ISSN 2039-1676


15 febbraio 2016 |

R. Kostoris - F. Viganò (a cura di), Il nuovo 'pacchetto' antiterrorismo, Giappichelli, Torino, 2015

Segnalazione bibliografica

E' disponibile e in formato elettronico il volume in epigrafe curato da R. Kostoris e F. Viganò (clicca qui per accedere alla scheda di presentazione del volume), che ospita le dettagliate analisi di Antonio Balsamo, Stefania Martelli, Franco Roberti, Silvia Signorato e Alfio Valsecchi sui molti profili della novella antiterrorismo di cui al d.l. n. 7/2015, conv. in l. n. 43/2015, con cui il governo ha inteso reagire agli attentati di Parigi del gennaio 2015, e che ha acquisito ulteriore attualità dopo i tragici eventi dello scorso 13 novembre. Una novella che ha, in particolare, affidato per la prima volta un ruolo di coordinamento delle indagini in materia di terrorismo alla Procura Nazionale antimafia, ribattezzata ora "Procura Nazionale antimafia e antiterrorismo" e diretta oggi dallo stesso dott. Franco Roberti, coautore di questo volume.

Riportiamo di seguito, con il consenso dell'editore che ringraziamo, le prefazioni al volume a firma dei due curatori.

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Minaccia dei 'lupi solitari' e risposte dell'ordinamento: alla ricerca di un delicato equilibrio tra diritto penale, misure di prevenzione e diritti fondamentali della persona

di Francesco Viganò

Con il d.l. 18 febbraio 2015, n. 7, convertito con modificazioni dalla legge 17 aprile 2015, n. 43, il legislatore italiano ha inteso ulteriormente potenziare i meccanismi di contrasto al terrorismo internazionale, con particolare riguardo al fenomeno dell'estremismo islamico-fondamentalista, tornato drammaticamente alla ribalta in Europa in seguito agli attentati di Parigi del 7 gennaio 2015.

Il fenomeno che pare oggi preoccupare maggiormente le polizie e i sistemi di sicurezza di tutto il mondo è quello dei c.d. 'lupi solitari': ossia di soggetti (spesso immigrati di seconda o terza generazione) convertitisi a titolo individuale alla causa fondamentalistica, e disposti ad immolare la propria vita nel compimento di azioni terroristiche pianificate per così dire 'in proprio', eventualmente avvalendosi delle informazioni sulle modalità di realizzazione di ordigni micidiali reperibili in internet, ovvero mettendo a frutto l'addestramento ricevuto o l'esperienza di combattimento maturata nel corso di viaggi in zone interessati da conflitti armati. Un fenomeno quasi totalmente nuovo, e distinto da quello tradizionale del terrorista membro di un'organizzazione criminosa, attorno alla cui figura è ritagliato l'intero arsenale delle norme incriminatrici presenti sino ad ora nei codici penali europei - ivi compreso il codice penale italiano, dove la norma chiave nella lotta al terrorismo di matrice islamica è stata sinora quella di cui all'art. 270-bis c.p., rubricato appunto "associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale".

Due le strategie fondamentali che il decreto legge intende porre in essere contro questa nuova figura di terrorista 'fai da te'.

La prima strategia passa per il sistema penale, e consiste - come di consueto - nella previsione di nuove norme incriminatrici, o nell'allargamento delle maglie di quelle già esistenti. Come dettagliatamente illustrato dal saggio di Alfio Valsecchi che apre il presente volume, il legislatore interviene anzitutto sull'art. 270-quater c.p. (arruolamento per finalità di terrorismo), inasprendo il relativo trattamento sanzionatorio e, soprattutto, estendendo la punibilità - sinora confinata alla figura dell''arruolatore' - a quella dell''arruolato'. Viene inoltre introdotta una nuova fattispecie di reato (all'art. 270-quater.1 c.p.) destinata a colpire chi organizza, finanzia o propaganda viaggi in territorio estero "finalizzati al compimento di condotte con finalità di terrorismo" (ma non chi compie simili viaggi, che in tanto potrà essere punito in quanto si arruoli in organizzazioni qualificabili come terroristiche, così realizzando il reato di cui all'articolo precedente). Il reato di addestramento per finalità di terrorismo già previsto dall'art. 270-quinquies c.p. viene poi esteso sino ad abbracciare la condotta di chi, avendo autonomamente acquisito istruzioni sull'uso di armi od esplosivi per finalità di terrorismo, compia qualsiasi condotta univocamente finalizzata al compimento di atti terroristici. Infine, vengono introdotte un paio di norme contravvenzionali in materia di controllo dei c.d. precursori di esplosivi, nonché una serie di circostanze aggravanti dei reati di istigazione e di pubblica istigazione a delitti di terrorismo, allorché il fatto sia commesso mediante l'uso di strumenti informatici o telematici.

