ISSN 2039-1676


16 giugno 2011 |

Monitoraggio aprile 2011

Rassegna di sentenze e decisioni della Corte EDU rilevanti in materia penale

 
Anche per il mese di aprile il monitoraggio delle sentenze e delle decisioni delle Corte europea dei diritti dell’Uomo che interferiscono con il diritto penale sostanziale è accompagnato da una breve introduzione, nella quale vengono segnalate al lettore le pronunce di maggiore interesse, con particolare attenzione alle loro ripercussioni sull’ordinamento italiano.
Ricordiamo che tutti i provvedimenti citati sono reperibili sul database ufficiale HUDOC della Corte di Strasburgo, attraverso il numero di ricorso (segnalato in grassetto).
 
 
SOMMARIO
 
 
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1. Introduzione
 
a) Tra i casi decisi nel mese di aprile in tema di art. 2 Cedu, riveste particolare importanza la  sentenza Peker c. Turchia (n. 2) relativa ad un’operazione di sicurezza in un carcere turco. I giudici di Strasburgo hanno analizzato la vicenda sotto l’angolo visuale dell’art. 2 Cedu ancorché il ricorrente – uno dei detenuti del carcere – fosse stato soltanto ferito ad un piede da uno dei colpi esplosi dalle guardie penitenziarie e non avesse pertanto effettivamente corso un pericolo grave per la vita né un tale pericolo era stato corso dagli altri detenuti [come accertato dalla Corte in altre precedenti pronunce aventi proprio ad oggetto operazioni di sicurezza nelle carceri turche: cfr. Da ultimo Ismail Altun c. Turchia (sent. 21 settembre 2010, ric. n. 22932/02)]. Ciá½¹ premesso, la Corte ha riconosciuto una violazione dell’art. 2 Cedu sotto il profilo procedurale, con riferimento all’inadeguatezza dell’inchiesta, mentre ha ritenuto assorbita l’ulteriore doglianza sub art. 3 Cedu. Al riguardo si segnala l’opinione parzialmente dissenziente dei giudici Joćienete, Sajò e Raimondi, i quali, per i motivi sopraesposti, non hanno condiviso la decisione della maggioranza in merito alla violazione dell’art. 2 Cedu sotto il profilo procedurale e hanno ritenuto invece sussistente una violazione diretta dell’art. 3 Cedu.
 
Presenta particolari profili di interesse poi la sentenza Enukidze e Girviliani c. Georgia, nella quale la Corte – adita dai genitori di un giovane rapito ed ucciso da alcuni poliziotti dopo aver insultato alcuni uomini di fiducia del Ministro degli interni – ha escluso una violazione diretta dell’art. 2 Cedu in quanto i ricorrenti non avevano dimostrato che gli assassini avessero agito per ordine del Ministro, mentre ha riconosciuto una violazione procedurale della norma suddetta (in relazione all’inchiesta aperta sull’accaduto).
 
E ancora, si segnala la sentenza Pastor e Å¢iclete c. Romania, nella quale la Corte – dopo aver affermato in via preliminare che, secondo il diritto di Strasburgo, le disposizioni della Convenzione non sono vincolanti per gli Stati contraenti in relazione ad atti o fatti che abbiano avuto luogo prima della ratifica della Convenzione – ha riconosciuto tuttavia una violazione procedurale dell’art. 2 Cedu, ritenendo di avere giurisdizione ratione temporis con riferimento all’effettivitá dei procedimenti instaurati per far luce sul ferimento e sulla morte dei familiari dei ricorrenti durante una manifestazione avvenuta in epoca precedente alla ratifica della Convenzione da parte della Romania (la ratifica infatti è avvenuta nel 1994 mentre la morte e il ferimento si erano verificati nel 1989).
 
Merita infine un cenno la sentenza Matayeva e Dadayeva c. Russia relativa ad un tipico caso di sparizione di un cittadino ceceno, il quale, dopo essere stato convocato dalla polizia per un interrgatorio, non aveva fatto più ritorno alla propria abitazione. Conformemente alla propria giurisprudenza consolidata, la Corte ha qui riconosciuto anche in quest’occasione una violazione dell’art. 2 Cedu, sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello procedurale, e inoltre anche degli artt. 3 (in relazione alla sofferenza patita dai familiari) e 5 (con riferimento al mancato riconoscimento della detenzione) Cedu.
 
 
b) Tra le sentenze in tema di art. 3 Cedu del mese di aprile, due vedono come Stato convenuto l’Italia. Nella pronucia Sarigiannis c. Italia, la Corte ha riscontrato una violazione diretta della norma in parola in relazione al ricorso all’uso eccessivo della forza fisica da parte di alcuni agenti di polizia all’aroporto di Fiumicino per eseguire l’identificazione di due cittadini francesi, affermando che nel caso di specie il ricorso all’uso della forza, seppur necessario per vincere la resistenza opposta dai ricorrenti (attestata anche dalle lesioni subite dagli agenti di polizia), non poteva ritenersi proprozionato per una duplice ragione: innanzitutto, le autorità italiane non avevamo fornito alcuna spiegazione delle lesioni subite dai ricorrenti alla testa e al volto e in secondo luogo, i ricorrenti erano stati isolati ciascuno in una stanza separata, mentre i loro familiari erano rimasti all’esterno per ore senza alcuna notizia (sul caso cfr., comunque più ampiamente la scheda pubblicata in questa Rivista).
 
Nella sentenza Toumi c. Italia, invece, i giudici di Strasburgo hanno condannato, per l’ennesima volta, il nostro Paese per una violazione dell’art. 3 Cedu in relazione all’espulsione di un cittadino tunisino – condannato con sentenza definitiva a sei anni di reclusione per associazione con finalità di terrorismo internazionale ex art. 270 bis c.p. – il quale adduceva che, nel Paese di provenienza, sarebbe stato sottoposto a trattamenti contrari a detta norma. Per un’analisi dettagliata dei passaggi motivazionali della pronuncia – che riguarda una vicenda del tutto sovrapponibile ai precedenti Ben Khemais c. Italia del 24.2.2009 e Trabelsi c. Italia del 13.4.2010 – vedi il commento di Angela Colella, in questa Rivista.
 
