ISSN 2039-1676


03 ottobre 2018 |

Imputazione coatta per fatti diversi da quelli oggetto della richiesta di archiviazione: per le Sezioni Unite l’atto è abnorme e anche l’indagato può proporre ricorso per cassazione

Cass., Sez. Un., sent. 22 marzo 2018 (dep. 24 settembre 2018), n. 40984, Pres. Carcano, Rel. Bonito, Ric. Gianforte

Per leggere il testo della sentenza, clicca in alto su "visualizza allegato".

 

1. Con un noto arresto del 2013[1], le Sezioni Unite della Corte di cassazione avevano tracciato un’importante limitazione al potere di “imputazione coatta” spettante al giudice per le indagini preliminari ex art. 409, co. V, c.p.p. Questi, si era detto, non può ordinare al pubblico ministero la formulazione, nei confronti della persona sottoposta ad indagini, di un’imputazione relativa ad ipotesi di reato diverse da quelle per le quali è richiesta l’archiviazione. Un siffatto provvedimento sarebbe da considerarsi abnorme, e, come tale, ricorribile per cassazione

Pur venendo recepito dalla giurisprudenza di legittimità successiva – sebbene non sia mancato qualche “disallineamento”[2]– tale approdo non ha però mancato di dar vita ad orientamenti divergenti in ordine ad un ulteriore profilo: il ricorso per cassazione avverso l’anzidetto provvedimento abnorme può essere proposto esclusivamente dal p.m.? anche l’indagato possiede un interesse ad impugnare?

Le Sezioni Unite, nel dirimere tale contrasto, accolgono l’orientamento sino ad oggi minoritario e affermano che anche la persona sottoposta ad indagini può ricorrere per cassazione avverso il provvedimento che dispone l’imputazione per fatti non contemplati nella richiesta di archiviazione del p.m. E ciò in quanto tale imputazione coatta incide non solo sulle prerogative spettanti alla pubblica accusa, ma anche sul diritto di difesa.

 

2. Procediamo, anzitutto, con una breve ricostruzione del fatto.

Nel febbraio 2015, M.G., dopo aver fatto rifornimento di carburante presso un distributore, si era lamentato per un’asserita discrepanza tra la somma pagata e la quantità di combustibile erogato. Così, aveva chiesto al titolare della stazione di servizio, «insistentemente e con particolare virulenza», la restituzione del denaro. Ne era nato un litigio tra i due, nel corso del quale M.G., accusando l’esercente di altri analoghi comportamenti «truffaldini», aveva esibito il tesserino dell’Arma dei Carabinieri, minacciando accertamenti sulla stazione di servizio[3]

A seguito di tale episodio, il p.m., ipotizzando la sussistenza del reato di tentata concussione (artt. 56, 317 c.p.), aveva avviato le indagini preliminari nei confronti del carabiniere. All’esito di queste, tuttavia, aveva ritenuto di presentare al g.i.p. richiesta di archiviazione ex art. 408 c.p.p.

Nel valutare la richiesta del p.m., il g.i.p. aveva ricostruito la vicenda soffermandosi, altresì, su un successivo episodio che, pur emergendo dalla documentazione relativa alle indagini espletate, non era stato preso in considerazione dalla pubblica accusa, rimanendo così estraneo alla richiesta di archiviazione. In particolare, era emerso che, nel febbraio 2016, l’indagato si era nuovamente recato presso la medesima stazione per effettuare un rifornimento. Vedendosi opporre, da parte del titolare dell’impianto, il rifiuto del servizio richiesto, egli, per tutta risposta, aveva lasciato ferma la propria autovettura davanti all’erogatore del carburante, impedendo il funzionamento dell’impianto per circa 30 minuti[4]

Alla luce di questa più ampia ricostruzione dei fatti di causa, all’esito dell’udienza fissata ex art. 409, co. II, c.p.p., il giudice per le indagini preliminari, rigettando la richiesta di archiviazione avanzata dal p.m., aveva ordinato la formulazione dell’imputazione in relazione sia alle condotte tenute nel 2015, riqualificate tuttavia come esercizio arbitrario delle proprie ragioni (art. 393 c.p.), sia a quelle poste in essere nel 2016, che però non erano state prese in considerazione dall’accusa nella richiesta di archiviazione. 

