18 gennaio 2012 |
La diagnosi differenziale in medicina: principi giurisprudenziali
Nota a Cass. pen., sez. IV, 12.7.2011 (dep. 26.9.2011) n. 34729, Ravasio, Est. Romis e Cass. pen., sez. IV, 27.9.2011 (dep. 14.10.2011) n. 37043, Pierfederici, Est. Romis
Clicca qui per il testo di Cass. IV, 12 luglio 2011, n. 34729, Ravasio
Clicca qui per il testo di Cass. IV, 27 settembre 2011, n. 37043, Pierfederici
1. Pochi sono i sintomi, ma molte le malattie. I sintomi più o meno sono sempre gli stessi, ma le malattie sono le più varie. Ad es., dolore toracico e respiro accelerato: infarto del miocardio o ansia somatizzata? O qualcos'altro ancora?
Questa evenienza è alquanto frequente nell'attività medica. Ci si trova cioè dinnanzi ad un quadro sintomatologico che può essere dovuto a più cause alternative, a più malattie.
In questa evenienza l'individuazione della malattia è (rectius: dovrebbe essere) la tappa di arrivo di un percorso intellettuale per esclusione. La malattia viene quindi individuata per via residuale, una volta che le ipotesi alternative sono state eliminate. Eliminazione che avviene sia mediante l'esame diretto sul paziente, la c.d. clinica, sia mediante le indagini strumentali: analisi di laboratorio o immagini diagnostiche. E l'individuazione della malattia altro non è che la diagnosi.
Quando si parla di diagnosi differenziale si fa appunto riferimento a questo percorso per esclusione. In realtà nel momento in cui si pone una diagnosi differenziale il retroscena mentale è: la causa del quadro potrebbe essere A, B, C o D... Una diagnosi vera e propria ancora non è stata posta, non si sa ancora da quale patologia è generato il quadro. Più propriamente si parla quindi non di diagnosi, ma di diagnostica differenziale: il sostantivo "diagnostica" descrive infatti non la tappa di arrivo, ma l'iter, il percorso. L'espressione "diagnosi differenziale" è peraltro quella comunemente usata, sia in medicina che in giurisprudenza.
Di per sé l'individuazione di una causa mediante un procedimento per esclusione non è certo peculiare della medicina, ma comune a svariate attività intellettuali. Anche il pubblico ministero, ad es., procede per esclusione quando cerca d'individuare l'omicida fra più soggetti aventi un movente per la soppressione della vittima. O il giardiniere quando vuole capire perché in un arbusto le rose stanno fiorendo e in un altro no. Non solo: anche nella vita quotidiana seguiamo spesso lo stesso percorso per esclusione, quando, ad es., qualcuno non ci risponde ad un sms e ci chiediamo quale può essere, fra alcuni, il perché della mancata risposta.
2. Le sentenze in commento, entrambe dello stesso estensore, hanno appunto ad oggetto due casi di omessa diagnosi differenziale.
Per comodità espositiva chiamiamo il primo caso: caso dell'embolia polmonare e il secondo: caso dell'emorragia cerebrale. Riassumiamoli in poche parole.
Il primo è quello di un paziente che si presenta in un pronto soccorso ospedaliero e lamenta episodi di mancanza di respiro, capogiri e dolore all'emicostato sinistro; all'anamnesi recente figura un politraumatismo da incidente stradale. Il medico che si occupa del caso svolge un esame radiografico del torace, a seguito del quale esclude l'origine traumatica del quadro sintomatologico e dimette il paziente con l'annotazione "dolore toracico sn.". Il paziente decede qualche giorno dopo per embolia polmonare da trombosi venosa profonda degli arti inferiori. Con autopsia si accerta infatti l'avvenuta poussé tromboembolica: dagli arti inferiori, a seguito dell'incidente stradale, si è liberato materiale trombotico, poi migrato mortalmente nel distretto polmonare attraverso il richiamo venoso. Della morte viene ritenuto responsabile per colpa il medico, per non avere proceduto ad un esame clinico degli arti inferiori e ad ogni altro esame che avrebbe potuto svelare la presenza della malattia circolatoria, cioè per non averla posta in diagnosi differenziale. Viene richiamato il principio secondo il quale: "Versa in colpa il medico che, in presenza di sintomatologia idonea a porre una diagnosi differenziale, rimanga arroccato su diagnosi inesatta, benché posta in forte dubbio dalla sintomatologia, dall'anamnesi e dalle altre notizie comunque pervenutegli, omettendo così di porre in essere la dovuta terapia"[1].