Di estrema attualità appare poi la pronuncia Rahimi c. Grecia, relativa al trattenimento di un minore afghano nel corso del procedimento di espulsione. Dando seguito a quanto affermato nella recente prouncia della grande camera M.S.S. c. Belgio e Grecia (per un’analisi di tale pronuncia, cfr. la nota di Lodovica Beduschi pubblicata in questa Rivista), i giudici di Strasburgo hanno qui non solo ritenuto integrata una violazione diretta dell’art. 3 Cedu sub specie di trattamenti degradanti in relazione alle condizioni in cui veniva trattenuto il ricorrente, ma hanno altresí concluso per una violazione degli obblghi positivi discendenti dalla norma suddetta in relazione alla mancata adozione da parte delle autorità greche di misure idonne ad assistere il ricorrente dopo il suo rilascio.
 
Merita inoltre menzione la sentenza Nechiporuc e Yonkalo c. Ucraina relativa ad un caso di sevizie perpetrate durante l’interrogatorio: la Corte ha riconosciuto una violazione diretta dell’art. 3 Cedu sub specie di tortura perchè il ricorrente era stato sottoposto a scosse elettriche ed era stato impiccato alla palesinese perchè confessasse un omicidio. I giudici europei hanno poi attribuito rilevanza alla circostanza che la sofferenza psichica del ricorrente era stata aggravata dalla preoccupazione che anche la moglie, all’epoca incinta all’ottavo mese, potesse essere interrogata e sottoposta a scosse elettriche (sul punto richiamando la pronuncia Accok c. Turchia del 1993). Giova peraltro sottolineare come la Corte abbia rigettato il ricorso della moglie del ricorrente affermando che lo stress e l’ansia lamentate da quest’ultima non avevano  raggiunto la soglia minima di gravità necessaria.
 
Si segnalano da ultimo le sentenze Akbar c. Romania, Vasyukov c. Russia, Flaminzeau c. Romania,nelle quali la Corte ha riscontrato una violazione dell’art. 3 Cedu sotto il profilo delle condizioni della detenzione; e la sentenza Nikolay Federov c. Russia, nella quale essa ha riconosciuto una duplice violazione della norma in parola, sia sotto il profilo sostanziale che procedurale, in relazione all’uso eccessivo della forza al momento dell’arresto.
 
 
c) Sul fronte dell’art. 5 Cedu, merita menzione in primo luogo la già citata sentenza Sarigiannis c. Italia, in cui la Corte ha ritenuto giustificata ai sensi dell’art. 5 § 1 lett. b Cedu il tratteimento dei ricorrenti, per due ore e mezza, in un ufficio della Guardia di Finanza presso l’aeroporto di Fiumicino, a seguito del loro rifiuto a sottoporsi ad un controllo di identità. Al riguardo essa ha sottolineato, innanzitutto, che la legge italiana attribuisce espressamente agli ufficiali e agli agenti di polizia la facoltà di trattenere nei prorpi uffici chiunque si rifiuti di essere identificato, per il tempo necessario all’identificazione o comunque non oltre le ventiquattro ore (art. 11 d.lgs. n. 59 del 1978) e, in secondo luogo, che nel caso concreto la privazione della libertà personale dei ricorrenti era stata necessaria e proporzionata rispetto all’esigenza di eseguirne l’identificazione, in considerazione della breve durata del loro trattenimento. 
 
Presenta profili di interesse, poi, la già menzionata sentenza Rahimi c. Grecia, nella quale la Corte ha riscontrato, oltre ad una duplice violazione dell’art. 3 Cedu, come poc’anzi accennato, anche una violazione dell’art. 5 § 1 lett. f Cedu, ritenendo sproprorzionata la detenzione del ricorrente in relazione alla minore età del medesimo perché le autoritá nazionali avevano disposto il trattenimento del medesimo senza prendere in considerazione alcuna misura meno afflittiva.
 
Si segnala infine la sentenza Nelissen c. Paesi Bassi relativa ad una viceda piuttosto singolare: il ricorrente, infatti, era stato condannato, alla pena di sette mesi di reclusione e all’internamento in un ospedale psichiatrico da eseguirsi al termine della pena, per furto aggravato, per aver sottratto ad una donna, dopo averla colpita al volto, il manifesto del necrologio della sorella, appena deceduta. La Corte, conformemente alla propria giurisprudenza consolidata (cfr. da ultimo, sent. 11 maggio 2004, Brand c. Paesi Bassi), ha riscontrato una violazione dell’art. 5 § 1 Cedu in relazione al ritardo di più di sei mesi con cui le autorità nazionali avevano eseguito l’ordine di trasferimento del ricorrente in un ospedale psichiatrico, al termine dell’esecuzione della pena detentiva.
 
 
d) In tema di art. 7 Cedu si segnala la sentenza Jendrowiak c. Germania, nella quale la Corte, dando seguito a quanto affermato nella pronuncia M. c. Germania del dicembre 2009, ha ravvisato una violazione degli artt. 5 § 1 lett. a e 7 Cedu, in relazione al mantenimento in custodia di sicurezza del ricorrente oltre il termine di dieci anni, previsto dalla legge in vigore all’epoca della condanna, conseguentemente all’abolizione, con effetto retroattivo, del limite massimo di durata della suddetta misura. La sentenza si segnala nella parte in cui i giudici europei hanno precisato che gli obblighi positivi di tutela che discendono dall’art. 3 Cedu, come interpretato dalla giurisprudenza di Strasburgo, nei confronti degli Stati membri non possono mai giustificare una violazione delle garanzie sancite dall’art. 5 Cedu e, a maggior ragione, dall’art. 7 Cedu, che non prevede deroghe nemmeno in caso di guerra o altre emergenze ai sensi dell’art. 15 Cedu.Per un'analisi più dettagliata della sentenza, cfr. comunque la scheda di Giorgio Abbadessa pubblicata in questa Rivista.
 
