ISSN 2039-1676


28 marzo 2019 |

G. Carlizzi, La valutazione della prova scientifica, Milano, 2019

Recensione

 

1. Introduzione. Affrontare gli interrogativi sollevati dai rapporti tra accertamento processuale e conoscenza scientifica, allo stato della letteratura accumulatasi negli ultimi decenni, è un’impresa a dir poco complicata. Il volume di Gaetano Carlizzi La valutazione della prova scientifica – uscito da pochi mesi per i tipi di Giuffrè, nella collana Epistemologia giudiziaria diretta da Giulio Ubertis[1] – è però dotato di un pregio particolare: pur non lesinando le necessarie analisi storiche, ricostruttive, e critiche, è caratterizzato da una aspirazione che potremmo dire pedagogica. L’ideale a cui Carlizzi non nasconde di mirare è infatti quello del “manuale d’istruzioni” sul ragionamento probatorio in materia di prova scientifica: qual è la struttura logica di questo ragionamento? In quali forme appare, nel corso del processo penale? Quali sono i suoi limiti, le sue virtù, le sue caratteristiche tipiche?

L’indagine si articola in quattro capitoli: nel primo, viene approfondita la struttura logica del ragionamento compiuto dal giudice per riconoscere l’attendibilità di una prova “scientifica” prima e poterla utilizzare poi nella ricostruzione dei fatti; nel secondo, vengono approfonditi gli atteggiamenti normalmente assunti dagli organi giudicanti verso il sapere scientifico, per indicare quale tra questi atteggiamenti sia il più consono all’ispirazione epistemologica di fondo del nostro processo penale; nel terzo, i risultati delle indagini logiche e sociologiche dei capitoli precedenti vengono confrontate col diritto positivo italiano e statunitense, e con la relativa giurisprudenza più rilevante; nel quarto, si verifica se il ragionamento probatorio compiuto in sede di valutazione della prova scientifica sia suscettibile di riproporsi immutato anche in sede di ammissione, di decisione, o durante il controllo in sede di impugnazione.

La mia attenzione si concentrerà soprattutto sul I e sul IV capitolo, non perché il II e il III siano meno interessanti, ma perché è nel I e nel IV capitolo che Carlizzi espone gran parte delle sue tesi più originali[2]. Prima di entrare nel merito, anticiperò ai §§ 2 e 3 alcuni chiarimenti teorici e di metodo su aspetti “di fondo” della ricerca contenuta ne La valutazione della prova scientifica. Si tratta di tesi dichiarate ma (per ovvie ragioni di opportunità) non discusse, che rappresentano – potremmo dire – gli attrezzi della cassetta di Carlizzi come filosofo del diritto applicato alla procedura penale.

 

2. La teoria del diritto di Carlizzi nel prisma della filosofia della prova. – Gaetano Carlizzi è un filosofo del diritto di indirizzo ermeneutico. O meglio, dovremmo dire di indirizzo “analitico-ermeneutico”[3], se si considera che – a differenza delle correnti più soggettivistiche e irrazionalistiche dell’ermeneutica filosofica e giuridica, ormai pressoché estinte – anche Carlizzi sottoscrive sul piano meta-teorico diverse tesi tipicamente analitiche[4]. Ad esempio: il linguaggio come limite oggettivo dell’attività del giurista[5], la distinzione (dove distinguere, però, per Carlizzi non significa propriamente separare) tra quæstiones iuris e quæstiones facti nel ragionamento giudiziale[6], la ripartizione del ragionamento giuridico in “contesti” (di invenzione, di scoperta, di giustificazione, e di decisione)[7].

Perfino sul piano epistemologico Carlizzi segue tesi che condividerebbero con lui svariati filosofi del diritto di estrazione puramente analitica (penso innanzitutto a Luigi Ferrajoli). Due esempi eccellenti: l’idea semantica di verità come corrispondenza[8]; e l’idea di “potenza del negativo”, che ispira l’epistemologia di fondo del processo penale, a mente della quale qualsiasi affermazione riguardi «realtà non esperite contestualmente non può mai dimostrarsi vera in via diretta, ma solo facendo vedere che essa, a differenza di quelle che vi si oppongono, resiste ai tentativi di critica condotti con metodi intersoggettivamente validi»[9].

Naturalmente, a differenza del filosofo analitico puro, Carlizzi crede anche che nel c.d. “contesto di scoperta” del ragionamento giuridico non viga una specie di irrazionalità intimista, ma una precisa «logica trascendentale»[10]: il giurista, in quanto membro di una comunità linguistica, si accosterebbe ai casi giuridici prefigurandone la soluzione in base ai suggerimenti che gli derivano dalla sua partecipazione a tale comunità; la soluzione, solo provvisoria, deve però affrontare un confronto “ricorsivo” con i fatti che vengono via via accertati, precisandosi e precisando al contempo gli ulteriori fatti da accertare[11]. Da epistemologo non ingenuamente empirista, Carlizzi sa poi che in qualsiasi indagine razionale non esistono tesi isolate in competizione tra loro, o falsificazioni istantanee del tipo immaginato da Popper, ma che, spesso, a combattere per il gradino più alto del podio nella gara della conoscenza, sono intere visioni del mondo[12].

Ho fatto questa digressione sull’approccio filosofico di Carlizzi perché esso fa continuamente “capolino”, in diversi punti della sua analisi sul ragionamento probatorio in materia di prova scientifica, attribuendo un alto grado di coerenza interna al suo pensiero e consentendo così di comprenderlo meglio.

