1 giugno 2012 |
Tentativo e atti preparatori: una questione sempre aperta
Nota a Cass. pen., Sez. II, 13 marzo 2012 (dep. 2 aprile 2012), Pres. Casucci, Rel. Gallo, P.g. Cesqui (conf.), Imp. Napolitano
1. Un uomo si trova di fronte ad una banca: la conosce, ha compiuto tutti i sopralluoghi del caso, ha con sé armi ed alcuni strumenti volti al travisamento della persona. È tutto pronto, non gli resta che attendere il momento più propizio per decidersi ad entrare finalmente in azione, sta per commettere una rapina. Questo basta alla locale compagnia di carabinieri per intervenire: l'uomo si lancia in una precipitosa fuga, al termine della quale i militari riescono a trarlo in arresto.
È un caso - si potrebbe dire - di scuola: il «classico» rapinatore sorpreso mentre ha concluso la fase di preparazione del delitto e non ha ancora avviato quella esecutiva. Nondimeno, l'ipotesi costituisce pur sempre un valido banco di prova per le varie teorie che da lungo tempo si contendono l'esegesi del requisito dell'univocità degli atti in materia di delitto tentato. La pronuncia in epigrafe, infatti, si inserisce in un più ampio - e maggioritario - filone giurisprudenziale che, facendo leva ora su questo precedente pretorio, ora su quell'orientamento dottrinale, ha ritenuto di estendere la punibilità ex art. 56 c.p. anche al compimento di atti con ogni effetto «preparatori» rispetto alla commissione di un delitto (nel senso, vale a dire, che non ne costituiscono un inizio di esecuzione). Nella sentenza, infatti, si legge che «ai fini del tentativo punibile, assumono rilevanza penale non solo gli atti esecutivi veri e propri del delitto pianificato, ma anche quegli atti che, pur essendo classificabili come atti preparatori, tuttavia, per le circostanze concrete (di luogo, di tempo, di mezzi, ecc.) fanno fondatamente ritenere che l'azione - considerata come l'insieme dei suddetti atti - abbia la rilevante probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che l'agente si trovi ormai ad un punto di non ritorno dall'imminente progettato delitto, e che il medesimo sarà commesso».
Pure, la questione è quanto mai controversa, ed offre lo spunto per tratteggiare, sia pur sinteticamente, l'attuale stato dell'arte in ordine all'interpretazione dell'inciso "atti diretti in modo non equivoco" nell'ambito della disciplina del tentativo. Due, sostanzialmente, appaiono le linee di indagine: in primo luogo, sulla sua natura (infra, 2); in secondo luogo, sulle sue possibili interpretazioni (infra, 3).
2. Per quanto concerne il tema della reale natura del requisito dell'univocità degli atti, una prima tesi - c.d. soggettiva - risolve tale elemento nella semplice necessità che risulti certa l'intenzione dell'agente di commettere il corrispondente delitto consumato. La non equivocità, dunque, verrebbe ad integrare un elemento con funzione strettamente probatoria (o comunque processuale), alla stregua di un parametro al quale ancorare la stessa opportunità di irrogare la sanzione normativamente prevista per un fatto di reato che non si è compiutamente realizzato. E tale prova - si osservi - può anche non essere raggiunta attraverso l'atto (o gli atti) in sé, ma può essere desunta o ricostruita aliunde, dalla lettura di uno qualsiasi degli elementi di fatto, dai precedenti, dalla personalità del reo, e così via. Tale interpretazione si fonda, in buona sostanza, su una considerazione riportata nei lavori preparatori del «nuovo» codice, con la quale il Ministro Rocco aveva inteso affermare che «il criterio della univocità è sempre necessario in tema di tentativo, nel senso che gli atti, siano essi preparatori o esecutivi, debbano provare in modo non equivoco la intenzione, il fine, la volontà di commettere il delitto»[1]. Ecco che, dunque, si può rilevare come l'ingresso furtivo in un'abitazione, ad esempio, non sia un atto in sé e per sé univoco, potendo essere compiuto per le più svariate finalità, e quindi non per una soltanto: omicidio, furto, rapimento, violenza sessuale, e così via. Lo stesso atto, però, diventerebbe diretto in modo non equivoco al compimento di uno di questi delitti se qualsiasi altro elemento, diverso dall'atto in sé considerato, consentisse di raggiungere la prova della reale intenzione dell'agente[2].