Nel secondo caso un medico di medicina generale viene chiamato a visitare a domicilio una paziente che presenta un quadro d'improvvisa e ingravescente cefalea nucale, vomito e ipertensione. Diagnostica un "attacco cervicale" e prescrive un farmaco contro l'ipertensione. Qualche giorno dopo la visita il quadro precipita, la paziente viene ricoverata in ospedale, dove viene persa per emorragia cerebrale. Il medico di medicina generale è ritenuto responsabile di omicidio colposo, per non avere proceduto al ricovero della paziente e non avere posto in diagnosi differenziale un'emorragia cerebrale all'esordio. Si richiama anche in questo caso il principio per il quale versa in colpa il medico che non opera la diagnosi differenziale e si specifica che l'obbligo di porre tale diagnosi "...vale non soltanto per le situazioni in cui la necessità della diagnosi differenziale è già in atto, ma anche quando è prospettabile che vi si debba ricorrere nell'immediato futuro a seguito di una prevedibile modificazione del quadro o della significatività del perdurare del quadro già esistente"[2]. Situazione, quest'ultima, riscontrata nel caso di specie, per il quadro di esordio della malattia, suscettibile quindi sia di defervescenza e poi di risoluzione, sia di maturazione in fase florida.
Le sentenze in esame non indicano il momento in cui si può interrompere l'indagine su una patologia alternativa. Tuttavia la Cassazione ha precisato, in altre occasioni, quale sia tale momento per il medico e cioè quello della "...raggiunta certezza che la patologia medesima possa essere esclusa...[3]" e ha indicato anche il criterio: "...in base alle conoscenze dell'arte medica da lui esigibili...[4]".
3. I due casi presentano in comune un dato, peraltro alquanto frequente e cioè una diagnosi che tale non è, ma una pseudodiagnosi. Infatti "dolore toracico sn." e "attacco cervicale" non sono diagnosi, non sono l'individuazione della malattia, ma sono la rilevazione di un sintomo. L'indagine diagnostica rimane ancora da fare o, come nel caso dell'embolia polmonare, è stata fatta, ma è incompleta, perché solo si è esclusa l'origine traumatica del dolore, mentre c'era da indagare l'ipotesi circolatoria. Proprio nel caso dell'embolia polmonare, questo modo di refertare è oggetto di stigma da parte della Corte d'Appello e il ragionamento è poi condiviso dalla Cassazione. Si scrive infatti che, con l'annotazione "dolore toracico sn.", il medico ha restituito al paziente la sintomatologia da questi riferita, semplicemente gli ha fatto l'eco.
Ci si trova in sostanza di fronte a due casi di diagnosi omessa o quantomeno ad una diagnosi che non è resa esplicita, che è stata fatta solo mentalmente dal medico.
Talvolta la diagnosi invece non viene omessa, viene posta ma è errata, perché non viene indagata cioè posta in diagnosi differenziale la malattia che invece costituisce la causa dei disturbi accusati dal paziente. Anche casi come questi sono presenti in giurisprudenza. Ad es.: viene diagnosticata erroneamente una virosi intestinale e non posta in diagnosi differenziale un'appendicite acuta[5]. O anche: viene diagnosticata erroneamente una colica addominale e non posta in diagnosi differenziale una perforazione intestinale[6].
Tuttavia, sia che la diagnosi venga omessa sia che venga posta ma sia errata, le cose non cambiano: non si è posta comunque in diagnosi differenziale la malattia che costituiva la causa del quadro clinico e quindi la diagnosi corretta è sfuggita. E in questo consiste la colpa del medico.