Ad esempio, quando ci dice che stabilire se un fatto è provato secondo un certo principio scientifico è un’attività intellettuale analoga a quella che ci conduce a stabilire se un fatto è rilevante alla luce di una certa norma giuridica[13], usa due volte gli occhiali dell’ermeneutico: la prima volta, nel dirci che il rapporto tra princìpi scientifici e fatti empirici non è una specie di inclusione logica istantanea, ma un processo in cui il fatto determina la scelta del principio nel frattempo che il principio determina la forma del fatto; la seconda, nel suggerire che – perciò – tra le diverse attività intellettuali, pur concettualmente distinguibili, che compongono il ragionamento del giudice (qualificazione giuridica e accertamento del fatto), c’è una forte aria di “somiglianze di famiglia”[14].

E ancora, quando ritiene che, nel controllare l’attendibilità della tesi in base alla quale l’esperto sostiene che certi dati materiali siano interpretabili alla luce di un certo principio scientifico, il giudice raffronti il caso in giudizio con altri simili in cui tale interpretazione si è data sicuramente, Carlizzi adatta al mondo della prova la tesi di Engisch[15] (ma in qualche misura anche di Hart[16]) secondo cui la sussunzione giuridica è una continua opera di «equiparazione del caso da decidere ai casi certamente rientranti nella portata normativa»[17].

E ancora, quando ci dice che ogni decisione attraverso cui il giudice, chiuso il dibattimento, verifica se la prova scientifica ritenuta prima facie attendibile confermi l’esistenza dei fatti su cui verte, è in una certa misura «prefigurata nel corso [dell’istruzione]»[18], Carlizzi ha di nuovo in mente il circolo ermeneutico di domande (che contengono le risposte) e risposte (che contengono altre domande) attraverso il quale, nell’applicazione del diritto, si passa da un’ipotesi provvisoria alla sua messa a punto definitiva[19].

 

3. La metodologia descrittivo-prescrittiva di Carlizzi. – Anche quando ci trasferiamo sul piano metodologico, le predilezioni filosofiche di Carlizzi non smettono mai di orientarne il pensiero.

In particolare, l’analisi contenuta nel volume si muove inseguendo due metafore ricorrenti[20]: una, che interessa l’oggetto dello studio, è la metafora della matrioska; l’altra, che riguarda più in generale il metodo con cui tale oggetto viene studiato, è la metafora ermeneutica della spirale. Tramite queste figure Carlizzi è in grado, nei primi due capitoli, di costruire un’immagine coerente delle prassi che vanno sotto il nome di “valutazione razionale della prova scientifica”, per poi, negli ultimi due, proiettarla prescrittivamente in altri contesti processuali[21].

La metafora della matrioska si svolge su due livelli: a livello concettuale, l’analisi mostra innanzitutto – dal piccolo al grande – i procedimenti intellettuali con cui l’esperto offre le proprie tesi in giudizio, i procedimenti intellettuali con cui il giudice ne misura l’affidabilità epistemologica, e il procedimento intellettuale con cui la Cassazione valuta la correttezza di questa misurazione[22]; a livello narrativo, è il libro stesso a presentarsi come una disamina – dal piccolo al grande, dal descrittivo al prescrittivo – prima del rapporto tra giudice e perito (capp. I e II) e poi dei riflessi di questo rapporto nel contesto più ampio del procedimento penale (capp. III e IV).

Anche la metafora della spirale si svolge su due livelli: a livello concettuale, la scansione precomprensione-circolo ermeneutico-controllo serve a Carlizzi per mostrare, nel mondo della prova (scientifica), quello che avviene più in generale nel mondo della qualificazione giuridica, tracciando continue analogie tra le attività compiute dall’esperto, dal giudice, e dal giurista in quanto partecipanti ad uno stesso “gioco linguistico”[23]; a livello narrativo, è il libro stesso a svelarsi come un approfondimento progressivo di un discorso che – al termine della sua lettura – il lettore più attento riconoscerà già integralmente prefigurato nel primo capitolo.

 

4. Una teoria della valutazione della prova scientifica. – Fatte le dovute premesse, passo al nòcciolo della tesi di Carlizzi, che fondamentalmente si propone di rispondere al seguente quesito: che cos’è e come si svolge il ragionamento probatorio compiuto dal giudice su una prova “scientifica”?

Come altri filosofi ermeneutici contemporanei, Carlizzi non disconosce la validità descrittiva del sillogismo come forma del ragionamento probatorio (o giuridico, più in generale)[24]. La valutazione probatoria scientifica viene pertanto presentata come quel sillogismo in forza del quale è possibile predicare l’attendibilità e la persuasività di un’informazione. Tale informazione – ecco la particolarità del ragionamento che si svolge su una prova scientifica – può tuttavia essere compresa e impiegata in giudizio solo con l’aiuto di un esperto.

Su piano macro-strutturale, tale ragionamento si articola in due momenti: una valutazione di attendibilità epistemologica, che è un sotto-tipo della valutazione di attendibilità intrinseca comunemente operata anche sulle prove dichiarative non specialistiche; e una valutazione di persuasività (di «efficacia persuasiva»[25], direbbe Paolo Ferrua, o «concludenza probatoria»[26], per dirla con Giulio Ubertis). I due momenti sono strettamente correlati: la conclusione della valutazione di attendibilità è, allo stesso tempo, la premessa (minore) della successiva valutazione di persuasività[27].