 

3. Contro tale provvedimento, ritenuto abnorme, proponeva ricorso per cassazione l’indagato, lamentando la violazione dell’art. 409 c.p.p., nonché degli artt. 111 e 112 Cost.[5]

A sostegno del ricorso veniva essenzialmente richiamato quel consolidato orientamento giurisprudenziale, cui si è già fatto cenno[6], secondo il quale il g.i.p. non potrebbe ordinare al p.m. di formulare imputazioni per fatti diversi da quelli oggetto della richiesta di archiviazione, ma, laddove ritenga che dagli atti di indagine emergano nuove ipotesi di reatodovrebbe limitarsi ad ordinarne l’iscrizione nel registro di cui all’art. 335 c.p.p.

 

4. A fronte di tale ricorso, la VI Sezione della Corte di cassazione, rilevata l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale, rimetteva la questione alle Sezioni Unite.

Come si è anticipato (§1), i dubbi interpretativi non riguardavano la sussistenza, o meno, del vizio di abnormità del provvedimento impugnato – profilo definito, nella sentenza in esame, come «jus receptum»[7]–, bensì la titolarità della legittimazione a proporre ricorso per cassazione avverso lo stesso, e dunque l’ammissibilità del ricorso proposto dall’indagato. Ed infatti, anche nei casi di abnormità, si ritiene che il ricorso per cassazione possa ritenersi ammissibile solo ove il ricorrente abbia «un interesse pratico e attuale all’annullamento dell’atto»[8].

 

5. Nell’affrontare la questione di diritto loro sottoposta[9], i giudici di legittimità muovono, anzitutto, da un breve inquadramento della categoria dell’abnormità

Come noto, si tratta di una particolare specie di invalidità di elaborazione giurisprudenziale[10], in presenza della quale è possibile proporre ricorso per cassazione avverso il provvedimento che ne è affetto. Secondo una ricostruzione ormai consolidata, sono ricollegabili a tale vizio due distinti gruppi di provvedimenti: da una parte quelli che, per singolarità e stranezza del contenuto, risultino avulsi dall’intero ordinamento processuale; dall’altro quelli che, pur essendo espressione di un legittimo potere, vengano adottati al di fuori dei casi consentiti, determinando o una stasi del processo, o una sua indebita regressione[11].

Con specifico riferimento all’istituto dell’imputazione coatta, oltre all’ipotesi verificatasi nel procedimento in esame (ordine di formulazione di un’imputazione, nei confronti del medesimo indagato, ma per fatti diversi da quelli descritti nella richiesta di archiviazione), le Sezioni Unite del 2013 avevano individuato un altro caso di provvedimento abnorme, vale a dire l’imputazione coatta emessa nei confronti di una persona non sottoposta alle indagini[12].

 

6. I casi di abnormità appena richiamati tratteggiano – secondo un’opinione condivisa – due ipotesi di visibile alterazione del riparto di attribuzioni tra p.m. e giudice; un siffatto ordine del g.i.p., in altre parole, travalica i confini di quel controllo che il legislatore ha disciplinato per rendere effettivo il principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.). 

Ma se le ragioni dell’abnormità appaiono indiscusse, più problematico è comprendere se – da un punto di vista degli effetti – tali provvedimenti producano altresì un’illegittima compressione del diritto di difesa facente capo alla persona indagata[13].

Per rispondere a tale interrogativo – da cui dipende logicamente la risoluzione della questione di diritto – le Sezioni Unite richiamano all’attenzione alcune pronunce della Corte costituzionalein tema di imputazione coatta ex art. 409, co. V, c.p.p. Tale istituto, infatti, è stato a più riprese sospettato di illegittimità costituzionale, e quindi sottoposto al vaglio del giudice delle leggi.