La seconda strategia, parallela e complementare, si muove sul terreno delle misure di prevenzione personali, regolate oggi organicamente dal codice antimafia (d.lgs. n. 159/2011). La misura della sorveglianza speciale, con o senza divieto od obbligo di soggiorno, viene anzitutto estesa - in forza del novellato art. 4 del codice - a chi compia atti preparatori obiettivamente rilevanti "diretti a prendere parte ad un conflitto in territorio estero a sostegno di un'organizzazione" che persegua essa stessa attività terroristica. Nelle more del procedimento applicativo, poi, il novellato art. 9 dispone ora che lo stesso questore (e non più soltanto il presidente del tribunale, come sinora accadeva) possa disporre, in caso di necessità e urgenza, il ritiro temporaneo del passaporto, al fine di impedire in tempo l'espatrio del proposto; e la trasgressione di tale provvedimento interinale (che si realizza evidentemente allorché il proposto tenti comunque di espatriare, nonostante il ritiro del passaporto) diviene, in forza del nuovo art. 75-bis dello stesso d.lgs. 159/2011, costitutiva di un delitto punito con la reclusione da uno a tre anni, con possibilità di arresto in flagranza del trasgressore. Infine, attraverso una modifica all'art. 13 co. 2 lett. c) del t.u. in materia di immigrazione, in tutti i casi in cui è possibile applicare una misura di prevenzione diviene ora possibile disporre, da parte del questore, l'espulsione dello straniero non UE.

Le linee del sistema di contrasto ai 'lupi solitari' disegnate dal legislatore del 2015 si lasciano, pertanto, così ricostruire. Il diritto penale si arricchisce di fattispecie a vocazione fortemente preventiva, che colpiscono ormai una vastissima gamma di attività preparatorie rispetto alla possibile commissione di attività violente per finalità di terrorismo, sì da porre le agenzie di law enforcement in grado di intervenire mediante misure cautelari - ed eventualmente pre-cautelari - contro i potenziali terroristi, frustrandone in tempo utile i piani criminali, sulla base di gravi indizi di reità. Dall'altro lato il sistema delle misure di prevenzione - sulla base di uno standard indiziario considerevolmente più basso - spalanca ulteriori incisive possibilità di intervento, volte da un lato ad impedire a chi (italiano o straniero) sia sospettato di simpatie per la causa fondamentalistica di uscire dal territorio nazionale, con lo scopo di andare a combattere a fianco delle milizie islamiste (e di tornare poi nel nostro paese con un carico di esperienze maturate sul campo); e dall'altro ad allontanare  dal territorio nazionale lo straniero non UE indiziato, ancora una volta, di connessioni con il terrorismo, o che abbia anche solo manifestato la volontà di combattere in conflitti all'estero.  Due possibilità queste ultime (quella di impedire all'indiziato di espatriare, e quella di espellerlo) solo apparentemente contraddittorie, dal momento che l'espulsione sarà verosimilmente disposta soltanto sulla base di accordi con le autorità di polizia o i servizi di sicurezza del paese di destinazione dello straniero, le quali si faranno dunque carico di prendere in consegna l'espulso e di neutralizzarne - verosimilmente senza troppi scrupoli - la pericolosità.

Quanto una simile composita strategia risulti compatibile con standard minimi di tutela dei principi di garanzia penalistici, e in definitiva dei diritti umani, resta però in larga parte discutibile.

Sul versante propriamente penalistico, l'interrogativo è - ancora una volta - quello della tollerabilità di una così massiccia anticipazione della tutela penale, a fronte di fattispecie che incriminano atti sempre più distanti, dal punto di vista cronologico, dalla lesione dei beni giuridici che si realizza mediante il reato 'fine' terroristico. Indubitabile è, invero, l'enorme potenzialità lesiva di attentati posti in essere da persone disposte a morire per la causa dell'Islam; sicché la legittimità di un intervento preventivo del diritto penale, volto ad impedire in tempo utile la commissione di simili attentati, non dovrebbe essere ragionevolmente in discussione. Il problema è però, da un lato, quello della soglia cronologica sino al quale l'arretramento della punibilità dovrà considerarsi ammissibile, a fronte ad esempio di una fattispecie che colpisce ora qualsiasi "comportamento univocamente finalizzato" alla commissione di condotte terroristiche, anche se in ipotesi lontanissimo dalla realizzazione di tali condotte, compiuto da chi abbia acquisito anche autonomamente istruzioni per il loro compimento; e, dall'altro, quello della congruità della risposta sanzionatoria, al metro del principio di proporzione tra misura della sanzione e gravità del reato, a fronte di atti soltanto preparatori, che ancora non ledono alcun bene giuridico 'finale' e che pure vengono sanzionati, ora, con la pena minima di cinque anni di reclusione.