A questa opinione, invece, ribatte chi individua nell'univocità un requisito strutturale essenziale di fattispecie, un limite, cioè, in virtù del quale un atto potrebbe essere punito soltanto allorché riveli in sé il proposito criminoso perseguito dall'agente. È la tesi c.d. oggettiva: delineando l'art. 56 c.p. una figura del tutto autonoma di delitto, l'esigenza di provare la sussistenza di una volontà criminosa in capo al soggetto attivo del reato discende dalle regole generali in tema di elemento soggettivo, codificate nell'art. 42 c.p.; ogni diversa soluzione, infatti, condurrebbe alla (poco auspicabile) conseguenza di dar luogo ad una vera e propria interpretatio abrogans di un requisito - quello della non equivocità degli atti - che la lettera della legge riferisce con ogni evidenza alle sole ipotesi di delitto tentato[3]. È a questa impostazione che, una volta di più, la Cassazione mostra di aderire con la sentenza in commento: senza contare, poi, che se anche quella sopra riportata fosse stata la reale intenzione del legislatore storico, essa sarebbe successivamente entrata in conflitto con i principi di un diritto penale del fatto offensivo e colpevole come desumibili dalla nostra Carta costituzionale. L'univocità degli atti, pertanto - qualunque cosa essa sia - deve sempre essere autonomamente provata. Il problema, a questo punto, si sposta sulla necessità di stabilire a quali condizioni un atto sia in grado di parlare da sé.
3. Il punto, come è noto, riveste una particolare rilevanza. Non del tutto accettabile, infatti, è sembrato esigere che gli atti compiuti rivelino per sé soli la tensione finalistica alla cui luce l'agente li ha orientati: in questo modo, si è osservato, sarebbe difficile giungere alla punizione di qualsivoglia comportamento, posto che anche i più univoci di essi - come la pressione su un grilletto - potrebbero pur sempre essere compatibili con le finalità più diverse (ad esempio, uno scherzo di pessimo gusto)[4]. La conseguenza immediata di questa non troppo latente incertezza fa sì che in molti casi sia dubbio che cosa effettivamente debba essere richiesto per punire ex art. 56 c.p.: ciò che concerne, in definitiva, il momento stesso in cui le forze di pubblica sicurezza possono decidere di intervenire, di interrompere la realizzazione del reato e di prevenire che l'offesa al bene giuridico in questione giunga a perfezione, perché le azioni dell'agente hanno già oltrepassato la soglia del tentativo punibile.
Almeno tre, dunque, sono gli orientamenti che oggi si fronteggiano sul terreno della interpretazione del dato normativo in materia di delitto tentato, e segnatamente dell'elemento della non equivocità degli atti.
a) Secondo una prima tesi[5], più rigorosa, atti univoci potrebbero essere solamente gli atti esecutivi: vale a dire, cioè, atti tipici, che integrino almeno una parte della condotta descritta dalla norma incriminatrice che il soggetto ha iniziato a violare e che, pertanto, si rivelino essi stessi come una forma di manifestazione di quel delitto. Tale lettura si ancora, come noto, su un'interpretazione sistematica del disposto dell'art. 115 c.p., il quale impone di non punire l'accordo e l'istigazione volti alla realizzazione di un delitto che poi non venga commesso: da ciò consegue la logica impossibilità di incriminare altri atti che precedano l'incontro di volontà tra più soggetti attivi del reato; ma del pari non si potrebbe pensare che analoghe attività siano punibili se poste in essere da un autore singolo. Si conclude, dunque, che l'art. 115 sancisce il principio della normale irrilevanza degli atti preparatori ai fini del tentativo[6].
Si tratta, con ogni evidenza, di un orientamento notevolmente restrittivo, ma non per questo del tutto sprovvisto di credito da parte della giurisprudenza. In primo luogo, esso ha dalla sua una pronuncia della Corte Costituzionale, secondo la quale «atti [...] diretti in modo non equivoco a commettere un delitto possono essere esclusivamente atti esecutivi, in quanto [...] soltanto dall'inizio dell'esecuzione di una fattispecie delittuosa può dedursi la direzione univoca dell'atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall'agente»[7]. A ciò, inoltre, si conformano anche alcune pronunce di legittimità, secondo cui atti univoci possono essere «esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte - come inizio di esecuzione - alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o a forma vincolata»[8].