Le questioni di legittimità costituzionale su cui è stata chiamata a pronunciarsi la Consulta si sono incentrate, essenzialmente, sulla non operatività, nei casi di imputazione coatta, dell’istituto delineato dall’art. 415-bis c.p.p. Infatti, secondo un’impostazione avallata anche dalla Corte costituzionale, a seguito dell’ordine impartito dal g.i.p. ex art. 409, co. V, c.p.p., il p.m. è tenuto a formulare l’imputazione senza far prima notificare alla persona indagata l’avviso della conclusione delle indagini preliminari. E ciò, nella prospettiva di alcuni interpreti, avrebbe determinato un’irragionevole lesione del diritto di difesa dell’indagato (artt. 3, 24 Cost.), privandolo della possibilità di interloquire con il pubblico ministero in ordine alla completezza delle indagini.

Secondo la Corte costituzionale[14], invece, il meccanismo delineato dall’art. 409 c.p.p., pur contemplando un’ipotesi di imputazione non preceduta dall’avviso di cui all’art. 415-bisnon lede il diritto di difesain quanto il contraddittorio è assicurato proprio dall’udienza in camera di consiglio fissata ex art. 409, co. II c.p.p., all’esito della quale soltanto il giudice assume le proprie determinazioni. Il corretto svolgimento di tale udienza, dunque, si carica di un ruolo di centrale importanza, in quanto è proprio per il suo tramite che viene garantito all’indagato quel diritto ad interloquire prima della formulazione dell’imputazione che, nello svolgimento ordinario del procedimento, è assicurato attraverso l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. 

Da questa ricostruzione emerge allora come l’imputazione coatta sia un istituto la cui geometria bilancia, in un delicato equilibrio, diversi principi costituzionali: non solo il principio di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.) e il principio di terzietà del giudice (art. 111, co. II Cost.), ma, appunto, anche il diritto di difesa[15].

 

7. Se dunque l’art. 409, co. V, c.p.p. può ritenersi conforme ai principi sanciti dalla Costituzione proprio in quanto l’indagato viene posto nelle condizioni di partecipare all’udienza camerale fissata ex art. 409, co. II, c.p.p. e, in questa sede, di interloquire sui fatti oggetto della richiesta di archiviazione[16], ad avviso delle Sezioni Unite si deve concludere, inevitabilmente, che egli abbia un concreto interesse ad impugnare tutti quei provvedimenti che lo abbiano privato di queste facoltà

E una tale lesione del diritto di difesa si verifica non solo quando l’imputazione coatta riguardi persone diverse da quelle indagate dal p.m. (e che dunque non hanno potuto neppure prendere parte alla suddetta udienza), ma anche quando essa abbia ad oggetto fatti diversi da quelli interessati dalla richiesta di archiviazione. Anche in quest’ultimo caso, a ben vedere, l’indagato – pur partecipando all’udienza – non è nelle condizioni, in relazione alle nuove ipotesi di reato, di difendersi per «impedire di essere sottoposto a processo»[17].

 

8. Alla luce di queste coordinate interpretative, il massimo organo nomofilattico si discosta, in modo deciso, da quell’orientamento giurisprudenziale che afferma l’inammissibilità – per difetto di un interesse ad impugnare – del ricorso per cassazione proposto dall’indagato avverso provvedimenti di imputazione coatta abnormi[18].

Alcune pronunce riconducibili a tale filone[19]vedono il proprio impianto argomentativo reggersi essenzialmente sull’affermazione per cui l’ordine di formulare un’imputazione, anche quando affetto da profili di abnormità, si inserirebbe in ogni caso in una fase di «interlocuzione» riguardante «esclusivamente» i rapporti tra giudice per le indagini preliminari e pubblico ministero[20]

Un altro gruppo di arresti, invece, perviene ad affermare l’inammissibilità del ricorso proposto dall’indagato muovendo dall’assunto per cui l’impugnazione del provvedimento abnorme, in quanto attuativa di una deroga «al principio di tassatività delle nullità (art. 177 c.p.p.) e dei mezzi di impugnazione (art. 568 c.p.p.)», avrebbe un tale carattere di eccezionalità da giustificarsi solo «in assenza di possibilità offerte dal sistema per rimediare con prontezza all’anomalia della pronuncia»[21]; e, nei casi di imputazione coatta abnorme, l’indagato non subirebbe alcun pregiudizio irreversibile