 
e) Sul fronte dell’art. 8 Cedu, giova ricordare la sentenza  M. c. Svizzera, nella quale la Corte ha ritenuto che il diniego da parte delle autorità svizzere di rinnovare il passaporto al ricorrente, al fine di costringerlo a tornare in Svizzera, dove è attualmente sottoposto ad un procedimento penale, non integrasse una violazione della norma suddetta perché l’interferenza nella vita privata e familiare del ricorrente, prevista dalla legge nazionale, doveva ritenersi proprorzionata rispetto allo scopo legittimo perseguito (sotto quest’ultimo profilo, i giudici europei hanni rilevato come tale misura fosse meno afflittiva di un mandato di arresto internazionale, che avrebbe potuto comportare anche una privazione della libertá personale del ricorrente in attesa dell’esecuzione del provvedimento).
 
 
f) Tra le pronunce in tema di art. 10 Cedu, rivesono innanzitutto particolare importanza le sentenze Bozhkov c. Bulgaria e Kasabova c. Bulgaria in cui la Corte ha riscontrato una violazione diretta dell’art. 10 Cedu perchè i ricorrenti, condannati per il delitto di difammazione per aver pubblicato alcuni articoli in cui avevano denunciato alcune irregolarità nella procedura di selezione degli studenti di una scuola pubblica, erano stati altresí condannati al pagamento a titolo di risarcimento del danno di ingenti somme di denaro (ovvero l’equivalente di 3.221 euro, che nel 2000 corrispondevano ad una somma di 57 volte superiore al loro salario mensile).
 
Merita infine menzione anche la pronuncia Fatih Tas c. Turchia, nella quale la Corte ha riconosciuto una violazione della suddetta norma convenzionale in relazione alla condanna penale subita dal ricorrente per aver pubblicato un libro, scritto da uno dei membri del PKK, nel quale venivano menzionati i nomi di alcuni ufficiali dell’esercito turco coinvolti nella lotta al terrorismo affermando che esisteva un interesse pubblico in relazione ai temi trattati e che i nomi di tali persone erano già stati pubblicati su alcuni dei quotidiani nazionali. (Introduzione a cura di Lodovica Beduschi)
 
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2. Articolo 2 Cedu
 
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 12 aprile 2011, ric. n. 42136/04,  Peker c. Turchia (n. 2) (importance level 2)
La vicenda riguarda un’operazione di sicurezza condotta il 19 dicembre 2000 in un carcere turco durante il quale molti detenuti sono stati uccisi o feriti. Il ricorrente – che all’epoca dei fatti era detenuto nel carcere di Gezbe – lamenta la violazione degli artt. 2, 3, 6 e 13 Cedu sostenendo di essere stato ferito ad un piede da un colpo di arma da fuoco sparato da una delle guardie penitenziarie e che le indagini svolte sull’accaduto non erano state idonee ad individuare i responsabili.  
La Corte ha riscontrato – per quattro voti contro tre – una violazione dell’art. 2 Cedu sotto il profilo procedurale rilevando innanzitutto che l’inchiesta interna non era stata avviata tempestivamente e si era conclusa dopo cinque anni; in secondo luogo che essa era stata condotta dai superiori gerarchici delle guardie penitenziarie coinvolte nell’accaduto e che, infine, l’inchiesta non era stata adeguata nemmeno sotto il profilo dell’assunzione delle prove perché non non erano stati sentiti alcuni dei testimoni dell’accaduto. Essa ha pertanto ritenuto assorbite le ulteriori doglianze relative alla violazione dell’art. 3 Cedu (per quattro voti con tre) e degli artt. 6 e 13 Cedu (all’unanimità).
Si segnala la dissenting opinion dei giudici Joćienete, Sajò e Raimondi i quali non hanno condiviso la decisione adottata dalla maggioranza in merito alla esclusione della violazione dell’art. 3 Cedu: essi, infatti, facendo applicazione del criterio dell’inversione dell’onere della prova, hanno ritenuto sussistente una violazione diretta della norma in parola perché il Governo non aveva fornito giustificazioni adeguate in merito alle ferite inferte al ricorrente. Peraltro, essi hanno escluso una violazione dell’art. 2 Cedu poiché nel caso in esame il ricorrente era stato ferito ad un piede e, pertanto, non c’era stata alcuna minaccia per la sua incolumità fisica e tantomeno il ricorrente aveva dimostrato che le guardie penitenziarie avevano fatto uso di armi in maniera tale da porre in pericolo l’incolumità degli altri detenuti.
 
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 19 aprile 2011, ric. n. 49076/06, Matayeva e Dadayeva c. Russia (importance level 3)
La vicenda riguarda un tipico caso di sparizione di un cittadino ceceno. I ricorrenti sono la moglie e della madre di Khamzat Tushayev, scomparso dall'8 giugno 2006 dopo essersi recato alla procura di Grozny, dove era stato convocato per un interrogatorio. Sua moglie, che lo aveva accompagnato, lo aveva atteso tutto il giorno fuori dall'edificio fino a quando non le era stato ordinato di andarsene. Conformemente alla propria costante giurisprudenza in materia, la Corte europea ha ritenuto integrata una violazione degli artt. 2, sia sotto il profilo sostanziale (poiché una detenzione protrattasi per anni, in assenza di conferme o smentite da parte delle autorità e in un contesto di conflitto armato, equivale a una minaccia alla vita rilevante ai sensi della norma in parola) che procedurale (per la mancanza di indagini adeguate);  5 (in relazione al mancato riconoscimento da parte delle autorità nazionali dell’avvenuta detenzione del ricorrente) e 3 Cedu (in riferimento alla sofferenza patita dai familiari di quest’ultimo).
 