A dispetto di tali autorevoli manifestazioni di consenso, tuttavia, la tesi in parola occupa una posizione affatto minoritaria nel nostro panorama dottrinale e, soprattutto, giurisprudenziale. Essa presenta particolari vantaggi rispetto alla esigenze di materialità, laddove postula la necessità di un comportamento esteriormente visibile, e di legalità, per il saldo riferimento alla fattispecie tipica; ma anche a fronte di ciò, questa costruzione comporta degli inconvenienti tecnici da tempo noti alla scienza penalistica.
Il problema più spinoso concerne l'individuazione di che cosa in concreto possa essere ritenuto «inizio dell'esecuzione» di un delitto. La questione, invero, potrà essere relativamente semplice nelle fattispecie delittuose a forma vincolata, rispetto alle quali esecutivi potranno essere ritenuti soltanto gli atti che realizzino almeno una parte del comportamento descritto dalla norma incriminatrice di parte speciale. Nel caso di cui qui ci stiamo occupando, dunque, in applicazione di questo paradigma ermeneutico il nostro imputato avrebbe dovuto andare assolto dall'accusa di rapina, per non aver neppure iniziato a realizzare gli estremi della violenza o della minaccia previsti dall'art. 628 c.p.: diverso sarebbe se egli avesse già compiuto il proprio ingresso in banca, arma in pugno, intimando con senso di teatralità il tradizionale «fermi tutti, questa è una rapina!».
Analoga semplicità, però, non pare riscontrabile nei reati c.d. a forma libera, per i quali si è sostenuta l'opportunità di individuare l'azione tipica in funzione del mezzo che in concreto l'agente ha deciso di utilizzare. In questi casi, tuttavia, la distinzione tra atti preparatori ed atti che si concretino almeno in un inizio di esecuzione può farsi più sfuggente. Nel caso di un omicidio da commettere con un'arma da fuoco, il tentativo coprirebbe solamente le ipotesi di delitto mancato, nelle quali, cioè, l'agente ha compiuto tutto quanto in suo potere - compreso, evidentemente, premere il grilletto - ma l'evento non si è verificato per una qualsiasi altra causa: appostarsi sotto la casa della vittima e prendere la mira, infatti, potrebbero essere letti quali semplici atti preparatori. Per meglio evidenziarne la linea demarcativa, autorevole dottrina ha sostenuto che gli atti al confine tra le due fasi possano essere definiti quali atti iniziali, distinti sia dagli atti preparatori, sia da quelli esecutivi. Si tratterebbe, in sostanza, di comportamenti che segnano l'inizio della serie causale che condurrà alla realizzazione del delitto, ma che non consistono (ancora) nella realizzazione della condotta tipica descritta dalla singola norma incriminatrice che l'agente intendeva violare[9]. Così, dunque, compirebbe atti iniziali chi forza una finestra, chi apre una porta con una chiave falsa, chi scavalca un muro di cinta, chi lega una vittima ad una sedia; e si tratterebbe, secondo questa teoria, nondimeno di atti esecutivi, ossia che dell'esecuzione segnano per l'appunto l'inizio, la cui rilevanza giuridica dovrà essere colta alla stregua del fine cui essi sono diretti.
Sennonché, si noti, tutti questi atti - si definiscano essi iniziali o tout court esecutivi - anche se connotati alla luce del mezzo utilizzato, non paiono idonei ad uscire dall'ambiguità in cui l'orientamento più restrittivo confina ogni attività preparatoria rispetto alla commissione di un delitto. Forzare una serratura, cioè, può astrattamente essere compatibile con una pluralità di delitti, e nondimeno non consistere nell'inizio dell'esecuzione di alcuno di essi: il rischio, del resto apertamente suggerito dalla dottrina in parola[10], sarebbe quello di tornare ad intendere il criterio dell'univocità quale parametro di mera prova dell'intenzione delittuosa del soggetto, secondo la già esaminata teoria c.d. soggettiva.