Quest’ultima posizione, talvolta proposta in maniera generica e senza ulteriori specificazioni, è stata in alcune occasioni argomentata affermando che, anche a seguito dell’ordine del giudice di formulare un’imputazione ex art. 409, co. V, c.p.p., il p.m. dovrebbe far notificare all’indagato l’avviso di cui all’art. 415-bis c.p.p.[22]. Pertanto, l’indagato non vedrebbe affatto sacrificato il suo diritto di difesa, che peraltro – si aggiunge – potrebbe essere esercitato anche nell’ulteriore fase dell’udienza preliminare[23].

Le Sezioni Unite, respingendo entrambe le ricostruzioni appena richiamate, mettono in luce le ragioni per cui esse non possono essere condivise. 

Anzitutto, esse trascurano che, secondo la lettura più volte offerta dalla Corte costituzionale, l’art. 409, co. V, c.p.p. è conforme ai principi costituzionali proprio in quanto assicura all’indagato uno jus ad loquendum che gli consente di esercitare il proprio diritto di difesa. Il meccanismo che conduce all’imputazione coatta, pertanto, non può essere definito un’interlocuzione che interessa esclusivamente i poteri del g.i.p. e le prerogative del p.m. 

In secondo luogo, tali arresti si discostano dalla giurisprudenza di legittimità maggioritaria – e, ancora una volta, da quella della Corte costituzionale –, secondo cui, a seguito dell’ordine del g.i.p. di formulare l’imputazione, viene meno qualunque ulteriore spazio per l’attività difensiva, in quanto l’imputazione coatta non è preceduta dall’avviso ex art. 415-bis c.p.p.

 

9. Più rigoroso – e coerente con le osservazioni proposte dalle Sezioni Unite nella pronuncia in esame – appare invece l’orientamento minoritario, che riconosce anche all’indagato la legittimazione a proporre ricorso per cassazione. Nelle pronunce ascrivibili a tale filone viene messo in rilievo come, ragionando diversamente, la persona sottoposta ad indagininel caso di inerzia del p.m., «si troverebbe dinanzi all’intervenuto esercizio dell’azione penale, in mancanza della necessaria interlocuzione in contraddittorio prevista a garanzia dei diritti delle parti dall’art. 409, co. II, c.p.p.»[24].

 

10. Pertanto, per le ragioni sopra illustrate, le Sezioni Unite, in adesione all’orientamento giurisprudenziale da ultimo richiamato, affermano che è «ricorribile per cassazione anche dalla persona sottoposta ad indagine il provvedimento del giudice per le indagini preliminari che, non accogliendo la richiesta di archiviazione, ordini, ai sensi dell’art. 409, co. V, c.p.p., che il pubblico ministero formuli l’imputazione per un reato diverso da quello oggetto della richiesta»[25].

In coerenza con tale principio di diritto, i giudici di legittimità annullano senza rinvio il provvedimento del g.i.p. nella parte in cui ordinava la formulazione dell’imputazione per il delitto di violenza privata, in riferimento alle condotte poste in essere dall’indagato nel 2016, e in ordine alle quali il p.m. non aveva avanzato alcuna richiesta. 

A diverse conclusioni pervengono, invece, rispetto all’ordine di formulare un’imputazione per il delitto di esercizio arbitrario delle proprie ragioni (art. 393 c.p.) con riferimento alle condotte risalenti al 2015, che il p.m. aveva originariamente ricondotto alla fattispecie di tentata concussione (artt. 56, 317 c.p.). In questo caso, si osserva, non si ha un atto abnorme, non trattandosi di una imputazione coatta per fatti diversi, bensì di una diversa qualificazione giuridica della condotta per la quale il p.m. aveva già avanzato richiesta di archiviazione[26]

 

***

 

