dal pubblico ministero in ordine alla libertà personale dell'accusato - anteriormente alla celebrazione delle udienze fissate per discutere l'eventuale prolungamento della custodia cautelare (§ 35-36). (Luca Pressacco)

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 21 luglio 2015, Zachar e ÄŒierny c. Slovacchia

A seguito di una perquisizione eseguita presso uno stabile nella loro disponibilità, i ricorrenti, sospettati di partecipare a un'associazione criminale dedita al traffico di sostanze stupefacenti, vengono sottoposti a interrogatorio da parte degli inquirenti e rendono dichiarazioni ampiamente confessorie. In tale circostanza, come risulta dai verbali dell'interrogatorio, essi rinunciano esplicitamente ad esercitare il proprio diritto alla difesa tecnica, dal momento che l'addebito provvisorio formulato nei loro confronti rientra nel novero delle fattispecie "ordinarie", per le quali la normativa interna non dispone obbligatoriamente l'assistenza legale. In seguito, quando le indagini si trovano già a uno stadio avanzato e i ricorrenti si trovano ristretti in custodia cautelare, gli organi inquirenti provvedono a modificare le imputazioni a loro carico, ipotizzando una forma di reato grave (con relativo aumento delle pene previste e obbligo di assistenza legale), seppur basata sui medesimi elementi materiali di quella precedente. Pertanto, i ricorrenti sostengono di essere stati tratti in inganno dagli organi inquirenti, che avrebbero strumentalmente contestato un reato minore, allo scopo precipuo di indurre gli accusati a rinunciare all'assistenza legale e, dunque, di sottoporli a interrogatorio in un contesto di particolare vulnerabilità. In questo modo, sarebbero state sostanzialmente eluse la garanzie di cui all'art. 6 comma 3 lett. a, b e c Cedu.

La Corte europea giunge ad accertare la violazione del diritto di difesa tecnica e del nemo tenetur se detegere, in base ad un percorso logico e argomentativo parzialmente autonomo rispetto a quello prospettato dai ricorrenti. Anzitutto, la Corte di Strasburgo riconosce che la scelta dei ricorrenti di rinunciare all'assistenza legale deve essere posta in relazione all'imputazione provvisoria formulata dagli inquirenti (§ 70-71). In tale contesto, la Corte europea osserva che le uniche indicazioni, peraltro assai succinte, circa le garanzie procedurali degli accusati sono state fornite ai ricorrenti proprio nelle fasi iniziali del procedimento. Per converso, essi non hanno ricevuto in seguito alcuna comunicazione specifica, nonostante il mutamento del quadro giuridico di riferimento, con conseguenze significative dal punto di vista del trattamento sanzionatorio e della disciplina processuale applicabile (§ 72-73). Ciò induce la Corte di Strasburgo a ritenere che - nel caso di specie - la rinuncia ad esercitare il diritto di difesa tecnica non sia stata presidiata da sufficienti garanzie processuali, in relazione alle gravi conseguenze giuridiche che da tale abdicazione possono derivare. A questo punto, alla Corte europea non rimane che accertare se tale lesione del diritto di difesa, situata nella fase preliminare al processo, sia stata in qualche modo bilanciata da fattori ulteriori nel corso di quest'ultimo (§ 75). Il responso della Corte di Strasburgo sul punto è negativo: risulta, infatti, che le dichiarazione confessorie rese dagli accusati nella fase iniziale del procedimento, in assenza del difensore, abbiano comunque influenzato l'esito del processo, seppur non in modo determinante (§ 79). Peraltro, la C. eur. dir. uomo trova «sorprendente» l'utilizzo di tali elementi di prova a sostegno della pronuncia di condanna, considerato che le dichiarazioni in questione concernono - a rigore - un reato diverso da quello per cui è stata, infine, esercitata l'azione penale (§ 80). (Luca Pressacco)

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 21 luglio 2015, Satakunnan Markkinapörssi Oy e Satamedia Oy c. Finlandia

Nel caso in esame, ricorrono a Strasburgo due società, appartenenti alla medesima proprietà, attive nella gestione e nella pubblicazione di informazioni fiscali: la legge finlandese, infatti, considera pubblica l'informazione circa i redditi e i patrimoni imponibili. In particolare, una delle due ricorrenti pubblica, ormai dal 1994, una rivista specializzata nel settore, cui fa capo un imponente database; l'altra ha invece avviato nel 2003 un servizio che consente di ottenere via SMS le informazioni rilevanti circa un determinato soggetto, laddove compreso nel riferito database. In tale contesto, si colloca un contrasto d'orientamenti tra il Giurì (Ombudsman) e il Consiglio per la protezione dei dati personali: il primo, infatti, adisce il secondo per ottenere l'interruzione del servizio, ravvisando in esso gli estremi di un trattamento illecito di dati personali; il secondo, al contrario, disattende il ricorso, ritenendo che la pubblicazione di tali dati in una rivista costituisse esercizio dell'attività giornalistica e fosse, conseguentemente, autorizzata. Il contrasto, che perviene infine al Consiglio supremo della Giustizia amministrativa, viene rimesso alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, per individuare, in sede di rinvio pregiudiziale, la disciplina applicabile. Secondo la Corte di Lussemburgo, che si pronuncia nel 2008, l'attività in parola costituisce trattamento di dati personali, cui conseguentemente si applica la direttiva 95/46/EC; nondimeno, trattandosi di dati pubblici secondo la legge nazionale, la loro pubblicazione è lecita, inserendosi in una nozione di 'giornalismo' che occorre intendere in senso ampio, onde assicurare una tutela effettiva della libertà d'espressione. In nome della protezione che meritano i dati personali - conclude la Corte UE -, tale qualificazione è però consentita nella misura in cui l'attività in parola risponda a finalità informative indipendentemente dalle sue modalità realizzative, risultando invece inammissibile per la parte di essa che persegua scopi di lucro. I giudici amministrativi di Helsinki, applicando i principi enunciati dalla Corte di Giustizia, ritengono allora che l'attività delle ricorrenti dovesse comunque essere censurata in relazione alle modalità concrete con le quali la stessa era stata realizzata nel 2002: la prima compagnia viene dunque inibita dal costituire database così estesi e permanenti, mentre alla seconda è interdetta l'istituzione del servizio SMS. Le due società adiscono dunque la Corte di Strasburgo, ritenendo che così sia stata violata la propria libertà d'espressione attraverso una censura tanto preventiva quanto parziale, atteso che altre società analoghe avevano potuto continuare la pubblicazione.

