ISSN 2039-1676


3 aprile 2013 |

Tentativo di frode in commercio e detenzione di prodotti con marcatura CE contraffatta

Nota a Cass. pen., sez. III, sent. 14 febbraio 2013 (dep. 27 febbraio 2013), n. 9310, Pres. Squassoni, Est. Ramacci, Imp. Battaglia

 

1. Con la sentenza in esame, la terza Sezione della Corte di cassazione è tornata a pronunciarsi sul tema della configurabilità del tentativo nel reato di frode in commercio (art. 515 c.p.), in particolare precisando che integra tale ipotesi delittuosa anche la sola detenzione, presso il magazzino dell'azienda, di articoli merceologici contrassegnati da marcatura CE contraffatta, atteso che tale detenzione è prodromica e univocamente rilevatrice della volontà di immettere nella rete distributiva prodotti che presentano caratteristiche diverse da quelle indicate e prescritte dalla legge.

La Suprema Corte esamina qui il ricorso proposto avverso l'ordinanza con la quale il Tribunale del riesame aveva confermato il provvedimento di sequestro preventivo di una partita di merce recante, in ipotesi d'accusa, marcatura CE contraffatta. In particolare, il ricorrente eccepiva, con un unico motivo di ricorso, la violazione di legge e il vizio di motivazione, sostenendo che nel caso di specie non sarebbe configurabile il delitto di frode in commercio, neppure nella forma del tentativo. L'acronimo CE, secondo il ricorrente, stava d'altra parte a significare «China Export» e, dunque, altro non costituiva se non una corretta informazione circa la provenienza del prodotto. La marcatura CE, inoltre, non avrebbe avuto la funzione di certificare la qualità, origine e provenienza del prodotto, quanto piuttosto quella di attestare la conformità delle merci alle direttive comunitarie e consentire la circolazione delle stesse nel mercato comune. Osservava infine il ricorrente, richiamando la normativa specifica sulla sicurezza dei giocattoli (d.lgs. 11 aprile 2011, n. 54), che l'immissione sul mercato in assenza della marcatura CE sarebbe sanzionata solo in via amministrativa.

La Cassazione respinge il ricorso, confermando integralmente l'ordinanza impugnata.

 

2. Sul piano teorico, il tentativo di frode in commercio è sicuramente configurabile. Si pone il problema, però, di individuare il minimum perché la condotta delineata dall'art. 515 c.p. possa assurgere a rilevanza penale, vale a dire il momento nell'iter criminis a partire dal quale può configurarsi, ai sensi dell'art. 56 c.p., il tentativo del reato di frode in commercio.

L'art. 515 c.p. richiama la condotta di chi, «nell'esercizio di un'attività commerciale, ovvero di uno spaccio aperto al pubblico, consegna all'acquirente una cosa mobile per un'altra, ovvero una cosa mobile, per origine, provenienza, qualità o quantità diversa da quella dichiarata o pattuita».

 

2.1. Secondo un primo orientamento, il reato previsto dall'art. 515 c.p. sarebbe configurabile nella forma del tentativo solo quando tra l'esercente dell'attività commerciale e il potenziale acquirente vi sia stato un effettivo contatto, una contrattazione idonea e diretta in modo non equivoco alla vendita di merce diversa da quella dichiarata o pattuita[1].

Il principale argomento speso a favore di questa interpretazione è di carattere sistematico e deriva dal raffronto con le fattispecie previste nelle norme contigue. Si osserva che quando il legislatore ha inteso anticipare la tutela, colpendo la frode che si annida nella condotta di chi pone in vendita o mette altrimenti in commercio o circolazione un prodotto, lo ha fatto espressamente con gli artt. 516 e 517 c.p. che contengono un'incriminazione sussidiaria, cui è affidato il compito di reprimere penalmente comportamenti che non ricadono nella sfera di efficacia dell'art. 515 c.p., per essere soltanto atti preparatori della frode in commercio.

Secondo un diverso orientamento, invece, integrerebbe il tentativo del delitto di frode in commercio anche la sola esposizione sui banchi di vendita - e, finanche, la detenzione presso l'esercizio commerciale - del prodotto diverso per origine, provenienza, qualità o quantità da quella dichiarata o pattuita[2].

A sostegno di tale interpretazione si è osservato che il deposito nel magazzino del prodotto diverso rappresenterebbe una condotta idonea e diretta in modo non equivoco alla realizzazione del reato di frode in commercio, in quanto tale comportamento sarebbe univocamente rivelatore della volontà dell'esercente di consegnare ai clienti una cosa diversa da quella pattuita.