11. Gli snodi motivazionali sopra richiamati si lasciano apprezzare perché, in maniera lineare e attraverso argomenti attenti agli interessi costituzionali coinvolti, conducono ad una soluzione senz’altro condivisibile, che ci sembra la sola in grado di salvaguardare il diritto di difesa dell’indagato. Del resto, l’orientamento secondo cui l’avviso ex art. 415-bis c.p.p. troverebbe applicazione anche nel caso di imputazione coatta sembra essere smentito già da un’incompatibilità normativa tra i due istituti. Infatti, a seguito dell’ordine del g.i.p., il p.m. è tenuto a formulare un’imputazione entro dieci giorni (art. 409, co. V, c.p.p.), mentre la notifica dell’avviso della conclusione delle indagini preliminari attribuirebbe all’indagato la possibilità di svolgere talune attività difensive entro venti giorni (art. 415-bis, co. III, c.p.p.), e potrebbe portare allo svolgimento di nuove indagini della durata massima di sessanta giorni (in caso di proroga del termine, v. art. 415-bis, co. IV, c.p.p.).

Non resta, dunque, che valorizzare la funzione garantista dell’udienza camerale che il g.i.p. fissa ex art. 409, co. II, c.p.p. quando ritenga di non accogliere la richiesta di archiviazione del p.m., e da questa funzione trarre le necessarie conseguenze, come viene fatto dalle Sezioni Unite. Come è stato messo in luce, tale udienza, che si svolge secondo il rito camerale (art. 127 c.p.p.), rappresenta un importante momento di contraddittorio, in quanto, a ben vedere, consente alla persona sottoposta alle indagini di porre in essere attività difensive del tutto assimilabili a quelle contemplate dall’art. 415-bis c.p.p. L’indagato può infatti presentare memorie (art. 127, co. II, c.p.p.), estrarre copia della documentazione degli atti compiuti nel corso delle indagini preliminari (art. 409, co. II, c.p.p.), chiedere di essere sentito (art. 127, co. III, c.p.p.), ed eventualmente prospettare la necessità di effettuare ulteriori indagini, di cui il g.i.p. può ordinare il compimento ai sensi dell’art. 409, co. IV, c.p.p.

 

12. Come si è già avuto modo di osservare (§6), diversi, e tutti di particolare rilievo, sono i principi costituzionali che devono trovare contemperamento nelle dinamiche che conducono ad un’imputazione coatta. Il diritto di difesa, che come si è detto rientra tra questi, viene preso in considerazione dalle Sezioni Unite sotto forma di diritto «di interloquire sull’accusa e sulla sua legittimità», e di «difendersi per impedire di essere sottoposto a processo»[27].

Oltre a ciò, ci sembra che, più in generale, venga in rilievo un interesse alla completezza delle indagini preliminari, che senz’altro fa capo anche all’indagato, attese le significative ripercussioni che indagini incomplete possono avere sullo svolgimento del procedimento (ad esempio in sede di attivazione dei procedimenti speciali, di effettuazione delle contestazioni c.d. probatorie, e così via). 

Tale interesse trova sicuramente una garanzia nella possibilità, offerta all’indagato, di prospettare – a seguito dell’avviso ex art. 415-bis c.p.p., o all’udienza ex art. 409, co. II, c.p.p. – la necessità di compiere ulteriori atti di indagine. Ma, ad avviso di chi scrive, l’esigenza di completezza delle investigazioni richiede, a monte, che la pubblica accusa abbia la possibilità di sfruttare le tempistiche previste e gli strumenti predisposti dal codice di rito per svolgere i propri accertamenti, che, come noto, devono riguardare anche «fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini» (art. 358 c.p.p.). In questo senso, il divieto per il giudice di recidere le tempistiche delle indagini preliminari, attraverso ordini di imputazione nei confronti di persone non indagate o per fatti nuovi, rappresenta una garanzia a salvaguardia non solo delle prerogative della pubblica accusa, ma anche del diritto dell’indagato a che le indagini preliminari siano svolte secondo il canone della completezza. 

