ISSN 2039-1676


18 giugno 2012 |

La Cassazione sulla tutela penale del Made in Italy

Nota a Cass. pen., sez. III,  27.01.2012 (dep. 24.05.2012), n. 225, Pres. Mannino, Rel. Fiale,  Ric. B. (l'utilizzo della dicitura 'made in Italy', anche unitamente al marchio, su semilavorati realizzati interamente all'estero integra il reato previsto dagli artt. 517 c.p. e  4, comma 49 l. n. 350/2003)

1. Con la sentenza che si annota la terza sezione della Corte di  cassazione  torna ad occuparsi dei limiti di liceità dell'utilizzo della dicitura made in Italy sui prodotti industriali.

 

2. L'utilizzo illecito della stampigliatura made in Italy o di segni che possano indurre i consumatori a considerare come fabbricato in Italia un prodotto realizzato all'estero costituisce una forma di contraffazione che, per le particolari dimensioni assunte, è in grado di pregiudicare interessi individuali  e superindividuali. Da un lato, l'apposizione dell'etichetta made in Italy su un prodotto realizzato fuori dal territorio nazionale può pregiudicare la fiducia e  la libertà di scelta del consumatore finale, soprattutto in settori produttivi, come quello tessile, calzaturiero e della pelletteria, nei quali la fabbricazione nazionale del prodotto costituisce garanzia di elevati standard di qualità. Dall'altro lato, il diffondersi della contraffazione dell'etichetta made in Italy incide negativamente sull'economia pubblica. In particolare, essa pregiudica la produzione nazionale, e segnatamente le imprese che hanno mantenuto gli stabilimenti produttivi all'interno del territorio nazionale, sopportando elevati costi di produzione proprio per garantire ai prodotti quei particolari standard qualitativi e di sicurezza, che li rendono competitivi sul mercato globale.

 

3. Ebbene, la sentenza suscita interesse sia perché individua i limiti entro i quali è possibile utilizzare la dicitura made in Italy sui prodotti industriali sia perché offre l'occasione per riflettere sulla complessa e stratificata disciplina penale delle indicazioni di origine dei prodotti industriali.

 

4. Nel caso sottoposto al vaglio della Cassazione la stampigliatura made in Italy era stata apposta su semilavorati del settore calzaturiero, e segnatamente su  gambaletti e (unitamente al marchio) su solette, prodotti in Romania e destinati ad essere assemblati in Italia per la realizzazione di scarpe e stivali. Avverso l'ordinanza di conferma del sequestro probatorio della merce, emessa dal Tribunale di Gorizia, che aveva ritenuto configurabile il reato di cui all'art. 517 c.p., in quanto le merci sequestrate non potevano essere considerate di origine italiana ai sensi della normativa europea sull'origine (e segnatamente del Regolamento CEE n. 2913/1992 che ha istituito il Codice doganale comunitario), veniva proposto ricorso per cassazione adducendo: a) che il Regolamento CEE n. 2913/92 è stato sostituito dal Regolamento CE n. 450/2008; b) la mancata applicazione della legge 8 aprile 2010 n. 55, che consente l'impiego della dicitura made in Italy su  prodotti finiti per i quali almeno due fasi della lavorazione abbiano avuto luogo prevalentemente in Italia.

In effetti, il ricorrente osserva che le merci sequestrate costituiscono semilavorati destinati ad essere assemblati in Italia per la realizzazione di prodotti finiti per la fabbricazione dei quali tre fasi della lavorazione sarebbero dovute avvenire nel territorio nazionale: e segnatamente concia del pellame, assemblaggio e rifinizione. 

La Corte di cassazione rigetta il ricorso.

 