 

2.2. A dirimere il contrasto interpretativo sono intervenute nel 2000 le Sezioni Unite della Corte di cassazione[3], le quali hanno affermato che, per la configurabilità del reato previsto dall'art. 515 c.p., nella forma del tentativo, non è necessario l'istaurarsi di un rapporto contrattuale, finalizzato all'effettiva consegna di una cosa diversa da quella pattuita, e non è nemmeno sufficiente la sola detenzione, presso l'esercizio commerciale, di merce diversa da quella dichiarata (nel caso di specie, si trattava di prodotti alimentari scaduti sulle cui confezioni era stata modificata l'originale indicazione del termine minimo di conservazione).

Le Sezioni Unite hanno rilevato, in particolare, che nella condotta di chi espone sul bancone di un esercizio commerciale, ovvero detiene, prodotti alimentari scaduti, ma con data di scadenza alterata, non è messo tanto in discussione il requisito della idoneità degli atti, quanto quello della univocità degli stessi. Si è allora precisato che gli atti sono univoci - cioè diretti in modo non equivoco alla commissione di un delitto - quando la condotta, considerata per le sue caratteristiche oggettive, rivela l'intenzione dell'agente, cioè quando, secondo l'id plerumque accidit, non è posta in essere se non per commettere quel dato fatto criminoso.

Muovendo da tale ricostruzione del concetto di univocità degli atti, le Sezioni Unite hanno osservato che «la semplice detenzione all'interno del negozio o di un deposito di prodotti alimentari scaduti e con etichetta alterata o sostituita, senza che questi siano esposti o in qualche modo offerti al pubblico, non integra gli estremi del tentativo»; viceversa «se i prodotti in questione vengono esposti sui banchi dell'esercizio, o sono comunque offerti al pubblico, la condotta posta in essere dall'esercente dell'attività commerciale ... è idonea a dimostrare che la sua intenzione era quella di venderli agli acquirenti che si sarebbero presentati, con conseguente configurabilità del tentativo di frode in commercio».

 

2.3. Nonostante questo autorevole intervento, non sono mancate nella giurisprudenza più recente pronunce che si sono discostate dalla soluzione interpretativa elaborata dalle Sezioni Unite. In alcune decisioni si è ritenuto che, in assenza di una specifica presa di contatto tra venditore e potenziale acquirente, non sarebbe possibile ravvisare gli elementi dell'idoneità degli atti e della univocità della direzione a commettere il delitto[4]. In altre decisioni, invece, si ritenuto che la condotta di semplice detenzione in magazzino di prodotti con caratteristiche diverse da quelle dichiarate o pattuite assurgerebbe a tentativo di frode in commercio, anche in assenza di ulteriori elementi a sostegno di una concreta offerta al pubblico dei prodotti medesimi[5].

La sentenza qui annotata è senza dubbio riconducibile a questo secondo filone giurisprudenziale, in quanto arretra l'inizio della frode punibile al momento della mera detenzione presso l'esercizio commerciale di prodotti con marchio CE contraffatto.

Per la configurabilità del tentativo di frode in commercio - si legge nel provvedimento annotato - non solo non è necessaria la sussistenza di alcuna forma di contrattazione finalizzata alla vendita, ma non è neppure richiesta l'effettiva messa in commercio del prodotto, essendo sufficiente l'accertamento della destinazione alla vendita di un prodotto diverso rispetto a quello pattuito. Sicché, conclude la Corte, configura il delitto previsto dall'art. 515 c.p., nella forma del tentativo, «anche la mera detenzione in magazzino di merce non rispondente per origine, provenienza, qualità o quantità a quella dichiarata o pattuita, trattandosi di un dato pacificamente indicativo della successiva immissione nella rete distributiva di tali prodotti», anche nel caso in cui la merce sia detenuta da un commerciante all'ingrosso.

 

3. In relazione allo specifico caso oggetto del giudizio, la Corte ha poi precisato che l'apposizione di un marchio CE indicativo della locuzione «China Export», lungi dal rappresentare - come prospettato dal ricorrente - una corretta informazione circa la provenienza del prodotto, è condotta astrattamente riconducibile alla fattispecie delittuosa contemplata dall'art. 515 c.p.[6].