 

13. Una situazione diversa, come si è accennato sub §10, si ha invece quando il giudice per le indagini preliminari, ordinando la formulazione di un’imputazione in relazione al medesimo fatto oggetto della richiesta di archiviazione, si limiti a darvi una diversa qualificazione giuridica. In questo caso, un consolidato orientamento giurisprudenziale, che oggi riceve l’avallo delle Sezioni Unite, ritiene che il g.i.p. non travalichi i poteri di interventoche gli sono attribuiti[28]. La soluzione, in astratto lineare, deve però fare i conti, nella prassi, con la delicata questione che sempre si ripropone quando vengono in gioco le nozioni di “diversa qualificazione giuridica” e di “fatto diverso”, e che consiste nell’individuazione della sottile linea di confine che le separa.

 

 


[1] Cfr. Cass. pen., Sez. Un., 28 novembre 2013 (dep. 30 gennaio 2014), n. 4319, pubblicata in questa Rivista, 22 luglio 2014, con nota di G. Angiolini, I limiti del controllo sull’adempimento dell’obbligo costituzionale di esercizio dell’azione penale

[2] Cfr. Cass. pen., Sez. II, 18 ottobre 2016 (dep. 10 novembre 2016), n. 47613, richiamata al §8 della sentenza, nella quale – con riferimento ad un caso di imputazione coatta per un reato diverso – si legge: «l’ordinanza adottata dal Giudice dell’udienza preliminare non può qualificarsi come abnorme, perché è stata in ogni modo assunta nell'ambito del potere ordinatorio riconosciuto al giudice ai sensi dell'art. 409 c.p.p., comma 5. Essa può eventualmente ritenersi illegittima, ma il suo contenuto non è sicuramente avulso dal sistema e gli effetti non sono tali da pregiudicare in concreto lo sviluppo del processo».

[3] Cfr. §1 del “ritenuto in fatto”.

[4] Cfr. §1 del “considerato in fatto”. 

[5] Cfr. §2 del “considerato in fatto”. 

[6] Cfr. nota 1. 

[7] Cfr. §3 del “considerato in diritto”. 

[8] Cfr. §4 del “considerato in diritto”, che richiama Cass. pen., Sez. VI, 6 ottobre 2004 (dep. 29.10.2004), n. 42542. 

[9] Cfr. §1 del “considerato in diritto”, che riassume la questione di diritto in questi termini: «se sia ricorribile per cassazione, dalla persona sottoposta ad indagine, il provvedimento del g.i.p. che, non accogliendo la richiesta di archiviazione, ordini, ai sensi dell’art. 409, co. V, c.p.p. al p.m. di formulare l’imputazione per un reato diverso da quello oggetto della richiesta».

[10] In quanto tale, la categoria dell’abnormità deroga al principio di tassatività delle nullità. La stessa Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale esprimeva la necessità di lasciare alla giurisprudenza il compito di delinearne le caratteristiche, «attesa la rilevante difficoltà di una possibile tipizzazione»; sul punto cfr. A. Gaito, Le impugnazioni in generale, in AA. VV., Procedura penale, V ed., Giappichelli, Torino, 2017, p. 772.

[11] Cfr. §2 del “considerato in diritto”, che richiama l’impostazione delineata da Cass. pen., Sez. Un., 26 marzo 2009 (dep. 22 giugno 2009), n. 25957. Cfr. anche G. Varraso, Gli atti, in AA. VV., Procedura penale, V ed., Giappichelli, Torino, 2017, p. 248. I due gruppi di ipotesi vengono solitamente definiti – in dottrina e giurisprudenza – rispettivamente come «abnormità strutturale» e «abnormità funzionale», cfr. P. Tonini, Manuale di procedura penale, XVIII ed., Giuffrè, Milano, 2017, p. 225.

[12] La pronuncia delle Sezioni Unite del 2013 ha delineato tale ipotesi di abnormità nel solco tracciato, già nel 2005, da Cass. pen., Sez. Un., 31 maggio 2005 (ud. 17 giugno 2005), n. 22909, Minervini, richiamata sub §2 della sentenza in esame. Tale pronuncia concerneva un caso in cui il g.i.p., non accogliendo la richiesta di archiviazione del p.m., aveva ordinato l’iscrizione nel registro delle notizie di reato di soggetti non indagati, disponendo nuove indagini e fissando, contestualmente, una nuova udienza di rinvio. Le Sezioni Unite avevano affermato che tale provvedimento dovesse ritenersi abnorme nella parte in cui fissava una nuova udienza di rinvio; proprio tale statuizione, infatti, determinava – nei confronti del p.m. – un vincolo in ordine alle determinazioni da assumere all’esito delle ulteriori indagini ancora da compiere.  