Diversamente da quello che ci si potrebbe aspettare, l’esposizione offerta da Carlizzi non procede dalle premesse alle conclusioni, ma – secondo un’inclinazione, di nuovo, tipicamente ermeneutica – dalle conclusioni alle premesse. In questa sede, per facilitarne la lettura, ne sintetizzerò un esempio esponendolo in senso tradizionale, partendo cioè dalle premesse per arrivare alle conclusioni.

 

4.1 (segue) La valutazione di attendibilità. – Secondo Carlizzi, nella prima fase del ragionamento sulla prova scientifica, il giudice intraprende una valutazione che non va confusa con la valutazione di ammissibilità – giacché, pur svolgendosi secondo gli stessi criteri, non solo è ad essa successiva, ma richiede il soddisfacimento di tali criteri ad un livello molto più alto[28] – e assume la seguente forma paradigmatica:

PM: Un’informazione esperta, secondo cui vige un principio scientifico regolante la sussistenza di un aspetto di un caso in giudizio (chiamata da Carlizzi «tesi nomologica»[29]), è attendibile se soddisfa requisiti contingentemente sufficienti di affidabilità epistemologica nel processo;

Pm: L’informazione esperta x, secondo cui vige il principio scientifico y, regolante la sussistenza dell’aspetto w del caso in giudizio h, soddisfa i requisiti a, b, c, che sono requisiti contingentemente sufficienti di affidabilità epistemologica nel processo;

C: L’informazione esperta x, secondo cui vige il principio scientifico y, regolante la sussistenza dell’aspetto w del caso in giudizio h, è attendibile;

Non mi intratterrò sui diversi passaggi, limitandomi a sottolinearne alcuni aspetti.

Quanto alla premessa maggiore, è evidente dalla stessa formulazione di Carlizzi che i criteri che servono a ritenere attendibile una certa informazione specialistica (specificati con le lettere a, b, c, ovvero d, e, f, nella premessa minore) sono contingentemente sufficienti: non costituiscono, cioè, un elenco chiuso, ma aperto e sempre perfettibile alla luce delle singole vicende scientifiche di cui il giudice è tenuto ad occuparsi.

Nel nostro ordinamento, uno dei più fortunati compendi di tali criteri è quello offerto dai “criteri Cozzini” formulati dalla Corte di cassazione nel 2010[30]. In breve: autorevolezza e affidabilità del soggetto che conduce la ricerca; rigore, oggettività e grado di sostegno ai fatti da parte della ricerca stessa. Il giudice dovrebbe valutare l’attendibilità del principio formulato dall’esperto, sfruttando questi criteri non «come uno scienziato, bensì come un filosofo [della scienza, aggiungerei, n.d.A.]»[31]: controllando cioè che i princìpi prescelti dal perito o dal consulente tecnico possiedano un grado di scientificità sostanzialmente condiviso dalla sua comunità intellettuale di riferimento.

D’altro canto, l’esperto non fornisce solo princìpi scientifici («tesi nomologiche»), ma può rappresentarne anche applicazioni concrete, affermando, per esempio, che certi elementi occorsi in giudizio sono epifenomeni di una legge più generale (ossia proponendo cioè quelle che Carlizzi chiama «tesi applicative»[32]). In questo secondo caso, oltre alla valutazione di attendibilità epistemologica operata secondo i “criteri Cozzini”, il giudice dovrà anche verificare – alla luce del senso comune, però – se l’applicazione ai dati occorsi in concreto sia positivamente confrontabile con altri casi in cui tale applicazione è certa. Se l’applicazione proposta dall’esperto si riduce ad un’attività di calcolo (matematico, o logico), tale attività di confronto assume poi una fisionomia del tutto particolare: secondo Carlizzi, il giudice, eventualmente con l’ausilio di un software ad hoc, dovrà ripetere personalmente il calcolo proposto dal perito per verificarne la correttezza[33].

Quanto alla premessa minore, l’applicazione dei criteri individuati dal giudice alle affermazioni di principio fornite dell’esperto, essendo una forma di sussunzione tipologica, soggiace a due ordini di vaghezza: in primo luogo, non ogni attività scientifica è valutabile alla stregua dei medesimi criteri, che verranno pertanto individuati in numero e tipi maggiori o minori di volta in volta; inoltre, non ogni tesi peritale soddisfa simultaneamente e allo stesso grado tutti i criteri così individuati. Quando invece l’esperto non si limita ad affermare un principio scientifico che serve a spiegare gli aspetti scientifici del caso, ma ne fa direttamente applicazione, è tale applicazione ad essere oggetto di un controllo epistemologico: il giudice dovrà chiedersi se le ragioni offerte dall’esperto per ritenere che i dati occorsi in concreto siano espressivi di una legge più generale sono, alla luce del senso comune, congruenti con altre ipotesi in cui tale applicazione ha avuto sicuramente esito favorevole; se l’applicazione fornita dal perito consiste in un calcolo, invece, il giudice dovrà – da solo, o con l’aiuto di un software – semplicemente ripeterlo[34].