4. Vanno peraltro tenute nel debito conto le difficoltà di svolgere la diagnosi differenziale. Difficoltà che si accentuano quando il paziente presenta un quadro paucisintomatico e c'è quindi la necessità di evocare uno o più segni clinici. O quando il quadro è sporcato dall'assunzione di un farmaco precedentemente alla visita. O quando s'interviene in urgenza o addirittura in emergenza. O quando il paziente non riferisce un sintomo invece importante, ad es., una recente momentanea perdita di coscienza, perché non può o peggio non vuole riferirlo, cioè non collabora con il diagnosta. O quando il paziente non è conosciuto personalmente dal diagnosta: si sa quanto sia importante in linea generale la conoscenza personale del paziente per l'esclusione d'ipotesi alternative, ad es., per l'esclusione dell'origine organica dei disturbi e la riconduzione invece ad origine funzionale, senza cioè che alla base vi sia un'alterazione organica, come nelle somatizzazioni.
Ma anche quando il quadro è ricco, pulito, c'è tutto il tempo a disposizione e il paziente è collaborante e conosciuto, può comunque risultare difficile discriminare fra diverse ipotesi diagnostiche. Pensiamo alla difficoltà di distinguere una demenza vascolare da una demenza Alzheimer: non sempre le immagini diagnostiche risultano dirimenti e una diagnosi davvero certa può essere fatta solo al tavolo autoptico, quando ovviamente ciò non è più utile a fini terapeutici, ma solo medico-legali. O pensiamo ancora alla difficoltà, talvolta estrema, di distinguere fra attacchi di panico e ansia generalizzata.
D'altra parte gli incasellamenti diagnostici sono talvolta molto discutibili e si risolvono in una semplice etichetta nosografica. L'inserimento in una o in un'altra categoria può anche non avere rilevanti conseguenze sotto il profilo terapeutico. Questo avviene soprattutto in psichiatria, dove l'intervento farmacologico tende di regola più a contenere i sintomi che ad agire sull'eziopatologia, cosicché la terapia può risultare comunque efficace, a prescindere dalla diagnosi.
L'importanza della diagnosi corretta non va quindi enfatizzata: la diagnosi non è fine a sé stessa, ma è a sua volta finalizzata ad una terapia. Ciò che importa, a conti fatti, è solo la cura del paziente.
Spesso però la diagnosi, corretta s'intende, è il passaggio obbligato per stabilire qual è la terapia idonea. E in queste ipotesi all'errore diagnostico segue, come logica conseguenza, quello terapeutico e a cascata quello prognostico. Come è avvenuto nel caso dell'embolia polmonare, nel quale l'omessa diagnosi ha impedito la somministrazione di un antiaggregante e anche nel caso dell'emorragia cerebrale, nel quale l'omesso ricovero ospedaliero ha impedito il necessario trattamento neurochirurgico.
5. La giurisprudenza non è ricca di pronunce nelle quali viene richiamato in modo esplicito il principio in esame, per il quale cioè versa in colpa il medico che non pone in diagnosi differenziale la malattia che genera il quadro clinico. Le sentenze in commento, richiamando espressamente tale principio, non vengono così a comporre una nutrita serie. Eppure, come sopra detto, la diagnostica differenziale è il normale processo seguito dal medico nell'indagine sulla malattia che genera il quadro clinico e quindi dovrebbero essere in numero più consistente le pronunce che richiamano il principio. Qual è il perché della relativa povertà di pronunce?
La risposta a questa domanda comporta che si ponga in chiaro rilievo che la colpa per omessa diagnosi differenziale consiste in definitiva in un mancato approfondimento diagnostico, che preclude di giungere ad una diagnosi corretta. Manca una diagnosi corretta, alla quale invece poteva approdarsi. Ecco quindi perché il principio giurisprudenziale sulla diagnosi differenziale non viene il più delle volte richiamato: perché rimane assorbito nel più generale principio per il quale versa in colpa il medico che non pone la diagnosi corretta. Di tale generale principio quello sulla diagnosi differenziale altro non è che una precisazione. Anche quando si statuisce, come nel caso dell'emorragia cerebrale, che l'obbligo di porre tale diagnosi "...vale non soltanto per le situazioni in cui la necessità della diagnosi differenziale è già in atto, ma anche quando è prospettabile che vi si debba ricorrere nell'immediato futuro a seguito di una prevedibile modificazione del quadro...", altro non si sta facendo che indicare una modalità, cioè l'osservazione dell'evoluzione del quadro clinico, attraverso la quale poter sciogliere i dubbi diagnostici e giungere quindi ad una diagnosi corretta. Ancora una volta quindi il principio di carattere generale.