[13] Per questa distinzione tra ragioni dell’abnormità e suoi effetti, cfr. §2.1 del “considerato in diritto”, che rinvia alla pronuncia delle Sezioni Unite del 2013, la quale già aveva messo in luce come fosse ravvisabile una lesione del diritto di difesa. 

[14] Cfr., da ultimo, Corte cost., ord., 24 ottobre 2012 (dep. 12 dicembre 2012), n. 286, richiamata al §5 del “considerato in diritto”. 

[15] Cfr. §6 della sentenza, che richiama, testualmente, le osservazioni contenute in un contributo, ospitato su questa Rivista, di A. Angiolini, I limiti del controllo sull’adempimento, cit., p. 18.

[16] Cfr. §6 del “considerato in diritto”. 

[17] Cfr. §10 del “considerato in diritto”. 

[18] Cfr. §8 del “considerato in diritto”. 

[19] Le Sezioni Unite, a seguito di un’attenta analisi ricostruttiva del dibattito giurisprudenziale, osservano come un primo gruppo di pronunce spesso richiamato a sostegno di tale orientamento riguardi, in realtà, provvedimenti non affetti da abnormità, bensì da nullità per carenza di motivazione o per vizi attinenti all’opposizione della persona offesa, cfr. §8, lett. a), che rinvia a Cass. pen., Sez. IV, 20 gennaio 2012 (dep. 20 marzo 2012), n. 10877. In questi casi, dunque, si giustificava la declaratoria di inammissibilità del ricorso proposto dall’indagato, non essendovi alcun atto abnorme in grado di incidere sul diritto di difesa. 

[20] ​In questo senso cfr. Cass. pen., Sez. III, 14 dicembre 2016 (dep. 28 marzo 2017), n. 15251, ove si legge che l’indagato non ha «un interesse pretensivo al controllo sulla regolarità dell’interlocuzione interna tra il giudice per le indagini preliminari ed il pubblico ministero». In questo caso, tuttavia, i giudici di legittimità non avevano trascurato di prendere in considerazione il diritto di difesa, ma ne avevano escluso qualsiasi lesione alla luce delle peculiarità della fattispecie concreta. Il p.m., infatti, aveva dato seguito all’ordine di imputazione – abnorme – emesso dal g.i.p. in relazione a persona non indagata, iscrivendone il nome nel registro delle notizie di reato ed esercitando l’azione penale mediante richiesta di emissione del decreto penale di condanna. Secondo le Sezioni Unite, posto che l’attivazione di tale procedimento speciale avrebbe comunque esonerato l’accusa dal far notificare l’avviso exart. 415-bisc.p.p., in quello specifico caso poteva escludersi la sussistenza di un interesse concreto dell’indagato a proporre ricorso per cassazione.

[21] Cfr. Cass. pen., Sez. V, 19 maggio 2014 (dep. 23 luglio 2014), n. 32753. 

[22] In questo senso si veda anche Cass. pen., Sez. VI, 11 ottobre 2017 (dep. 25 ottobre 2017), n. 49093.

[23] Cfr. Cass. pen., Sez. II, 18 ottobre 2016 (dep. 10 novembre 2016), n. 47613. 

[24] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 20 luglio 2016 (dep. 12 agosto 2016), n. 34881. 

[25] Cfr. §11 della sentenza. 

[26] Cfr. §12 della sentenza. 

[27] Cfr. §10 del “considerato in diritto”. 

[28] In dottrina si veda M. Colamussi, Le funzioni di controllo, garanzia e decisione del g.i.p. sulla richiesta di archiviazione del p.m., nota a Cass. pen., Sez. V, 2 maggio 1995 (dep. 23 maggio 1995), in Cass. pen., 1997, p. 3437 ss.