Quanto alla conclusione, è chiaro dalla stessa formulazione paradigmatica che non si tratta di un giudizio sul mezzo di prova (ossia sull’esperto), ma sull’informazione da esso veicolata[35]. In altri termini, sono le leggi causali, le leggi evolutive, le descrizioni tassonomiche, e via dicendo, o la loro applicazione ai dati emersi in giudizio, ad essere ritenute più o meno “epistemologicamente attendibili”[36].

 

4.2 (segue) La valutazione di persuasività. – Nella seconda fase del ragionamento – al termine dell’istruzione ma prima della decisione sul tema d’accusa – il giudice raccoglie le informazioni veicolate dall’esperto e ritenute attendibili per determinare il grado di conferma che esse riescono ad attribuire ad una proposizione su un fatto[37]. Anche questo secondo ragionamento viene schematizzato da Carlizzi attraverso formule paradigmatiche illustrate a ritroso, partendo dalle conclusioni per arrivare alle premesse. Volendole svolgere in senso lineare, esse assumono la seguente forma:

PM: Se si dà un’informazione esperta attendibile secondo cui vige un principio scientifico regolante la sussistenza di un aspetto di un caso in giudizio, allora tali informazioni confermano prima facie quell’aspetto;

Pm: Si dà l’informazione esperta attendibile x, secondo cui vige il principio scientifico y, regolante la sussistenza dell’aspetto w del caso in giudizio h;

C: L’informazione esperta attendibile x, secondo cui vige il principio scientifico y, regolante la sussistenza dell’aspetto w del caso in giudizio h, confermano prima facie l’aspetto w nel caso in giudizio h;

Anche rispetto a questa seconda fase del ragionamento mi limiterò a notazioni essenziali, rimandando per il resto alla dettagliatissima analisi contenuta nel volume.

Quanto alla premessa maggiore, si tratta di un metro di giudizio prettamente logico: in questa sede, il giudice è tenuto a correlare in astratto il grado di attendibilità attribuito ad una tesi esperta (o ai princìpi scientifici che la informano) e il grado di conferma attribuibile all’ipotesi sul fatto. Le leggi causali e statistiche, ad esempio, stabiliscono una regolarità di successione «universale, condizionale, continua e asimmetrica»[38] tra due tipi di eventi. Il giudice posto di fronte ad una versione attendibile di esse, o ad una loro applicazione coerente al caso in giudizio, è senz’altro in grado di affermare che le proposizioni sui fatti alle quali tali leggi o applicazioni si riferiscono potranno godere di un grado di conferma assai elevato.

Quanto alla premessa minore, come ho già anticipato, il contenuto dipende dalla conclusione della precedente valutazione di attendibilità epistemologica. Nel sussumere i risultati della valutazione di attendibilità nella premessa maggiore del ragionamento sulla persuasività, il giudice non compie tuttavia un’operazione prettamente meccanica. Per fare un esempio che i penalisti conoscono bene, è questo il momento in cui il giudice deve verificare se la tesi attendibile fornita dal perito sulla sussistenza del nesso di causalità si sia anche “data” nel caso di specie, escludendo quindi i fattori ostativi o alternativi al decorso causale reale[39]. Il vincolo logico che le leggi scientifiche imprimono al convincimento del giudice in questo secondo passaggio è però assai variabile: se l’occorrenza delle coincidenze tra loci nelle indagini genetiche sul DNA impone una sussunzione pressoché immediata, l’accertamento della corrispondenza tra due segni nelle perizie grafiche è materia decisamente più discrezionale[40].

Quanto alle conclusioni del giudizio di persuasività, la clausola che Carlizzi ci tiene a sottolineare è compendiata dalla formula “prima facie”: anche se le tesi fornite dall’esperto in giudizio sono state ritenute attendibili, e anche se il giudice ha riscontrato la loro applicabilità al caso di specie, abbiamo ragioni «tutt’al più buone, ma non necessariamente decisive» per ritenere provata la proposizione sul fatto della quale esse si occupano. Carlizzi traccia qui un’analogia con le leggi scientifiche, ma credo si riferisca più in generale ad ogni forma di indagine razionale: la clausola ceteris paribus impone infatti che qualsiasi circostanza si verifichi in presenza di certi antecedenti possa essere affermata solo escludendo (o dando per implicitamente non avvenute) ulteriori condizioni ostative o impeditive al suo verificarsi[41]. Il grado di conferma probatoria, pertanto, «va sempre inteso in termini sfumati, cioè come grado situato tra i poli ideali della conferma nulla e della conferma massima»[42].

L’esito naturale dell’analisi svolta nel primo capitolo si svela però solo al termine del capitolo seguente, in cui vengono passati in rassegna i diversi atteggiamenti metodologici assunti dai giudici nei confronti del sapere specialistico: dal grado massimo dell’indifferenza (in cui il giudice contrabbanda per fatto notorio una pseudo-scienza, magari privata) al grado minimo della totale deferenza (in cui il giudice ratifica acriticamente le opinioni presentate dagli esperti), apparirà ovvio al lettore che – se il procedimento intellettuale descritto nel primo capitolo merita davvero la qualifica di “razionale” – il giudice che intende ripercorrerlo più fedelmente, nel contesto di un’impresa indubitabilmente razionale qual è la ricostruzione del fatto nel processo penale, dovrà collocarsi «a metà strada tra passivismo ed attivismo epistemico. [Dovrà insomma] cercare, sì, il conforto del parere di un esperto in giudizio, ma valutare, al contempo, se esso, in quanto fondato sulla retta formulazione e applicazione di un principio specialistico, sia affidabile, quindi attendibile, e cioè meriti di contribuire alla decisione del caso concreto»[43].