La funzione della marcatura CE, infatti, è quella di tutelare l'interesse pubblico della salute e sicurezza degli utilizzatori dei prodotti, assicurandone la conformità alle disposizioni comunitarie che regolano il loro utilizzo. Detta marcatura, quindi, costituisce una garanzia della qualità e della sicurezza della merce che viene venduta e acquistata. Ne consegue che la consegna di merce recante il marchio CE contraffatto determina indubbiamente quella divergenza qualitativa che è necessaria per configurare l'illecito penale di frode in commercio previsto dall'art. 515 c.p.

 

4. La Corte, infine, ha escluso che nel caso di specie possa trovare applicazione la nuova normativa in materia di etichettatura, introdotta dal d.lgs. 11 aprile 2011, n. 54, recante «Attuazione della direttiva 2009/48/CE sulla sicurezza dei giocattoli», che ha depenalizzato la condotta di immissione in commercio, vendita e distribuzione di giocattoli privi del marchio CE[7].

In particolare, il nuovo testo normativo, richiamato dal ricorrente, prevede l'applicazione di sanzioni amministrative, «salvo che il fatto costituisca reato», per «il fabbricante o l'importatore che immette sul mercato un giocattolo privo della marcatura CE» (art. 31 co. 4) e per «il distributore che mette a disposizione sul mercato un giocattolo privo di marcatura CE» (art. 31 co. 7).

La Corte ha escluso la sussistenza di un rapporto di specialità tra le violazioni amministrative appena richiamate e il reato di frode in commercio; in primo luogo, perché la norma amministrativa riguarda fattispecie diverse dalla contraffazione del marchio, prendendo in considerazione la mera mancanza del marchio medesimo; e in secondo luogo, perché le violazioni amministrative sono applicabili, per espressa disposizione legislativa, salvo che il fatto costituisca reato.

 

 


[1] In questo senso cfr. Cass., sez. III, 13 ottobre 1994 (dep. 10 novembre 1994), n. 11258, Pres. Cavallari, Est. Novarese, Imp. Fiorito, CED 200393; Cass., sez. VI, 10 gennaio 1990 (dep. 24 maggio 1990), n. 7239, Pres. Accinni, Est. Stincardini, Imp. Lanuara, CED 184389.

[2] Questo secondo orientamento era quello prevalente in giurisprudenza: cfr., tra le altre, Cass., sez. III, 3 novembre 1999 (dep. 13 dicembre 1999), n. 14161, Pres. Pioletti, Est. De Maio, Imp. Tedaldi, CED 214918; Cass., sez. VI, 13 aprile 1992 (dep. 26 giugno 1992), n. 7446, Pres. Perrotti, Est. Fattori, Imp. Esposito, CED 190892.

[3] Cass., Sez. Un., 25 ottobre 2000 (dep. 21 dicembre 2000), n. 28, Pres. Vessia, Est. Sirena, Imp. Morici, CED 217295.

[4] In questo senso cfr. Cass., sez. III, 25 settembre 2002 (dep. 8 novembre 2002), n. 37569, Pres. Toriello, Est. De Maio, Imp. Silvestro, CED 222556.

[5] Anche dopo l'intervento delle Sezioni Unite, questo è l'indirizzo interpretativo prevalente: cfr., tra le più recenti, Cass., sez. III, 28 ottobre 2010 (dep. 25 novembre 2010), n. 41758, Pres. Ferrua, Est. Lombardi, Imp. Mistroni, CED 248703; Cass., sez. III, 18 dicembre 2008 (dep. 26 gennaio 2009), n. 3479, Pres. Altieri, Est. Lombardi, Imp. Urbani, CED 242288; Cass., sez. III, 5 novembre 2008 (dep. 16 gennaio 2009), n. 1454, Pres. De Maio, Est. Marmo, Imp. Frescobaldi, CED 242263; Cass., sez. III, 9 luglio 2004 (dep. 8 settembre 2004), n. 36056, Pres. Dell'Anno, Est. Sarno, Imp. Botindari, CED 229480.

[6] Nello stesso senso, proprio in relazione ad un caso di apposizione di marchio CE contraffatto, indicativo della locuzione «China Export», cfr. Cass., sez. III, 21 aprile 2010 (dep. 16 luglio 2010), n. 27704, Pres. Onorato, Est. Fiale, Imp. Amato, CED 248133.

[7] Per un primo commento alla nuova normativa si veda il contributo di A. Scarcella pubblicato in questa Rivista.