Ma è soprattutto sul versante delle misure di prevenzione (e su quello, correlato, dell'espulsione dello straniero non UE come misura di prevenzione 'mascherata') che si appuntano, a mio giudizio, gli interrogativi più inquietanti. Il sistema coercitivo della prevenzione, che conduce diritto - trattandosi di stranieri non UE - all'espulsione del soggetto dal territorio nazionale, reagisce ora già di fronte a qualsiasi atto preparatorio di un viaggio all'estero, durante il quale si abbia motivo di sospettare che il soggetto possa unirsi a forze militari che a loro volta perseguano obiettivi terroristici. Non che, anche in questo caso, le preoccupazioni del legislatore siano a priori infondate: l'esperienza reale di combattimenti all'estero accresce, del tutto plausibilmente, la pericolosità dell'ex combattente, una volta che questi riesca a rientrare nel territorio nazionale. Il problema sta, però, nella bassissima soglia indiziaria che consente l'applicazione delle misure di prevenzione, nella pratica assenza di regole sulla formazione della prova nel relativo procedimento, e in generale nella scarsissima effettività delle garanzie difensive di cui il proposto dispone, rispetto a quelle di cui tutto sommato godrebbe - anche in fase cautelare - nell'ambito di un procedimento penale.

Con il rischio, che avevo già avuto modo di evidenziare ormai diversi anni or sono in un intervento dedicato proprio alle strategie di contrasto al terrorismo di matrice islamica (Terrorismo, guerra e sistema penale, in Riv. dir. proc. pen., 2006, p. 648 ss), che l'adozione di strategie alternative al diritto penale - magari ispirate dal proposito, caro a molta parte della dottrina, di evitare contaminazioni del diritto penale con meccanismi di pura neutralizzazione della pericolosità individuale - si risolva, nei fatti, in una perdita secca in termini di tutela dei diritti fondamentali del destinatario delle 'nuove' misure coercitive, estremamente afflittive ancorché formalmente qualificate come 'non penali'.

Proprio la possibilità dell'espulsione dello straniero non UE, in presenza degli stessi requisiti che legittimerebbero l'adozione di una misura di prevenzione nei suoi confronti, evidenzia plasticamente questo rischio. L'espulsione non è affatto una misura meno incisiva, rispetto ai diritti fondamentali del suo destinatario, rispetto alla pena detentiva e alla custodia cautelare in carcere: tutt'altro. Non solo perché mediante l'espulsione possono essere drasticamente recisi tutti i legami sociali e familiari che lo straniero - in ipotesi nato e cresciuto in Italia - ha sviluppato nell'intero arco della sua esistenza; ma, soprattutto, perché un'espulsione pianificata e attuata d'intesa con le polizie e i servizi di sicurezza dello Stato di destinazione espone di regola il soggetto a gravissimi rischi di tortura, una volta che il soggetto sia stato preso in carico da quelle polizie e da quei servizi di sicurezza, che normalmente non brillano quanto a rispetto dei diritti umani, specie nei confronti di veri o presunti terroristi.

Certo, l'ordinamento ha il diritto, e il dovere, di difendersi, di fronte alla prospettiva di attentati catastrofici, come da ultimi quelli francesi del 13 novembre scorso. Ma sul come adempiere questo compito essenziale, senza con ciò sacrificare il patrimonio di diritti umani che costituisce in fondo il più autentico motivo d'orgoglio delle nostre società occidentale, molto si dovrà ancora riflettere.

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Il nuovo 'pacchetto' antiterrorismo, tra prevenzione, constrasto in retee centralizzazione delle indagini

di Roberto Kostoris

Come balza subito agli occhi, questo nuovo 'pacchetto' antiterrorismo privilegia marcatamente le misure 'processuali' in senso lato, e, tra queste, in modo particolare, le misure a carattere preventivo. Inoltre, concentrandosi soprattutto sul fenomeno dei 'lupi solitari' che sfruttano le risorse della rete per i contatti con gruppi terroristici, l'addestramento e la progettazione di attentati, il legislatore ha manifestato qui una marcata e diffusa attenzione per una strategia di contrasto imperniata sulle tecnologie informatiche e telematiche. Infine, si è finalmente abbandonata la logica della frammentazione delle indagini in materia di terrorismo internazionale, optando per una loro concentrazione nell'ambito della procura nazionale antimafia.