b) D'altronde, la ratio dell'incriminazione di attività che comunque precedono la commissione di un delitto consumato risponde certamente alla volontà, da parte del legislatore storico, di arretrare la soglia del punibile per consentire alle forze di polizia di intervenire quando sussiste la seria prospettiva di una condanna ma, nondimeno, la lesione al bene giuridico tutelato non è ancora giunta a perfezione. Su tale rilievo fanno leva coloro che ritengono, ai fini della corretta interpretazione del requisito dell'univocità, di attribuire grande significato alla variazione normativa intervenuta con l'approvazione del codice Rocco. Il previgente codice penale, risalente al 1889, affermava difatti all'art. 61 la punibilità di «colui che, al fine di commettere un delitto, ne comincia con mezzi idonei l'esecuzione»; il legislatore fascista, al contrario, ha eliminato ogni riferimento a quest'ultima fase, limitandosi a richiedere che dagli atti compiuti risultasse la loro inequivoca direzione verso la commissione di un delitto.
È così che, valorizzando anche questo elemento di discontinuità tra i dati normativi, si è sviluppato un orientamento che richiede di «accertare se gli atti, considerati nella loro oggettività, riflettano in maniera sufficientemente congrua la direzione verso il fine criminoso (eventualmente) già accertato per altra via»[11]. È una rivisitazione, in buona sostanza, della teoria dell'«osservatore esterno», anticipata già da Francesco Carrara[12], secondo cui univoci sono anche quegli atti che, pur non costituendo parte della condotta tipica, sono dotati di un insieme di circostanze obiettive tali da rivelare, globalmente considerati, l'intenzione di chi agisce e la direzione dell'azione.
In altri termini, dunque, il giudizio di univocità nel tentativo può essere risolto in una prognosi probabilistica in ordine alla realizzazione del corrispondente delitto consumato, ispirata a criteri di funzionalità del pericolo posto in essere rispetto all'esito avuto di mira dall'agente, e tenuto conto anche della verosimile intenzione di quest'ultimo di portare a compimento il proprio proposito criminoso. Ciò che, con ogni evidenza, consentirà di ricomprendervi intanto l'ipotesi, peraltro espressamente disciplinata nel codice Zanardelli, di delitto mancato, nella quale l'agente ha posto in essere l'intera condotta, salvo non riuscire nella realizzazione del reato per cause indipendenti dalla propria volontà; quindi i casi già visti sub a), in cui il soggetto abbia quantomeno iniziato l'esecuzione del reato; infine, e soprattutto, le occasioni in cui «il soggetto ha posso in essere soltanto atti pretipici, che cioè precedono l'inizio della condotta tipica» i quali, per il grado di sviluppo raggiunto, lasciano prevedere come verosimile il compimento del delitto[13].
È ragionando in questo modo che la giurisprudenza - maggioritaria, come si è detto - ha ritenuto di punire a titolo di tentativo soggetti che si stavano accingendo ad avviare l'esecuzione dell'azione tipica, avendo peraltro posto in essere, fino a quello stadio dell'iter criminis, atti sostanzialmente preparatori rispetto alla commissione del reato[14]. È ragionando in questo modo, ancora, che nella sentenza in epigrafe la Cassazione ha potuto valorizzare il riferimento, nel dato letterale dell'art. 56 c.p., alla punibilità dell'azione «incompiuta» come espressione di «un qualcosa che precede l'esecuzione vera e propria, ossia quell'insieme di atti (o semplice atto) che, sebbene non esecutivi, valutati unitariamente, abbiano l'astratta attitudine a produrre il delitto programmato. [...] Ciò quindi permette di affermare che ci si trova di fronte ad un tentativo punibile in tutti quei casi in cui l'agente abbia approntato e completato il suo piano criminoso in ogni dettaglio ed abbia iniziato ad attuarlo pur non essendo ancora arrivato alla fase esecutiva vera e propria, ossia alla concreta lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice».