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 19 aprile 2011, ricc. nn. 30911/06 e 40967/06, Pastor e Ţiclete c. Romania (importance level 3)
Il caso riguarda la violente repressione da parte dell’esercito rumeno di una manifestazione contro il partito comunista tenutasi a Cluj-Napoca nel 1989, durante la quale alcuni ufficiali dell’esercito rumeno avevano ferito gravemente il primo ricorrente e ucciso il marito della seconda ricorrente. Il procedimento, iniziato nel 1990, si era concluso nel 2006, a 16 anni di distanza, con la condanna dei responsabili.
La Corte – riconosciuta in via preliminare la propria competenza a giudicare l’inosservanza da parte della Romania dell’obbligo di condurre indagini effettive a partire dal 1994, anno in cui tale Paese aveva aderito alla Convenzione EDU – ha concluso per una violazione dell’art. 2 Cedu sotto il profilo procedurale perché l’inchiesta interna era stata inizialmente affidata alla Procura presso il Tribunale militare e quindi allo stesso corpo di appartenenza dei soldati coinvolti nell’accaduto, con evidente pregiudizio per un svolgimento rapido e imparziale delle indagini.  
 
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 26 aprile 2011, ric. n. 25091/07, Enukidze e Girgvliani c. Georgia (importance level 2)
I ricorrenti lamentano la morte del figlio ventottenne, avvenuta in circostanze poco chiare: essi sostengono che il giovane sia stato rapito, picchiato e ucciso nel gennaio 2006 da funzionari del ministero degli interni perché aveva insultato, presso un dei Cafè di Tblisi, alcuni uomini di fiducia del Ministro degli interni. Il suo corpo era stato trovato in un bosco con dodici ferite di arma da taglio.La Corte ha riconosciuto, per 6 voti contro 1, una violazione dell’art. 2 Cedu sotto il profilo procedurale, poiché le indagini non erano state indipendenti e imparziali (in quanto erano state affidate al Ministero dell’interno), né diligenti ed efficaci (le autorità inquirenti avevano omesso di indagare in merito ai rapporti intercorrenti tra i responsabili dell’uccisione e il Ministro dell’interno) e infine la pena irrogata (otto anni di reclusione, poi dimezzati per effetto del perdono giudiziale) non era stata proporzionata al fatto di reato commesso. Essa ha peraltro escluso, per 4 voti contro 3, la violazione dell’art. 2 Cedu sotto il profilo sostanziale: secondo i giudici europei, infatti, nonostante i responsabili dell’uccisione fossero dei funzionari del Ministro, i ricorrenti non avevano dimostrato che essi avevano agito su ordine di quest’ultimo. Al riguardo giova peraltro segnalare l’opinione parzialmente dissenziente dei giudici Cabral Barreto, JočienÄ• e Popović i quali hanno ritenuto integrata una violazione degli obblighi positivi discendenti dall’art. 2 Cedu nei confronti delle persone in vinculis. I giudici di Strasburgo hanno poi riconosciuto, per 6 voti contro 1, anche la violazione dell'articolo 38 della Convenzione, poichè il Governo georgiano non aveva presentato alla Corte europea tutte le prove necessarie per l'esame del caso e, in particolare, le registrazioni video di alcune telecamere di sorveglianza effettuate la notte dell'uccisione del figlio nei pressi del cafè.
 
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3.   Articolo 3 Cedu
 
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 5 aprile 2011, ric. n. 10393/04, Nikolay Federov c. Russia (importance level 3)
Il ricorrente era stato fermato dalla polizia perché sospettato di aver rubato un auto ed era stato condotto in caserma: al suo rifiuto di entrare in cella, un poliziotto lo avevano malmenato con un manganello e alcuni altri lo avevano colpito al volto e ai testicoli. Dai referti medici allegati dai medesimi emergeva che questi aveva subito anche un forte colpo alla testa.
Poiché le autorità nazionali non aveva fornito argomenti specifici in merito alla necessità del ricorso alla forza da parte delle forze dell’ordine, la Corte – facendo applicazione del criterio dell’inversione dell’onere della prova – ha ritenuto sussistente una violazione sostanziale dell’art. 3 Cedu sub specie di trattamenti inumani e degradanti. La Corte ha poi riconosciuto anche una violazione procedurale dell’art. 3 Cedu ritenendo inadeguata l’inchiesta interna in particolare sotto il profilo della assunzione delle prove: l’autorità inquirente non aveva sentito come persone informate sui fatti né il personale medico che aveva visitato il ricorrente subito dopo l’accaduto né gli altri detenuti presenti al momento del fatto).
 
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 5 aprile 2011, ric. n. 28686/04, Akbar c. Romania (importance level 3)
Il ricorrente – un cittadino iraniano, che attualmente sta scontando una pena detentiva per una condanna per spaccio di eroina nel carcere di Bucarest-Rahova – si duole della violazione dell'articolo 3 Cedu, affermando che durante il suo arresto era stato colpito con una mazza da baseball da alcuni agenti di polizia. Si duole inoltre delle condizioni della sua detenzione in carcere (e in particolare: del sovraffollamento, della mancanza di  riscaldamento e della esposizione a fumo passivo) nonché del mancato apprestamento di un trattamento medico adeguato per la sua patologia lombare.  
La Corte ha dichiarato irricevibile la doglianza relativa ai maltrattamenti subiti nel corso dell’arresto per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne. Quanto alle condizioni della detenzione, essa ha riconosciuto invece una violazione diretta dell’art. 3 Cedu perché il ricorrente era stato trattenuto per undici anni in una cella con sei posti letti insieme ad altri quattordici detenuti, ritenendo invece assorbita l’ulteriore doglianza relative all’esposizione a fumo passivo. La Corte ha escluso invece una violazione degli obblighi di assistenza medica nei confronti dei detenuti discendenti dall’art. 3 Cedu, rilevando come le autorità nazionali avessero sottoposto il ricorrente a visite periodiche di controllo e a trattamenti medici tempestivi.
 