5.   La Cassazione giunge alla decisione dopo avere ripercorso la criptica disciplina penale del made in Italy e fissato alcuni punti fermi: a) l'imprenditore nazionale che delocalizza la produzione all'estero può apporre il proprio marchio sulla merce prodotta all'estero, in quanto il marchio non indica la provenienza della merce da un determinato luogo di fabbricazione bensì la sua provenienza da un determinato imprenditore che si rende garante della qualità del prodotto nei confronti degli acquirenti (cfr. Cass. pen., sez. III, 19 aprile 2005, n. 34103, Tarantino; Cass. pen., sez. III, 17 febbraio 2005, Acanfora, n. 13712; Cass. pen., sez. III, 28 settembre 2008, Parentini, n. 166); b) in caso di utilizzo ingannatorio del marchio, in mancanza di indicazioni precise ed evidenti sulla origine o provenienza estera, o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull'effettiva origine del prodotto, si configura l'illecito punitivo amministrativo previsto dall'art. 4 comma 49bis della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Finanziaria per il 2004) e non un illecito penale; c) qualora, accanto al proprio marchio o all'indicazione della località in cui ha sede, l'imprenditore utilizzi la dicitura made in Italy o altri segni o simboli che attestino falsamente che il prodotto è stato fabbricato in Italia o in un Paese diverso da quello di effettiva fabbricazione si possono configurare i delitti previsti dall'art. 4 comma 49 della l. n. 350/2003 e dall'art. 517 c.p.; d) la disciplina europea sull'origine - richiamata dall'art. 4 comma 49 della l. n. 350/2003 - è costituita dal Codice doganale comunitario, adottato con Regolamento CE n. 450/2008,  secondo il quale nel caso in cui alla produzione  della merce abbiano contribuito due o più Paesi, la merce si considera originaria del Paese dove è avvenuta l'ultima lavorazione/trasformazione sostanziale, purché sussistano cumulativamente le condizioni che tale trasformazione/lavorazione sostanziale sia economicamente giustificata, effettuata da un'impresa  attrezzata a tale scopo e si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia  rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione (cfr. Cass. pen., sez. III, 9 febbraio 2010, F., n. 19746); e) la l. n. 55/2010 - che introduce un sistema di etichettatura obbligatoria dei prodotti finiti ed intermedi nel settore tessile, calzaturiero e della pelletteria, presidiato da sanzioni amministrative e penali - all'art. 1 comma 4 stabilisce che la dicitura made in Italy può essere apposta esclusivamente  sui  prodotti finiti per i quali le fasi di lavorazione, definite dagli artt. 5, 6, 7, 8 e 9, "hanno avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale e in particolare  se almeno due delle fasi di lavorazione per ciascun settore sono state eseguite nel territorio medesimo e se per le rimanenti fasi è verificabile la tracciabilità".

 

6. Sulla base di questo quadro normativo,  la Cassazione afferma che l'utilizzo della dicitura made in Italy (anche unitamente al marchio) su semilavorati realizzati interamente all'estero integra il reato previsto dagli artt. 517 c.p. e  4 comma 49 della l. n. 350/2003.

 

7. La decisione della Cassazione è sostanzialmente condivisibile. Anzitutto, i semilavorati sui quali è stata apposta la dicitura made in Italy, ancorché destinati ad essere assemblati in Italia in prodotti finiti, sono stati fabbricati interamente all'estero. Conseguentemente essi  non possono essere considerati originari dell'Italia in base alla disciplina comunitaria sull'origine richiamata dall'art. 4 comma 49 della l. n. 350/2003, visto che sia il Regolamento CEE n. 2913/1992 (istitutivo del Codice doganale comunitario) quanto il Regolamento CE n. 450/2008 (istitutivo del Codice doganale comunitario aggiornato) prevedono che: a) le merci interamente ottenute in un unico Paese o territorio sono considerate originarie di tale Paese o territorio; b) le merci alla cui produzione hanno contribuito due o più Paesi o territori sono considerate originarie del Paese o territorio in cui hanno subito l'ultima trasformazione o lavorazione sostanziale. Pertanto, nel caso in esame risulta integrato il delitto previsto dall'art. 4 comma 49 della l. n. 350/2003, che sanziona, ai sensi dell'art. 517 c.p., l'utilizzo di diciture che indicano la provenienza italiana di prodotti non originari dell'Italia ai sensi della normativa europea sull'origine. A questo proposito, contrariamente a quanto pare ritenere la Corte, va detto che gli artt.  517 c.p. e 4 comma 49 della l. n. 350/2003 non configurano un unico reato bensì due delitti distinti,  tra i quali quello previsto dalla l. n. 350/2003 è destinato a prevalere in considerazione della clausola di riserva di cui all'art. 517 c.p.