c) Da ultimo, infine, occorre considerare che una variante dell'impostazione appena esaminata si focalizza, invece, sul piano criminoso concretamente predisposto dall'agente per concludere che univoci, secondo quel programma, sarebbero solamente quegli atti collocabili in una posizione di prossimità cronologica rispetto alla commissione del reato[15]. E se tale tesi non si connota in senso soggettivo, dunque, è perché nel compimento di atti idonei si vuole leggere non tanto la manifestazione di un generico proposito delittuoso, ma un avanzamento dell'iter criminis in grado di rivelarne la contiguità rispetto alla consumazione del reato. Le conseguenze di una simile impostazione sono evidenti: se non integreranno ipso facto gli estremi di un tentativo punibile, perché non rappresentano in sé e per sé la stretta anticipazione della realizzazione della condotta tipica, il reperimento dei mezzi necessari per l'esecuzione, la loro predisposizione, la definizione delle modalità dell'azione o finanche l'eliminazione di ostacoli alla stessa potranno pur sempre rilevare qualora, secondo il concreto piano dell'agente, essi costituiscano antecedenti logico-cronologici rispetto alla commissione del delitto in questione[16].
4. In questo contesto di forte contrapposizione teorica, dunque, emerge il problema - dai contorni del tutto pratici - della posizione di una chiara soglia di punibilità per il tentativo. E la sentenza in nota non si esime dal segnare una nuova tappa in questa sfida: nel valorizzare da un lato l'abbandono, nella formulazione dell'art. 56 c.p. 1930, dei termini «cominciamento», «mezzi» ed «esecuzione» per un più opportuno riferimento all'«azione» ed agli «atti», dunque, i supremi giudici confermano la sentenza impugnata, ribadendo la punibilità anche degli atti «prodromici» alla commissione di un delitto. Vale a dire, cioè, di quegli atti che, «sebbene non esecutivi, valutati unitariamente, abbiano l'astratta attitudine a produrre il delitto programmato». Anzi, nella sentenza di cui si tratta, il punto appare segnato a favore dell'ultimo dei suesposti orientamenti, quantomeno nella misura in cui la Corte ha valutato che dall'insieme di atti compiuti dall'agente è conseguita «la rilevante probabilità di conseguire l'obiettivo programmato»: in questo modo, infatti, si è ritenuto che il meccanismo criminoso, ormai ineluttabilmente messo in moto, fosse tale da comportare la sussistenza attuale di un pericolo per gli oggetti giuridici della tutela in grado di legittimare l'irrogazione di una sanzione e che, soprattutto, il soggetto si trovasse ad un punto di non ritorno dall'evento delittuoso perfetto[17].
Ma certamente questa non sarà l'ultima pronuncia in materia. In un panorama così composito e contraddittorio, altri giudici, ed altre sezioni della stessa Cassazione, avranno modo di esprimere la propria adesione ora a questo ora a quell'orientamento: con il risultato che due vicende del tutto simili potrebbero portare il reo ad essere qui assolto e là condannato, ciò dipendendo esclusivamente dal convincimento del giudice per l'uno o per l'altro degli orientamenti in conflitto. Ma non si tratta di una semplice sfida per la supremazia dogmatica, ne va anche del principio della certezza del diritto: è per questa ragione, in ultima analisi, che un pronunciamento dirimente ad opera delle Sezioni Unite, anche se probabilmente non imminente, non sarebbe di certo inopportuno.
[1] A. ROCCO, Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, IV, Roma, 1929, p. 188. Conformemente, B. PETROCELLI, Il delitto tentato, Padova, 1955, pp. 67 ss.; L. SCARANO, Il tentativo, Milano, 1952, pp. 104 ss.; O. VANNINI, Il problema giuridico del tentativo, Milano, 1950, pp. 56 ss.
[2] In questo senso, Cass., Sez. VI, 20 maggio 2008, n. 27323, in CED Cass., n. 240736; Cass., Sez. V, 24 settembre 2009, n. 43255, in CED Cass., n. 245720; Cass., Sez. II, 30 settembre 2009, n. 40702, in CED Cass., n. 245123.
[3] Così G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2009, pp. 472-473. In giurisprudenza, ex plurimis, oltre alla sentenza in epigrafe, Cass., 24 settembre 2008, n. 40058, in CED Cass., n. 241649.
[4] M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, vol. I, Milano, 2004, p. 593.