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 5 aprile 2011, ric. n. 2974/05, Vasyukov c. Russia (importance level 3)
Il ricorrente, condannato nel 1997 per omicidio a dodici anni di reclusione, si duole della violazione dell’art. 3 Cedu affermando di aver contratto la tubercolosi durante la detenzione e di non essere stato successivamente sottoposto a cure mediche tempestive. La Corte – dopo aver in via preliminare osservato che è molto probabile che il ricorrente si sia ammalato in carcere – ha escluso, conformemente alla propria giurisprudenza in materia (sent. 30 luglio 2009, Pilatev c. Russia, ric. n. 34393/03), una responsabilità dello Stato convenuto per la violazione dell’art. 3 Cedu sotto tale profilo. La Corte ha invece riscontrato una violazione degli obblighi positivi derivanti dall’art. 3 Cedu in relazione al mancato apprestamento di cure mediche adeguate alle condizioni di salute del ricorrente nel primo periodo della sua detenzione (dal 2001 al 2004).
 
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 5 aprile 2011, ric. n. 14569/05, Sarigiannis c. Italia (importance level 2)
I ricorrenti, padre e figlio, giunti all’aeroporto di Fiumicino, erano stati fermati da alcuni poliziotti. Poiché entrambi si rifiutavanodi essere identificati, erano stati condotti all’interno dell’ufficio di polizia dell’aeroporto: qui, gli agenti li avevano ammanettati, minacciati e malmenati procurando loro, oltre a numerosi lividi sulle braccia e sulle gambe, anche un trauma cranico e delle ferite sul volto. Successivamente erano stati rinchiusi in due stanze diverse per due ore e mezza, prima di essere rilasciati. Il procedimento penale instaurato nei confronti degli agenti si era concluso con un decreto di archiviazione perché gli elementi di indagine raccolti non erano stati ritenuti sufficienti per vagliare la legittimità del ricorso all’uso della forza da parte della polizia, dal momento che gli stessi agenti di polizia, durante le operazioni di fermo, avevano riportato delle contusioni alle braccia e alle gambe.
La Corte ha escluso una violazione dell’art. 5 § 1 Cedu: la legge italiana, hanno sottolineato i giudici, riconosce espressamente agli ufficiali e agli agenti di polizia la facoltà di accompagnare nei propri uffici chiunque, richiestone, rifiuti di dichiarare le proprie generalità e di ivi trattenerlo per il tempo necessario all’identificazione o comunque non oltre le ventiquattro ore (art. 11 d.lgs. n. 59 del 1978). La privazione della libertà personale dei ricorrenti pertanto, ad avviso della Corte, doveva considerarsi giustificata ai sensi dell’art. 5 § 1 lett. b Cedu (che consente l’arresto o la detenzione legittima per garantire l’esecuzione di un obbligazione prescritta dalla legge), dal momento che la privazione della libertà dei ricorrenti era stata necessaria e proporzionata rispetto all’esigenza di eseguirne l’identificazione, in considerazione della breve durata del loro trattenimento (due ore e mezza). 
La Corte ha concluso invece per una violazione diretta dell’art. 3 Cedu sub specie di trattamenti degradanti, mentre ha considerato assorbita la doglianza relativa alla violazione degli obblighi procedurali discendenti da tale norma. Essa ha ritenuto infatti che il ricorso all’uso della forza fisica poteva ritenersi necessario per vincere la resistenza opposta dai ricorrenti di fronte alla legittima pretesa degli agenti di procedere alla loro identificazione (attestata anche dalle lesioni subite dagli stessi agenti di polizia), tuttavia nel caso di specie difettava l’ulteriore requisito della proporzione nell'uso della forza fisica per una duplice ragione: innanzitutto, le autorità italiane non avevano fornito alcuna spiegazione delle lesioni subite dai ricorrenti alla testa e al volto e, in secondo luogo, i ricorrenti erano stati isolati ciascuno in una stanza separata, mentre la signora Sarigiannis e la figlia minore erano rimaste all’esterno per diverse ore, senza alcuna notizia circa la sorte dei propri cari.
 
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 5 aprile 2011, ric. n. 8687/08, Rahimi c. Grecia (importance level 2)
Il ricorrente, orfano di padre e di madre, a soli quindi anni di età, aveva lasciato l’Afghanistan, senza essere accompagnato da alcun parente, ed era giunto in Grecia il, dove era stato arrestato 19 luglio 2007 e collocato nel centro di detenzione di Pagani, in attesa di un ordine di espulsione. Tale ordine gli era stato notificato il 21 luglio e il ricorrente era stato pertanto rimesso in libertà, con l’intimazione di lasciare il territorio greco entro 30 giorni. Dopo il rilascio era rimasto privo di una dimora e senza cibo di cui nutrirsi per diversi giorni, fino a che non era stato accolto da un’associazione presso cui si trova attualmente. Il 27 luglio presentava inoltre domanda di asilo.
La Corte ha innanzitutto riconosciuto, sulla base dei reports del CPT e organizzazioni non governative, una violazione diretta dell’art. 3 Cedu sub specie di trattamenti degradanti in relazione alle condizioni del trattenimento del ricorrente nel centro di Pagani (sottolineando tra l’altro che il ricorrente era stato trattenuto insieme ad adulti; che era stato costretto a mangiare sul pavimento e che infine non gli era permesso alcun contatto esterno). I giudici europei – richiamando al riguardo la pronuncia della grande camera M.S.S. c. Grecia e Belgio del gennaio 2011 – hanno altresì riconosciuto una violazione degli obblighi positivi discendenti dall’art. 3 Cedu in relazione alla mancata adozione da parte delle autorità greche di misure idonee ad assistere il ricorrente, che era minore di età, dopo il suo rilascio.
La Corte ha riconosciuto inoltre la violazione dell’art. 5 §§ 1 lett. f Cedu (perché la privazione della libertà personale del ricorrente non poteva ritenersi legittima in quanto le autorità nazionali non avevano tenuto in alcuna considerazione la possibilità di sottoporre il ricorrente, in quanto minore, ad una misura meno afflittiva rispetto alla privazione della sua libertà personale) e 4 Cedu (in relazione al mancato riconoscimento del diritto ad un ricorso effettivo), mentre ha ritenuto assorbita la violazione dell’art. 5 § 2 (in relazione al diritto ad essere informati in una lingua comprensibile dei motivi dell’arresto).
 