Quindi, pur essendo alquanto frequente il caso della colpa per omessa diagnosi differenziale, il relativo principio non viene esplicitamente richiamato per motivare la sussistenza della colpa, che viene invece motivata con riguardo all'omessa corretta diagnosi. Il principio non è stato richiamato, ad es., in un caso di attribuzione di un quadro addominale ad un disturbo psichiatrico, senza indagare l'ipotesi organica, risultata poi fondata, perché la paziente è stata persa per evoluzione perforativa intestinale da morbo di Crohn[7]. E in altri casi ancora[8]. Lo stesso estensore delle sentenze in commento ha prescisso dal richiamo al principio in un caso di dissecazione aortica non posta in diagnosi differenziale una volta esclusa l'ipotesi infartuale[9].
Il principio sulla colpa per l'omessa diagnosi differenziale non appare però superfluo, anche se compreso nell'altro di carattere più generale sull'omessa diagnosi corretta. Tutt'altro: il principio pone la netta pretesa per la diagnosi differenziale e offre una precisazione che rende chiarezza sia agli operatori giuridici che ai medici. E per questa ragione è auspicabile in giurisprudenza un suo più frequente richiamo.
Con il principio gli operatori giuridici dispongono di un criterio di giudizio che, proprio per la sua chiarezza, evita i noti discorsi confusiogeni, basati sul fatto che il medico si è comunque impegnato, in ipotesi anche facendo tanto, nell'approfondimento del caso clinico.
Dal principio emerge invece per i medici, in modo altrettanto chiaro, l'obbligo di approfondire diagnosticamente e l'obbligo di escludere un'ipotesi di malattia soltanto quando questa sia da escludere in base a letteratura. Un perentorio messaggio giurisprudenziale che funge da monito, ma non mortifica di certo l'esperienza che il medico mano mano acquisisce e che pure gioca un ruolo fondamentale nell'esclusione di ipotesi diagnostiche alternative.
E' noto, e non solo in medicina, che l'esperienza che vale è solo quella che cresce insieme allo studio, per fondersi insieme nella competenza professionale.
[1] Si richiama in motivazione Cass. IV, 8 novembre (29 novembre) 1988, n. 11651, in C.e.d. Cass. Rv. 179815
[2] Si richiama in motivazione Cass. IV, 29 novembre 2005 (3 febbraio 2006) n. 4452, Campanile, est. Colombo, in GIUNTA ed altri, Il diritto penale della medicina nella giurisprudenza di legittimità, E.S.I., 2011
[3] Cass. IV, 25 febbraio (7 aprile) 2010, n. 13076, Serra, est. Brusco, in Il diritto penale della medicina cit.
[4] Cass. IV, 10 dicembre 2009 (16 febbraio 2010), n. 6215, Pappadà, est. Brusco, in Il diritto penale della medicina cit.
[5] Cass. IV, 12 febbraio (26 marzo) 2004, n. 14881, Ferranti, est. Palmieri, in Il diritto penale della medicina cit.
[6] Cass. IV, 25 febbraio (7 aprile) 2010, n. 13076, Serra, est. Brusco, in Il diritto penale della medicina cit.
[7] Cass. IV, 10 luglio 2009 (16 febbraio 2010) n. 6197, D'Agostino, est. Romis, in Il diritto penale della medicina cit.
[8] Cass. IV, 18 febbraio (26 marzo) 2004, n. 14888, Castiglione, est. Palmieri; Cass. IV, 16 febbraio (25 marzo) 2005, n. 11969, Caruso, est. Calabrese; Cass. IV, 4 ottobre (4 novembre) 2006, n. 36618, Capalbo, est. Colombo; Cass. IV, 15 febbraio (9 marzo) 2007, n. 10136, Gastel, est. Novarese; Cass. IV, 23 marzo (1 giugno) 2007, n. 21588, Emma, est. Blaiotta; Cass. IV, 12 luglio (14 novembre) 2007, Abou, est. Campanato, tutte in Il diritto penale della medicina cit.
[9] Cass. IV, 7 maggio (30 giugno) 2008, n. 26111, Catananti, est. Romis, in Il diritto penale della medicina cit.