 

5. Quattro quesiti sul ragionamento probatorio scientifico nel processo penale. – Dopo aver ripercorso, nel terzo capitolo, la genesi delle regole sull’ammissione e la valutazione della prova scientifica nell’ordinamento statunitense e italiano, Carlizzi dedica il quarto e ultimo capitolo alle sue tesi più nitidamente prescrittive.

Tali tesi ruotano tutte attorno ad un pressante interrogativo di fondo, che il processualista conosce bene: giacché la nozione di affidabilità epistemologica dovrebbe determinarsi «tipologicamente»[44] –  non potendo essere definita in base ad un insieme chiuso di caratteristiche invariabili, né in ogni caso affermata o negata categoricamente, ma solo in misura maggiore o minore –  si danno (direbbe Carlizzi) ulteriori occorrenze che integrano l’interesse pratico attuato dal tipo “affidabilità epistemologica”, nato in sede di valutazione della prova[45]? Ossia, ci sono altri contesti processuali in cui è possibile applicare, mutatis mutandis, i “criteri Cozzini”?

Il capitolo, attraverso una scansione del codice di procedura penale italiano, prova a rispondere a tale quesito quadripartendolo:

I “criteri Cozzini” valgono per regolare l’ammissione della prova?

Nel nostro ordinamento processuale, l’ammissibilità della prova scientifica è regolata da tre requisiti: perizie e consulenze, come ogni altro mezzo di prova prodotto in giudizio, devono innanzitutto essere non manifestamente superflue, non manifestamente irrilevanti, e non contrarie ai divieti stabiliti dalla legge (artt. 187 e 190 c.p.p.); diversamente da ogni altro mezzo di prova, però, esse possono essere disposte solo «quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche» (art. 220, comma 1, 230 e 233, comma 1, c.p.p.). Carlizzi dunque ritiene che una prova scientifica, per essere ammissibile, debba essere intesa come “non manifestamente superflua” nel senso di “non manifestamente inaffidabile”. Il nostro ordinamento sarebbe insomma congegnato per consentire l’ingresso di conoscenze specialistiche a patto che queste siano in grado di offrire un contributo “epistemologicamente superiore” a quello di qualsiasi altro mezzo di prova: e tale superiorità epistemologica si misura facendo ricorso, appunto, ai criteri offerti dalla sentenza Cozzini[46];

I “criteri Cozzini” interagiscono con lo standard della condanna “al di là di ogni ragionevole dubbio”?

Distinguendo accuratamente tra criteri della decisione sul fatto incerto e criteri di valutazione della prova, ci si domanda più in particolare se il controllo di affidabilità epistemologica operato dal giudice in sede di valutazione possa consentire l’emersione di ragionevoli dubbi sulla tesi accusatoria in sede di decisione. Ora, poiché – secondo Carlizzi – le prove scientifiche, diversamente dalle prove comuni, possono essere valutate solo in merito alla loro affidabilità epistemologica, e non anche in merito alla loro concordanza con altre prove, scientifiche o meno (c.d. “attendibilità estrinseca”), in concreto è possibile (anzi, plausibile), che più prove prodotte da parti avverse e comparativamente «equiaffidabili»[47] entrino in conflitto tra loro: questa sarebbe l’ipotesi più tipica di dubbio ragionevole sul portato della prova scientifica che dovrebbe condurre all’assoluzione dell’imputato (art. 533, comma 1, c.p.p.);

I “criteri Cozzini” sono fruibili in sede di legittimità?

Com’è noto, il giudice di merito è tenuto a controllare direttamente l’affidabilità epistemologica delle tesi esperte prodotte in giudizio, mentre il giudice di legittimità – vincolato dalla sua posizione «superiore […] quanto meno dal punto di vista logico»[48] – può controllare solo la razionalità del controllo (ossia del ragionamento probatorio) operato dal giudice di merito. La Cassazione, anche a Sezioni Unite, resta pertanto sempre un giudice del ragionamento, e non anche della tesi esperta prodotta in giudizio. Questo terzo interrogativo interagisce tuttavia con il secondo, perché Carlizzi si domanda allora se l’ingresso del canone dell’“oltre ogni ragionevole dubbio” nel nostro ordinamento possa aver alterato il limite dell’“illogicità manifesta” nel sindacato di legittimità sulla motivazione (art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p.). Nell’ottica della valutazione di affidabilità epistemologica operata sulle prove scientifiche, si tratta di una domanda esiziale: in astratto, infatti, potrebbe darsi che la Cassazione riconosca la “non manifesta illogicità” di una motivazione che abbia dato credito ad una tesi accusatoria specialistica solo equiaffidabile rispetto alle tesi specialistiche difensive. Da questo punto di vista, il concetto di “ragionevole dubbio” potrebbe non rivelarsi coestensivo a quello di “manifesta illogicità”. Giacché, per Carlizzi, il criterio del “dubbio ragionevole” non è altro che una proiezione processuale dell’idea di giustizia presupposta dal requisito costituzionale del “giusto processo” (art. 111, comma 1, Cost.)[49], l’eventualità andrebbe pertanto in ogni modo scongiurata. Di fronte ad un ricorso per Cassazione in cui l’imputato lamenti che le tesi specialistiche proposte dall’accusa siano state ritenute solo equiaffidabili rispetto a quelle proposte dalla difesa, la Cassazione – secondo Carlizzi – dovrebbe quindi sollevare una questione di legittimità costituzionale vólta ad elidere, dall’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., l’aggettivo «manifesta» che qualifica l’«illogicità» censurabile in sede di legittimità[50];

I “criteri Cozzini” sono fruibili in sede di revisione?