Il particolare accento sul momento preventivo si colloca indubbiamente nel solco di una tendenza che è venuta sempre più rafforzandosi non solo in Italia, ma un po' in tutti i paesi occidentali, di fronte alla minaccia terroristica, a partire dall'attacco dell'11 settembre 2001. Si tratta di una strategia che nella riforma coinvolge anche il piano sostanziale,attraverso la creazione di nuove fattispecie incriminatrici volte a punire anche semplici atti preparatori, ma che trova certo il suo fulcro negli strumenti di natura processuale. E, in questa prospettiva, si propizia anche una sempre più stretta sinergia tra attività preventiva e attività repressiva, con chiari raccordi tra attività di intelligence e attività di indagine penale. E, quindi, tra servizi di sicurezza e organi inquirenti. Tra organi alle dipendenze dell'esecutivo e organi giudiziari, o, come la polizia, comunque sono sotto il controllo di quelli giudiziari (art. 109 Cost.).

È indubbio che, ancor di più dopo la seconda strage di Parigi del 14 novembre, le istanze di prevenzione non possano non assumere rilievo centrale, anche a costo di giungere a generali restrizioni di certi diritti fondamentali: penso a profili legati alla privacy, a cui potremmo rinunciare in cambio di una maggior protezione da attacchi terroristici. Resta però il fatto che, prevenzione e repressione dovrebbero obbedire a logiche diverse. Mentre il legislatore tende a omologarle sotto il profilo dell'afflittività, finendo per 'amministrativizzare' il penale, attribuendo, in presenza dei soli evanescenti parametri della pericolosità e del sospetto, al potere amministrativo/esecutivo/politico molta della violenza e della forza che caratterizza gli strumenti penali. Quasi un 'penale parallelo', avulso però dal principio di stretta legalità, e, sotto il profilo 'processuale', non rispettoso della presunzione d'innocenza, del principio del contraddittorio, del ne bis in idem; sempre pronto, tra l'altro, a tracimare dagli argini dei settori "speciali" del terrorismo internazionale e della criminalità organizzata - come conferma il fatto che alcune misure contenute nel 'pacchetto' hanno valenza generale - anche a causa della sempre maggior difficoltà a separare repressione e prevenzione, che spesso si intrecciano

inestricabilmente tra loro, soprattutto quando il diritto penale non si limiti a punire solo azioni del passato, ma anche situazioni di pericolo.

 

Un'altra peculiare cifra complessiva di questo "pacchetto", che, peraltro, tocca essa pure lo strumentario di diritto penale sostanziale, è rappresentata, come dicevamo, da una insistita e generale attenzione per le tecnologie telematiche e informatiche nella lotta al terrorismo di matrice internazionale. Anche qui alcuni interventi legislativi si collocano sul versante preventivo, altri su quello repressivo, altri ancora presentano una duplice valenza.

Il dato positivo è costituito dal fatto che, al di là delle modifiche al codice intervenute con la legge n. 48 del 2008, attuative del Trattato di Prum, finalmente il legislatore sta accorgendosi dell'importanza che l'informatica e la telematica possono rivestire oggi sia nella commissione e nella preparazione di azioni criminose, sia - ed è quello che più interessa - nel contrasto al crimine. La spinta a intervenire è indubbiamente stata determinata qui da ragioni contingenti: si è constatato come la rete sia diventata una risorsa imprescindibile nella progettazione di attacchi terroristici.

Ma è chiaro che questa presa di coscienza non potrà restare circoscritta alla materia del terrorismo internazionale e dovrà portare invece a un ripensamento complessivo e a una ricalibratura generale di tutto l'armamentario e di tutte le strategie investigative tradizionali, in funzione delle peculiarità che presentano le tecnologie informatiche e telematiche, le quali sono caratterizzate da immaterialità, atemporalità e aterritorialità.

Il dato negativo è invece rappresentato dall'approccio spesso dilettantistico e assai poco sorvegliato del legislatore nell'affrontare questi temi. Scelte velleitarie, ma, ancor prima, confusioni terminologiche e sciatterie grammaticali non solo creano difficoltà interpretative di vario genere, ma portano, talora, ad esiti sorprendentemente autolesionistici nella prospettiva di un serio contrasto al terrorismo. Emblematico il caso dei tempi di conservazione dei dati relativi al traffico da parte dei fornitori che, se riguardano questo tipo di criminalità, appaiono addirittura raccorciabili rispetto a quelli generali.