C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 5 aprile 2011, ric. n. 25716/09, Toumi c. Italia (importance level 2)
La vicenda riguarda l’esecuzione di un provvedimento di espulsione di un cittadino tunisino – condannato con sentenza definitiva a sei anni di reclusione per associazione con finalità di terrorismo internazionale ex art. 270 bis c.p. – nonostante la Corte di Strasburgo avesse richiesto al Governo italiano, adottando la misura ad interim prevista dalla Rule 39, di sospendere la relativa procedura finché essa non si fosse pronunciata sulla "legittimità convenzionale" dell'espulsione stessa. La Corte ha ravvisato all’unanimità una violazione effettiva dell'art. 3 Cedu poiché, secondo la Corte di Strasburgo, la pur rilevante pericolosità del ricorrente (secondo quanto affermato dalla grande camera nella sentenza Saadi c. Italia del 28.2.2008) non vale a "giustificare" la sua espulsione verso Paesi nei quali egli corra un rischio apprezzabile di essere sottoposto a tortura o a trattamenti contrari all'art. 3 Cedu. La Corte ha poi concluso anche per una violazione dell'art. 34 Cedu, perché il mancato rispetto della misura provvisoria da parte delle autorità italiane ha di fatto impedito l'esercizio effettivo del diritto al ricorso individuale sancito dalla citata norma convenzionale.

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 12 aprile 2011, ric. n. 56664/08, Flaminzeau c. Romania (importance level 2)
Il ricorrente – che attualmente sta scontando una condanna a pena detentiva per il delitto di rapina – soffriva, da prima del suo arresto, di una paralisi parziale degli arti inferiori e, durante la detenzione, era stato costretto a ricorrere a cateteri urinari. Si duole sia delle condizioni della sua detenzione  nelle carceri di Rahova, Giurgiu e Jilava (sovraffollamento, condizioni igieniche inadeguate, esposizione al fumo passivo), sia del mancato apprestamento di cure mediche adeguate ai suoi problemi fisici.
La Corte ha riconosciuto una violazione diretta dell’art. 3 Cedu sub specie di trattamenti degradanti perché le condizioni della detenzione del ricorrente – che si trovava in cella con cinque o sei detenuti, in condizioni igieniche precarie – non erano compatibili con il suo stato di salute, mentre non ha ritenuto necessario esaminare gli ulteriori motivi di doglianza (assistenza personale, esposizione a fumo passivo).
 
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 14 aprile 2011, ric. n. 35079/06, Patoux c. Francia (importance level 3 )
I ricorrenti, marito e moglie, sono due cittadini francesi, lamentano la violazione degli artt. 3, in relazione al protrarsi della detenzione in prigione della donna, nonostante l'emissione di un ordine di ricovero obbligatorio in un ospedale psichiatrico e 5 Cedu, con riferimento ad alcune irregolarità nella procedura di ammissione obbligatoria nonché del difetto di diligenza da parte delle autorità giudiziarie in sede di esame della sua istanza di immediato rilascio. La Corte dichiara inammissibile la doglianza relativa all’art. 3 Cedu, per mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, e riconosce invece una violazione dell’art. 5 § 4 Cedu in relazione alla procedura di riesame.
 
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 21 aprile 2011, ric. n. 42310/04, Nechiporuc e Yonkalo c. Ucraina (importance level 1)
I ricorrenti, marito e moglie, erano stati fermati dalla polizia per possesso di stupefacenti e condotti in caserma per essere interrogati. Essi sostengono che, durante l’interrogatorio, il primo ricorrente era stato ammanettato e sospeso ad una sbarra di metallo e che, inoltre, era stato sottoposto a scosse ettriche con elettrodi applicati alle caviglie e al coccige perché confessasse un omicidio, per il quale veniva successivamente condannato alla pena di quindici anni di reclusione, che sta attualmente scontando.
Con riferimento al primo ricorrente, la Corte ha riscontrato anzitutto una violazione diretta dell’art. 3 Cedu sub specie di tortura per una duplice ragione: innanzitutto, le autorità nazionali non avevano fornito alcuna spiegazione della presenza di elettrodi sul corpo del ricorrente e in secondo luogo la sofferenza psichica del ricorrente era stata aggravata dalla preoccupazione che anche la moglie, all’epoca incinta all’ottavo mese, potesse essere interrogata e sottoposta all’elettroshock (sul punto cfr. Accok c. Turchia del 1993). Essa ha poi ritenuto inadeguata l’inchiesta interna, in particolare sotto il profilo della valutazione delle prove: le conclusioni del Pubblico ministero, infatti, non avevano tenuto in alcun modo in considerazione la perizia che aveva accertato la presenza di elettrodi sul corpo del ricorrente e pertanto ha ravvisato una violazione della norma in parola anche sotto il profilo procedurale. E ancora, i giudici europei hanno riscontrato una violazione dell’art. 5 §§ 1 (poiché, secondo la propria giurisprudenza consolidata, l’ordinamento ucraino non prevede un termine di durata massima per la custodia cautelare in carcere né l’obbligo di motivare in maniera e adeguata e puntuale l’ordine di carcerazione) e 2, 3, 5 Cedu. Infine, la Corte ha concluso anche per una duplice violazione dell’art. 6 §§ 1 e 3 lett. c Cedu in relazione alla iniquità del procedimento svoltosi contro di lui, in particolare perché la sua condanna era stata fondata sulla base di una confessione estorta tramite tortura e senza la presenza di un difensore.
La Corte ha invece rigettato il ricorso della seconda ricorrente relativo alla violazione dell’art. 3 Cedu perché lo stress e l’ansia lamentate dalla ricorrente non avevano ecceduto quella connaturata a qualsiasi forma di interrogatorio, pertanto non era stata raggiunta la soglia minima di gravità necessaria.
 