[5] G. MARINUCCI, E. DOLCINI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2012, pp. 401 ss.
[6] Rilevano ancora G. MARINUCCI, E. DOLCINI, Manuale di diritto penale, cit., p. 402, che ai sensi dell'art. 115 c.p. «accordo ed istigazione non sono punibili se il reato "non è commesso": e nella Relazione al Re (n. 6) si evidenziava che "le espressioni reato commesso, commettere un reato [...] si riferiscono a tutto il processo esecutivo, e quindi anche al tentativo"». Del resto, già B. PETROCELLI, Il delitto tentato, cit., pp. 75 ss., spec. 77, considerava che il limite posto dall'art. 115 concerne le sole incriminazioni di atti preparatori a titolo di delitto tentato: nulla vieta al legislatore di procedere alla creazione di autonomi titoli di reato incriminanti la mera preparazione di un altro delitto.
[7] C. Cost., 22 dicembre 1980, n. 177, in Giur. Cost., 1980, pp. 1535 ss.
[8] Cass., Sez. I, 7 gennaio 2010, n. 9411, in CED Cass. 246620; Cass., 24 settembre 2008, n. 40058, cit.; Cass., Sez. II, 4 luglio 2003, n. 36283, in CED Cass., n. 228310; Cass., Sez. I, 22 ottobre 2001, n. 43406, in CED Cass., n. 220144. Cass., Sez. V, 6 ottobre 1993, n. 9906, in CED Cass., n. 196435.
[9] B. PETROCELLI, Il delitto tentato, cit., pp. 142-143.
[10] B. PETROCELLI, Il delitto tentato, cit., pp. 66 ss.
[11] G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 473.
[12] F. CARRARA, Programma del corso di diritto criminale. Del delitto, della pena, Bologna, 1993, pp. 334 ss.
[13] F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte generale, Padova, 2011, p. 442.
[14] Cass., Sez. II, 5 novembre 2010, n. 41649, in CED Cass., n. 248829; Cass., Sez. III, 28 ottobre 2010, n. 41758, in CED Cass., n. 248703; Cass., Sez. II, 15 giugno 2010, n. 28213, in CED Cass., n. 247680; Cass., Sez. II, 30 settembre 2009, n. 40702, in CED Cass., n. 245123; Cass., Sez. V, 24 settembre 2009, n. 43255, cit.; Cass., Sez. II, 20 marzo 2007, n. 18747, in Cass. pen. 2008, 605.; Cass., Sez. VI, 17 febbraio 2004, n. 23706, in CED Cass., n. 229135; Cass., Sez. III, 3 ottobre 2001, n. 35743, in CED Cass., n. 220286.
[15] È la teoria «materiale-individuale-oggettiva», su cui cfr. M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, cit., pp. 594-595.
[16] Ancora M. ROMANO, Commentario sistematico del codice penale, cit., pp. 595, congegna l'ipotesi in cui, ad esempio, Tizio «insulta ripetutamente un avversario durante la lite e con uno scatto repentino toglie la pistola da un fodero di un poliziotto vicino e si appresta a prendere la mira». Per un esempio di recente decisione in senso analogo, nel caso di un maresciallo dell'esercito che aveva contattato tramite un social network una ragazzina di dodici anni al fine di intrattenere con lei rapporti sessuali, e che in occasione del primo incontro con la vittima era stato arrestato dai carabinieri poco prima che entrambi salissero in auto per appartarsi, cfr. Trib. Milano, G.U.P. M. G. Domanico, 25 ottobre 2011, con nota di M. VIZZARDI, Sull'«adescamento» di minore tramite social network e il tentativo di atti sessuali con minorenne, in questa Rivista.
[17] Quasi a dire, cioè, che il soggetto avesse ormai superato anche le più intime resistenze ed oltrepassato il Rubicone che divide la formazione del proposito criminoso dalla sua traduzione nell'azione tipica: una rottura degli indugi che, per la sua immediatezza geografico-temporale rispetto alla fase che abbiamo visto segnare il vero e proprio inizio dell'esecuzione, non è suscettibile di essere frenata se non dall'intervento di fattori e circostanze del tutto eccezionali rispetto alla valutazione dell'agente (in questo caso, l'«intromissione» dei carabinieri).