 

Sono numerosi gli specifici presidi messi in campo o, più frequentemente, solo rivisitati dal 'pacchetto' nell'ambito delle misure preventive e repressive.

Pensiamo alla sorveglianza speciale, all'obbligo di soggiorno, a cui può accompagnarsi nei casi di necessità e urgenza il provvedimento del temporaneo ritiro del passaporto da parte del questore, sottoposto comunque a convalida da parte dell'autorità giudiziaria, Pensiamo ancora al provvedimento di espulsione per i cittadini non comunitari, su cui già si soffermano le riflessioni di Francesco Viganò. Inoltre, il "pacchetto" conferisce ai servizi di informazione per la sicurezza dello stato la possibilità di effettuare colloqui investigativi preventivi con detenuti e internati quando vengano in gioco delitti di terrorismo a matrice internazionale. Ed estende, per il contrasto agli stessi delitti, la possibilità di procedere a intercettazioni preventive. Inoltre, consente al personale dell'intelligence di mantenere durante l'esame dibattimentale identità di copertura. Prevede poi l'acquisizione di documenti e dati informatici conservati all'estero. Ed, ancora, prescrive la formazione e l'aggiornamento costante di una black list dei siti utilizzati per le attività di terrorismo, l'obbligo di inibire l'accesso a quei siti da parte dei fornitori di connettività su richiesta dall'autorità giudiziaria, la rimozione dei contenuti da un sito, ordinata dal pubblico ministero quando vi siano concreti elementi per ritenere che taluno compia per via telematica attività di terrorismo, a cui può seguire in caso di inadempimento l'interdizione all'accesso al dominio internet con le forme del sequestro preventivo, per giungere addirittura ad una sorta di "sorveglianza globale" realizzata attribuendo all'Agenzia informazioni e sicurezza esterna (AISE) il compito di "svolgere attività di informazione anche mediante assetti di ricerca elettronica, esclusivamente verso l'esterno, a protezione degli interessi politici, militari, economici, scientifici e industriali della Repubblica italiana. Viene anche predisposta una nuova disciplina sul trattamento dei dati personali da parte delle forze di polizia e in tema di data retention.

 

Infine, come si ricordava in esordio, al Procuratore Nazionale Antimafia è attribuita finalmente anche la competenza per reati terroristici con un correlativo cambio di denominazione di quest'organo in Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo.

Non solo occorreva concentrare su una struttura centralizzata la competenza a perseguire reati che richiedono una gestione e una visione investigativa globale e non frammentata come quelli a matrice terroristica, ma si è anche compreso che tra i due fenomeni, la mafia e il terrorismo internazionale si sono creati forti intrecci e forti collegamenti che, a maggior ragione, impongono strategie di contrasto unitarie. Poi, le scelte normative concrete sul punto presentano luci e ombre.

Luci, sicuramente, per quanto riguarda la possibilità di un coordinamento centralizzato in materia di reati di terrorismo da parte del Procuratore Nazionale, a cui si aggiunge la possibilità per quest'organo di attingere a una ricchissima messe di dati - che egli è anche in grado di mettere a disposizione delle procure distrettuali - essenziale per avere una visione integrata del fenomeno ed effettuare scelte rapide ed efficaci. Ombre - non si sa se dovute più a incuria o a scelta, riguardando criticità che erano già state evidenziate in rapporto al decreto legge - si registrano, invece in ordine alle asimmetrie che permangono tra le attribuzioni del Procuratore Nazionale in materia di mafia e quelle in materia di terrorismo, e per il fatto di aver precluso a quest'organo di esercitare taluni poteri significativi, come quello di autorizzare le agenzie di intelligence ad effettuare intercettazioni preventive o colloqui investigativi a fini preventivi in materia di terrorismo con soggetti detenuti o internati, che rimane, invece, affidato al procuratore generale della Corte d'Appello. Si potrà criticare la commistione tra potere giudiziario e servizi di sicurezza, rilevando che questi ultimi dovrebbero essere autorizzati a procedere a simili intercettazioni dai loro diretti referenti istituzionali-politici, ma, una volta fatta quella scelta, non aveva senso non coinvolgere il Procuratore Nazionale, che può avere una visione sicuramente più completa e integrata di quella di un procuratore generale di Corte d'Appello.