La Corte europea, in primo luogo, ritiene di poter ravvisare, in effetti, un'interferenza con la libertà d'espressione delle ricorrenti. In particolare, osserva che, se è vero che il divieto aveva ad oggetto non la pubblicazione dei dati in quanto tali ma la raccolta su larga scala, la conservazione e l'indicizzazione degli stessi, è del pari vero che tali attività costituivano una parte essenziale del contenuto delle pubblicazioni editoriali delle ricorrenti. Quanto alla "necessità in una società democratica" di tale ingerenza, la Corte sottolinea la necessità di operare un bilanciamento con la contrapposta esigenza di assicurare un'adeguata protezione ai dati personali. Allo scopo, si puntualizzano i criteri già enucleati nella giurisprudenza Von Hannover c. Germania, per cui occorre avere riguardo (§ 62): (i) al contributo dell'informazione a un dibattito d'interesse generale; (ii) alla notorietà della persona interessata e l'oggetto dell'informazione; (iii) alla pregressa condotta della persona interessata; (iv) al metodo di conseguimento delle informazioni; (v) al contenuto, forma e conseguenze della pubblicazione; (vi) alla gravità delle sanzioni inflitte. Applicando tali criteri al presente caso, la Corte ritiene che sussistessero ragioni sufficienti perché il pubblico ricevesse le informazioni in parola, trattandosi di dati pubblici e - per ciò solo - di pubblico interesse, la cui acquisizione era stata peraltro del tutto lecita. Tuttavia, la pubblicazione dell'intero database e il servizio SMS non solo, come già evidenziato dalla Corte di Giustizia, non possono essere considerati quali attività giornalistica, ma nemmeno assicurano un adeguato bilanciamento con il diritto al rispetto della vita privata dei soggetti interessati. Tale osservazione, conclude la Corte di Strasburgo, è stata condivisa anche dai giudici amministrativi nazionali, che hanno adeguatamente esercitato il margine di apprezzamento loro rimesso; tale circostanza, unitamente alla natura amministrativa della sanzione inflitta e all'incidenza solo indiretta sulle attività delle ricorrenti, porta la Corte a ritenere, a maggioranza di sei voti contro uno, non violato l'art. 10. Una violazione della Convenzione, invece, è ravvisabile con riguardo all'art. 6, circa l'eccessiva durata dei procedimenti davanti alle varie autorità nazionali. (Andrea Giudici)

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 23 luglio 2015, Bataliny c. Russia

Il sig. Bataliny ricorre, insieme ai suoi genitori, alla C. eur. dir. uomo per vedere riconosciuta una serie di infrazioni del dettato pattizio, a suo parere imputabili alle autorità nazionali russe. Egli lamenta di essere stato arbitrariamente internato in un ospedale psichiatrico a seguito di un tentativo di suicidio e di aver subito, nel nosocomio in questione, pesanti maltrattamenti; inoltre, sostiene di essere stato sottoposto nel corso della permanenza ospedaliera a programmi di sperimentazione di nuovi farmaci contro la sua volontà. Si duole, altresì, dell'assenza di rimedi giurisdizionali effettivi nella normativa interna per contrastare le detenzioni arbitrarie e, infine, dell'assenza di un'investigazione effettiva circa le eventuali responsabilità penali derivanti dalle predette condotte.

La C. eur. dir. uomo accoglie in toto le prospettazioni del ricorrente. Essa riconosce, anzitutto, la violazione dell'art. 5 comma 1 lett. e Cedu, considerando del tutto arbitrario l'internamento per quindici giorni del ricorrente - affetto da distonia neurocircolatoria - in un ospedale psichiatrico, in base ad un'infondata diagnosi di schizofrenia e disordine della personalità (§ 34, 59 e 61). Proseguendo, viene accertata anche la violazione dell'art. 5 comma 4 Cedu, dal momento che il ricorrente e i suoi familiari non hanno potuto usufruire di un rimedio giurisdizionale effettivo, mediante il quale contrastare il prolungamento del ricovero forzoso presso la struttura ospedaliera (§ 75). La Corte di Strasburgo considera violato anche il parametro di cui all'art. 3 Cedu, sotto i profili sia sostanziale che procedurale. Dal primo punto di vista, il ricorrente è stato sottoposto - senza preventivo consenso e in assenza di una necessità medica data da un grave disordine mentale - ad un programma di sperimentazione scientifica di nuovi farmaci antipsicotici (§ 90); peraltro, nel corso del ricovero forzoso gli è stato interdetto qualsiasi contatto col mondo esterno. D'altra parte, per quanto concerne il versante procedurale, il significativo ritardo nell'apertura dell'indagine rispetto al momento di ricevimento della notitia criminis e la perdurante inerzia delle autorità inquirenti hanno determinato l'inidoneità dell'inchiesta a individuare i responsabili delle violazioni dei diritti garantiti dalla Cedu, destinate in tali circostanze a rimanere impunite (§ 105). (Luca Pressacco)