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4. Articolo 5 Cedu
 
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 5 aprile 2011, ric. n. 6051/07, Nelissen c. Paesi Bassi (importance level 2)
La vicenda è piuttosto singolare: il ricorrente – affetto da una schizofrenia paranoie che lo porta a collezionare necrologi – era stato condannato per furto aggravato, per aver sottratto ad una donna, dopo averla colpita al volto, il manifesto del necrologio della sorella, appena deceduta, alla pena di sette mesi di reclusione e all’internamento in un ospedale psichiatrico da eseguirsi al termine della pena. Si duole della violazione dell’art. 5 § 1 Cedu perché, invece di essere trasferito in un ospedale psichiatrico, era stato detenuto per un altro anno e un mese in carcere in attesa che si liberasse un posto. Secondo i giudici europei la decisione in esame è simile a quella decisa nella sent. 11 maggio 2004, Brand c. Paesi Bassi (ric. n. 49902/99) in cui la Corte aveva riscontrato una violazione della norma in parola in relazione al ritardo di più di sei mesi con cui le autorità nazionali avevano eseguito l’ordine di internamento del ricorrente in un ospedale psichiatrico. Anche in questa occasione, dunque, la Corte ha concluso per una violazione dell’art 5 § 1 Cedu, sottolineando come il ricorrente era stato ammesso in una clinica psichiatrica dopo oltre un anno e mezzo dal passaggio in giudicato dell’ordine di internamento.
 
C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 19 aprile 2011, ric. n. 69458/01, Gasiņs c. Lettonia (importance level 2)
Il ricorrente, arrestato nel 2000 per omicidio, veniva condannato in primo grado nel 2003, ma il procedimento è attualmente pendente in appello. La Corte ha riconosciuto la violazione dell’art. 5 § 1 Cedu, in relazione al periodo di detenzione dal 1-25 marzo 2001, affermando – in conformità alla propria giurisprudenza consolidata (si veda ad es. Kornakovs c. Lettonia del 2006) – che il codice di procedura penale lettone vigente all’epoca dei fatti, e successivamente modificato, non prevedeva ai fini del computo della durata massima della custodia cautelare in carcere i periodi di detenzione durante i quali gli indagati avevano preso conoscenza dei documenti relativi alle accuse mosse nei loro confronti. La Corte ha altresì accertato la violazione dell’art. 5 §§ 3 e 4 e dell’art. 6 § 1 e 3 lett. a Cedu.
 
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 26 aprile 2011, ric. n. 38665/07, Pulatli c. Turchia (importance level 2)
Il ricorrente, un sergente dell’esercito turco, lamenta la violazione dell’art. 5 § 1 Cedu per essere stato condannato, con decisione assunta dal suo superiore gerarchico, alla sanzione disciplinare di sette giorni di detenzione per aver abbandonato un presidio senza alcuna autorizzazione.
La Corte ha riconosciuto una violazione della norma in parola, affermando che il ricorrente era stato sottoposto ad una privazione arbitraria della sua libertà personale, in quanto la decisione non era stta presa da un tribunale indipendente ed imparziale
 
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5. Articolo 7 Cedu
 
C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 14 aprile 2011, ric. n. 30060/04, Jendrowiak c. Germania (importance level 2)
Il ricorrente, plurirecidivo, nel 1992 veniva condannato per tentata violenza sessuale a tre anni di reclusione e alla misura di personale detentiva della custodia di sicurezza (Sicherungsverwahrung) in quanto ritenuto socialmente pericoloso, da eseguirsi una volta scontata la pena detentiva per un periodo massimo di dieci anni. La durata della prima applicazione della custodia, secondo l’art. 67 comma 3 primo periodo StGB, vigente al momento della commissione dei reati e della successiva condanna, non poteva essere superiore a dieci anni. Tale limite massimo peraltro veniva abolito, con effetto retroattivo, da una legge del 1998, che ha previsto la possibilità di protrarre la custodia di sicurezza fino a quando permane il pericolo che il soggetto commetta in futuro altri reati. Allo scadere del decimo anno di internamento, dunque, il Tribunale, confermata la pericolosità sociale del ricorrente, ordinava la prosecuzione della custodia. Il ricorrente si doleva della violazione degli artt. 5 § 1 lett. a e 7 Cedu.
Nel valutare la legittimità del ricorso, la Corte ha richiamato la pronuncia M. c. Germania, proprio in tema di Sicherungsverwahrung, in cui i giudici europei avevano riconosciuto la violazione degli artt. 5 § 1 lett. a e 7 Cedu, in relazione al mantenimento in custodia del ricorrente oltre il termine di dieci anni, previsto dalla legge in vigore all’epoca della condanna, conseguentemente all’abolizione, con effetto retroattivo, del limite massimo di durata della suddetta misura. La Corte ha condannato pertanto anche in questa occasione lo Stato convenuto, con l’importante precisazione che gli obblighi positivi di tutela che discendono dall’art. 3 Cedu, come interpretato dalla giurisprudenza di Strasburgo, nei confronti degli Stati membri non possono giustificare una violazione delle garanzie sancite dall’art. 5 Cedu e, a maggior ragione, dall’art. 7 Cedu, che non prevede deroghe nemmeno in caso di guerra o altre emergenze ai sensi dell’art. 15 Cedu.
 