Affrontando i problematici rapporti tra progresso scientifico e nozione di “nuova prova” menzionata dall’art. 630, comma 1, lett. c), c.p.p., Carlizzi chiarisce che una prova scientifica, essendo sostanzialmente un’informazione che veicola nozioni estranee al sapere comune, è ammissibile in sede di revisione se: consente di trarre dati da fonti in precedenza sconosciute (c.d. prova noviter reperta, come una nuova traccia ematica scoperta dopo il passaggio in giudicato); consente di trarre dati contenuti in fonti note, ma non acquisite (c.d. prova noviter producta, come una traccia ematica contenuta in un reperto rimasto estraneo all’istruttoria); consente di trarre dati contenuti in fonti note, e magari anche acquisite, ma valorizzabili secondo princìpi scientifici o tecnici sopravvenuti solo in seguito (come un metodo di analisi che consenta di elaborare un profilo genetico a partire da una traccia ematica molto risalente); consente di trarre dati contenuti in fonti note, acquisite, e valorizzabili secondo certi princìpi scientifici o tecnici, ma non concretamente valorizzate (c.d. prova noviter cognita, come una traccia ematica della quale l’istruttoria si è interessata, ma senza disporre un’apposita perizia). Secondo Carlizzi, però, costituisce un’ipotesi di “prova nuova” ammissibile in sede di revisione anche la fonte acquisita e valorizzata secondo princìpi che il condannato afferma essere ormai scientificamente superati[51]. È naturalmente l’ipotesi più delicata, e destinata a creare le maggiori frizioni con l’art. 637, comma 3, c.p.p. Carlizzi la ritiene trattabile in sede di revisione perché, in generale, la valutazione probatoria scientifica riguarda le tesi proposte dagli esperti per rendere comprensibile al giudice porzioni di realtà altrimenti inaccessibili: se il consenso scientifico su queste tesi muta in modo rivoluzionario[52], un giudicato fondato su informazioni spurie non potrebbe continuare a produrre alcuna certezza processuale. I “criteri Cozzini” hanno però a che vedere più che altro col vaglio di tali ipotesi, sostiene Carlizzi: ad un livello minimo in sede di vaglio preliminare di ammissibilità e al livello massimo in sede di valutazione definitiva, è in base a detti criteri che il giudice potrà ritenere una prova nuova tanto epistemologicamente affidabile da condurre ad affermare l’innocenza dell’imputato[53].

 


[1] G. Carlizzi, La valutazione della prova scientifica, Milano, 2019: d’ora in avanti, per brevità, VPS.

[2] I contenuti del II e III capitolo costituiscono rielaborazioni di contributi già editi, come d’altronde dichiara lui stesso nella Prefazione, a p. VIII: si fa riferimento a G. Carlizzi, Iudex peritus peritorum. Un contributo alla teoria della prova specialistica, in Dir. pen. cont.Riv. trim., 2/2017, p. 24-47, Id., Giudice 2.0 e uso del sapere specialistico nel processo penale, in Proc. Pen. Giust., 2017, p. 732-754, e R. Blaiotta – G. Carlizzi, Libero convincimento, ragionevole dubbio e prova scientifica, in G. Canzio – L. Lupària (a cura di), Prova scientifica e processo penale, Milano, 2017, p. 367-488.

[3] G. Carlizzi, Ragionamento giudiziario e complessità diacronica del circolo ermeneutico, in Cass. Pen., 2006, p. 1196.

[4] Traggo gli spunti, col consueto beneficio d’inventario, dall’Introduzione di Mario Jori al volume, a sua cura, Ermeneutica e filosofia analitica. Due concezioni del diritto a confronto, Torino, 1994, spec. p. 12 ss.

[5] V. Omaggio – G. Carlizzi, Ermeneutica e interpretazione giuridica, Torino, 2010, p. 92 ss.; G. Carlizzi, Il problematico rapporto tra prova e sussunzione. Un approccio ermeneutico-giuridico, in Arch. Pen., 2016, 1, spec. p. 5-6.

[6] Ivi, p. 132 ss.; G. Carlizzi, Il problematico rapporto, cit., p. 15-20.

[7] Tale scomposizione, per Carlizzi, non rende tuttavia irrazionale e immeritevole di trattazione il contesto di scoperta, come invece avviene in certe tradizioni di ricerca analitiche, cfr. G. Carlizzi, Ragionamento, cit., p. 1189.

[8] G. Carlizzi, Ragionamento, loc. ult. cit.; V. Omaggio – G. Carlizzi, Ermeneutica, cit., p. 168; G. Carlizzi, Iudex, cit., p. 41-42; VPS, p. 72.

[9] VPS, p. 107, nt. 53. Ma sulla riproducibilità tout court del falsificazionismo anche nell’esperienza processuale, v. le condivisibili critiche mosse a Ferrajoli in G. Carlizzi, Critica della responsabilità seriale. Un contributo alla logica e alla metodologia del ragionamento probatorio, in D.M. Cananzi – R. Righi (a cura di), Studi in onore di Gaetano Carcaterra, Quad. Riv. Int. Fil. Dir., 2012, p. 319 nt. 54.