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6. Articolo 8 Cedu
 
C. eur. dir. uomo, sent. 21 aprile 2010, ric. n. 41199/06, M. c. Svizzera (importance level 2)
Il ricorrente, cittadino svizzero, vive da diversi anni in Thailandia. Si duole della violazione dell’art. 8 Cedu in relazione al diniego da parte delle autorità svizzere di rilasciargli un nuovo passaporto al fine di costringerlo a tornare in Svizzera dove é attualmente sottoposto ad un indagine penale per il delitto di esercizio abusivo di una professione. Egli sostiene in particolare che tale diniego, oltre a limitare indebitamente la sua libertà di movimento, ha avuto gravi ripercussioni sulla sua vita privata, perché in mancanza di un documento valido non aveva potuto sposarsi, né registrare la nascita del figlio presso l'ambasciata svizzera, e, infine, non aveva potuto essere ricoverato in ospedale per sottoporsi ad un intervento chirurgico. La Corte ha osservato innanzitutto che l’interferenza nella vita privata e familiare del ricorrente è prevista dalla legge svizzera al fine di garantire il corretto svolgimento del procedimento penale (in particolare, secondo l’art. 6 comma 4 della legge federale del 22 giugno 2001 sui documenti di identità dei cittadini svizzeri, è negato il rilascio di un documento di identità se il richiedente è oggetto di un mandato di arresto per un crimine o un delitto). Inoltre, ad avviso dei giudici europei il diniego del passaporto costituisce una misura meno afflittiva rispetto all’emissione di un mandato di cattura internazione che potrebbe comportare anche un periodo di detenzione in Thailandia nel corso del procedimento di estradizione. Pertanto, la Corte ha escluso la violazione dell’art. 8 Cedu ritenendo nel caso concreto che l’interferenza nella vita privata del ricorrente fosse proporzionata rispetto allo scopo legittimo perseguito.
 
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7. Articolo 10 Cedu
 
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 5 aprile 2011, ric. n. 36635/08, Fatih Tas c. Turchia (importance level 2)
Il ricorrente – proprietario di una casa editrice – era stato condannato, con sentenza confermata dalla Suprema Corte di cassazione, al pagamento di una pena pecuniaria per aver pubblicato un libro, scritto sotto pseudonimo da un membro del PKK, nel quale venivano menzionati i nomi di alcuni ufficiali dell’esercito turco coinvolti nella lotta al terrorismo: in particolare, i giudici di legittimità avevano ritenuto sussistente il rischio che questi ultimi potessero diventare oggetto di potenziali attentati e inoltre avevano affermavano che il libro in questione costituisse un incitazione alla commissione di atti violenti.  
La Corte europea ha concluso per una violazione dell’art. 10 Cedu, affermando che l’interferenza nella libertà di espressione del ricorrente non poteva considerarsi necessaria in una società democratica alla luce delle seguenti considerazioni: 1) esisteva un interesse pubblico legittimo con riferimento ai temi trattati nel libro in questione; 2) i nomi degli ufficiali in questione erano già stati pubblicati su alcuni quotidiani; 3) nonostante l’uso di un linguaggio per certi versi aggressivo, l’autore si era limitato ad esprimere idee ed opinioni su temi di interesse generale. Essa ha poi riscontrato anche una violazione dell’art. 6 Cedu in relazione alla durata eccessiva del processo, mentre ha ritenuto assorbita la violazione dell’art. 13 Cedu in relazione agli artt. 6 e 10 Cedu.
 
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 12 aprile 2011, ric. n. 4049/08, Conceicao Letria c. Protogallo (importance level 3)
Il ricorrente, un giornalista molto noto, veniva condannato al pagamento di una multa pari 4650 euro per il delitto di diffamazione perché in un articolo, a proposito del crollo di un ponte a Castelo de Paiva nel 2001 a seguito del quale erano morte cinquantanove persone, aveva definito il sindaco in carica all’epoca dei fatti come un “imbonitore”.
La Corte ha ritenuto innanzitutto che la frase in questione rientrava nei giudizi di valore e pertanto il ricorrente non era tenuto a dimostrarne la veridicità. Inoltre, il parere in questione, ad avviso dei giudici europei, si fondava su una base di fatto sufficiente (il ricorrente, infatti, esprimeva tale opinione sulla base delle relazioni fatte dalla stampa in merito all'audizione del politico da parte della Commissione di inchiesta parlamentare), dall’altro, il diffamato, in quanto uomo politico, era tenuto a mostrare maggiore tolleranza nei confronti della critica che gli si rivolge, contribuendo così alla libera discussione di temi di interesse generale, senza la quale non esiste una società democratica (Alves da Silva c. Portogallo, no 41665/07, § 29, 20 ottobre 2009). Pertanto, la Corte ha concluso per una violazione dell’art. 10 Cedu affermando che l’interferenza nella libertà di espressione del ricorrente non poteva considerarsi proporzionata.  
 
C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 19 aprile 2011, ric. n. 3316/04, Bozhkov c. Bulgaria (importance level 2) e C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 19 aprile 2011, ric. n. 22385/04, Kasabova c. Bulgaria (importance level 2)
I ricorrenti sono due giornalisti bulgari che lavoravano per i principali quotidiani nazionali. Entrambi i casi riguardano la loro condanna per il delitto di diffamazione e al pagamento di ingenti somme a titolo di risarcimento del danno a seguito della pubblicazione nel 2000 di alcuni articoli in cui venivano denunciate alcune irregolarità nella procedura di selezione di studenti di una scuola speciale di Burgas. L’inchiesta penale avviata nei confronti dei funzionari facenti parte della commissione giudicatrice si concludeva, tuttavia, con un provvedimento di archiviazione e i funzionari suddetti venivano sanzionati solo in via disciplinare.
La Corte europea ha riconosciuto nei confronti di entrambi i ricorrenti una violazione diretta dell’art. 10 Cedu, affermando che essi erano stati condannati a pagare a titolo di risarcimento delle somme sproporzionate rispetto alla gravità del fatto commesso, conseguentemente l’interferenza nella loro libertà di espressione non poteva considerarsi necessaria in una società democratica.