[10] G. Carlizzi, Ragionamento, cit., p. 1190.

[11] È la logica del “circolo ermeneutico”, v. V. Omaggio – G. Carlizzi, Ermeneutica, cit., p. 92-96; G. Tuzet, Filosofia della prova giuridica, Torino, 20162, p. 13-15.

[12] T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche [1962, 1970], Torino, 2009, cap. V. Questa inclinazione post-positivista in epistemologia generale traspare a mio avviso in almeno due loci della trattazione di Carlizzi: a) quando egli valorizza i criteri soggettivi che la sentenza Cozzini annovera tra quelli che guidano valutazione di attendibilità del perito (in particolare, l’intensità della discussione critica che ha accompagnato l’elaborazione dello studio, e il consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica, cfr. VPS, 110-113), il riferimento corre all’idea kuhniana di paradigma come frutto maturo del consenso di una determinata comunità scientifica (T.S. Kuhn, Oggettività, giudizio di valore e scelta della teoria, in Id., La tensione essenziale [1977], Torino, 1985, 351 ss.); b) e quando si occupa, più in generale, della “logica operativa” del concetto di “affidabilità epistemologica”, che è affetto da un doppio ordine di vaghezza – perché i criteri che concorrono a tipizzarlo non sono fissi, ma costantemente modificabili, e perché anche qualora si riesca ad individuarne un numero provvisoriamente chiuso, il soddisfacimento di ciascun criterio è sempre relativo e mai assoluto (cfr., VPS, p. 123-126) – il riferimento corre ancora una volta all’idea di Kuhn, secondo il quale la scelta tra teorie scientifiche in competizione si svolge sulla base di criteri (accuratezza, coerenza, prospettiva, semplicità, fertilità, ecc.) che non solo sono diversi da scienziato a scienziato, ma che ciascuno scienziato ritiene soddisfatti in misura di volta in volta differente (ancora T.S. Kuhn, Oggettività, cit., p. 356-357).

[13] Ivi, p. 6.

[14] Uso il lessico del secondo Wittgenstein per significare quella che Carlizzi chiamerebbe “similitudine ontologica”, v. V. Omaggio – G. Carlizzi, Ermeneutica, cit., p. 122 ss.; G. Carlizzi, Il problematico rapporto, cit., spec. p. 15-22.

[15] K. Engisch, Interpretazione, prova e sussunzione nella struttura logica del giudizio giuridico [1943], in G. Carlizzi – V. Omaggio (a cura di), L’Ermeneutica Giuridica Tedesca Contemporanea, Pisa, 2016, p. 41-44.

[16] H.L.A. Hart, Il concetto del diritto [1961], Torino, 2002, p. 159-160, pur generalmente avversata da Carlizzi, v. V. Omaggio – G. Carlizzi, Ermeneutica, cit., p. 97.

[17] VPS, p. 23, nt. 53; Id., Il problematico rapporto, cit., spec. p. 11-15; V. Omaggio – G. Carlizzi, Ermeneutica, cit., p. 204-205.

[18] VPS, p. 31.

[19] G. Tuzet, Filosofia, cit., p. 13-15.

[20] Sulla metafora come «forma tipica della costruzione e dello sviluppo concettuale» anche del giurista, cfr. C. Sarra, Lo Scudo di Dioniso. Contributo allo studio della metafora giuridica, Milano, 2010, p. 70, ma spec. p. 44-49.

[21] Specifico qui che intendo “costruire” nel senso fatto palese da Vittorio Villa, secondo il quale qualsiasi attività conoscitiva che si dichiari descrittiva «ha di per sé una dimensione normativa, perché applica e usa regole metodologiche, si preoccupa di scegliere e accettare teorie, valutandone e giustificandone le loro pretese di carattere esplicativo» (V. Villa, Costruttivismo e teorie del diritto, Torino, 1999, p. 43). Su questo approccio metodologico, al crocevia tra la tradizione analitica e quella ermeneutica, v. più in generale M. Jori, op. cit., p. 21-24; F. Viola, La critica dell’ermeneutica alla filosofia analitica italiana del diritto, in M. Jori (a cura di), Ermeneutica e filosofia analitica, cit., spec. p. 98-102; G. Zaccaria, Tra ermeneutica ed analitica: dal contrasto alla collaborazione, ivi, spec. p. 129-133.

[22] VPS, p. 12-19, 24-33, 125-26, 139.

[23] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche [1953], Torino, 2009, I, § 84 ss.

[24] Dà conto di questo atteggiamento metodologico in filosofia ermeneutica del diritto anche G. Tuzet, Filosofia, cit., p. 22-23.

[25] P. Ferrua, La prova nel processo penale. Vol. I – Struttura e procedimento, Torino, 20172, p. 59-61.

[26] G. Ubertis, Profili di epistemologia giudiziaria, Milano, 2015, cit., p. 111.

[27] VPS, pp. 2-7.

[28] VPS, p. 126.

[29] VPS, p. 12. Da queste, Carlizzi distingue le c.d. «tesi applicative» (ibidem), mediante le quali l’esperto ritiene che un complesso di dati materiali realizzi le condizioni di un principio scientifico regolante la sussistenza di un aspetto di un caso in giudizio. Per quanto la struttura logica del giudizio sia la stessa, muta in modo consistente il tipo di controllo in sede di valutazione di attendibilità e persuasività a cui il giudice è tenuto, v. infra nel testo e a nt. 32. Non appesantirò l’esempio con le specificazioni necessarie al caso, per le quali rimando all’analisi del volume.

[30] Cass., sez. IV, 17 settembre 2010, n. 43786, rv. 248943. Un’analisi puntuale è reperibile in VPS, p. 101-113.

[31] Ivi, p. 20.

[32] Di questa seconda attività tipica dell’esperto, che individua, in un caso specifico, l’occorrenza di un principio più generale, Carlizzi – in consonanza con parte della dottrina processualpenalistica almeno italiana (cfr. VPS, p. 18, nt. 46) – denuncia spesso la “cattiva sorte” teorica (cfr. ad es. ibidem nel testo, e p. 22): si tratterebbe insomma di un aspetto per lo più negletto dalla riflessione tradizionale sulla prova scientifica. In realtà è possibile notare che, in una versione certo più concettualmente “rarefatta” e non certo altrettanto approfondita, già Cordero – sulla scia di Carnelutti – ripartiva le tipiche attività del perito in un modo sostanzialmente consonante a quello di Carlizzi: «talvolta il perito percepisce un fatto, con l’aiuto di tecniche inaccessibili al profano, per poi descriverlo al giudice, e qui la differenza rispetto al testimone è soltanto formale […]. Ma può anche darsi che, osservato un fatto, inferisca le conseguenze o gli antecedenti, secondo le regole fornite dalle scienze sperimentali. Ed è possibile, infine, che risolva una semplice hypotetical question (come si chiama nella nomenclatura giuridica inglese un quesito proposto in astratto, fuori da uno specifico riferimento al fatto da provare)» (cfr. F. Cordero, Procedura penale, Milano, 1987, p. 497, corsivi miei; F. Carnelutti, La prova civile [1915], rist. anastatica ed. 1947, Pisa, 2016, spec. p. 84-106).

[33] VPS, p. 23.

[34] Nei casi in cui il perito sia stato ingaggiato per compiere forme più o meno complesse di calcolo, quindi, l’individuazione dei criteri di valutazione e la loro applicazione si presentano – se non interpreto male il pensiero di Carlizzi – come attività intellettualmente coincidenti.

[35] Cfr. G. Ubertis, Profili, cit., p. 79-84.

[36] Questo passaggio, cruciale per il processualista, segna una lieve ma importante precisazione teorica nel pensiero di Carlizzi. In Ermeneutica e interpretazione giuridica, cit., p. 204, infatti, egli riteneva che la valutazione di attendibilità del teste comune dipendesse da un criterio in grado di collegare «con una certa frequenza, l’occorrenza delle qualità e dei contegni con cui la fonte si è presentata al giudice e il carattere veritiero di quest’ultima [fonte, n.d.R.]», e non dell’informazione da essa veicolata.

[37] G. Ubertis, Profili, cit., p. 55.

[38] VPS, p. 38.

[39] VPS, p. 44. L’ovvio riferimento corre a Cass., Sez. Un., 16 ottobre 2002, Franzese, n. 30328, in C.E.D. Cass., n. 222138.

[40] VPS, p. 46-47.

[41] VPS, p. 33.

[42] VPS, p. 44.

[43] Ivi, p. 66-67.

[44] Ivi, p. 124.

[45] V. Omaggio – G. Carlizzi, Ermeneutica, cit., p. 111.

[46] Il processualista più attento riconoscerà in questa tesi un’eco corderiana del concetto di “probabile” come “ciò che è suscettibile di essere provato in giudizio”: «Ogni tanto vengono fuori ipotesi non verificabili […]. Ad esempio, un pubblico ministero occultista afferma che N abbia devastato le messi a P, scatenandogli sui campi fulmini e grandine, servizievolmente mandati da Satana, col quale aveva dei patti, e indica i relativi testimoni: mossa oziosa; l’assunto non costituisce tema proponibile. L’orizzonte istruttorio ha come limite l’epistemologia dominante. Niente osterà a […] indagini peritali su simili “maleficia”, quando gli addetti al discorso scientifico riscoprano la categoria cosmologica del diabolico, elaborata dalla Scolastica, riaccreditando testi famosi come i Disquisitionum magicarum Libri sex del gesuita Martino del Rio» (F. Cordero, Procedura penale, Milano, 2012, p. 572, corsivi miei).

[47] VPS, p. 136. Accanto a questa, Carlizzi elenca poi anche altre ipotesi meno problematiche in cui il conflitto fra tesi esperte conduce al proscioglimento (e cioè l’ipotesi in cui nessuna parte produca prove scientifiche affidabili quando invece ce ne sarebbe bisogno, e il caso in cui ne produca solo la difesa) o alla condanna (e cioè l’ipotesi in cui solo l’accusa produca una prova scientifica affidabile, o la prova scientifica più affidabile in rapporto a quelle prodotte dalla difesa).

[48] Ivi, p. 138.

[49] G. Carlizzi, Libero convincimento e ragionevole dubbio nel processo penale, Bologna, 2018, spec. p. 92-96.

[50] VPS, p. 142.

[51] VPS, p. 148.

[52] Cfr. T.S. Kuhn, La struttura, cit., p. 90 ss., 139 ss.

[53] VPS, p. 150.