In secondo luogo, i semilavorati prodotti in Romania non potrebbero neppure  essere considerati originari dell'Italia in base alla più recente disciplina nazionale sull'etichettatura dei prodotti tessili, calzaturieri e della pelletteria, prevista dall'art. l comma 4 della l. n. 55/2010, secondo la quale essi possono essere considerati originari dell'Italia a condizione che abbiano subito nel nostro territorio almeno due fasi di lavorazione. A questo proposito, va comunque osservato  come l'effettiva applicabilità della l. n. 55/2010 (e dei criteri di individuazione dell'origine italiana dei prodotti tessili, della pelletteria e calzaturieri da essa previsti) sia alquanto problematica. Anzitutto, perché la legge n. 55/2010 è stata approvata senza la preventiva comunicazione alla Commissione europea, come stabilito dalla direttiva europea n. 34 del 22 giugno 1998, che impone agli Stati membri di comunicare  alla Commissione i progetti di "regole tecniche". In secondo luogo, perché mancano i necessari decreti attuativi previsti dall'art. 2 (cfr. la Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 30 settembre 2010 n. 49403  e la Circolare dell'Agenzia delle dogane del 22 settembre 2010, n. 119919), che difficilmente  potranno essere emanati, visto che, come ha rilevato la Commissione europea (cfr. Comunicazione della Direzione generale, impresa e industria della Commissione europea inviata nel luglio 2010 all'Ambasciatore italiano a  Bruxelles), la disciplina dell'etichettatura che dovrebbero attuare è in contrasto coi principi comunitari. Ed infatti, secondo la Corte di giustizia è incompatibile con il mercato unico e con il principio di libera circolazione delle merci la previsione  da parte degli Stati membri dell'obbligo di marchiatura di origine per le merci importate, quando l'origine territoriale non implichi una particolare qualità del prodotto come per i prodotti a D.O.P. e a I.G.P. in cui la qualità è strettamente legata all'ambiente in cui il prodotto viene realizzato (cfr. CGiustCE, sent. 17 giugno 1981, Causa 113/80, Commissione c/Irlanda, in Racc., 1981, p. 1625). In terzo luogo, perché i criteri di individuazione dell'origine italiana dei prodotti tessili, della pelletteria e calzaturieri, previsti dall'art. 1 comma 4, sono diversi da quelli stabiliti dalla normativa comunitaria sull'origine. Ed infatti, come si è visto prima,  mentre secondo la l. n. 55/2010 possono considerarsi di origine italiana i prodotti che hanno subito almeno due fasi di lavorazione nel nostro territorio, il Codice doganale comunitario per individuare l'origine dei prodotti fa riferimento al criterio dell'ultima trasformazione/lavorazione sostanziale.

 

8. Ebbene, la disciplina penale del made in Italy, oltre a mettere in evidenza i limiti della spregiudicata tecnica legislativa adottata dal legislatore penale in questo particolare settore, pare problematica anche sul piano politico-criminale. In particolare,  la  disciplina penale delineata dall'art. 4 comma 49 della l. n. 350/2003 e dalla più recente l. n. 55/2010 non pare appagante sia nella prospettiva della tutela del consumatore che del sistema produttivo nazionale. Ed infatti, le istanze di tutela del consumatore difficilmente possono essere soddisfatte appieno circoscrivendo l'obbligo di indicazione di origine del prodotto solamente alle ipotesi di utilizzo ingannatorio del marchio. A questo proposito, può essere utile ricordare che  il legislatore, con l'art. 17 comma 4 della legge n. 99 del 23 luglio 2009 (Disposizioni per lo sviluppo e l'internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia), novellando il testo dell'art. 4 comma 49 della l. n. 350/2003,  aveva sanzionato penalmente anche l'uso di marchi di aziende italiane su prodotti o merci  non originari dell'Italia ai sensi della normativa europea sull'origine senza l'indicazione precisa, in caratteri evidenti, del Paese o del luogo di fabbricazione o di produzione, o altra indicazione sufficiente ad evitare qualsiasi errore  sulla loro effettiva origine estera. Con la conseguenza che l'imprenditore italiano che delocalizzava la produzione industriale all'estero e che voleva apporre il proprio marchio sul prodotto era tenuto ad indicare anche l'origine estera del prodotto. Sennonché, questa  disposizione si poneva in plateale contrasto coi principi comunitari, e segnatamente con il divieto di adottare normative o misure che ostacolino direttamente o indirettamente i liberi scambi intracomunitari. Pertanto, il legislatore, a distanza di appena due mesi, con l'art. 16 del d.l. (c.d. salva infrazioni) n. 135 del  25.9.2009, convertito in l. 20.11.2009 n. 166, abrogò l'art. 17 comma 4 della l. n. 99/2009 e inserì, nel contesto dell'ormai martoriato art. 4 della l. n. 350/2003, il comma 49bis, che punisce in via amministrativa l'uso ingannatorio dei marchi d'impresa, ovvero la condotta dell'imprenditore nazionale che si limita ad apporre sulla merce il proprio marchio e/o la propria ragione sociale, sfruttando maliziosamente l'ignoranza dei consumatori circa le strategie imprenditoriali utilizzate dalla propria impresa, senza indicazioni precise ed evidenti sulla origine estera o comunque idonee ad evitare errori da parte dei consumatori.

Quanto alle istanze protezionistiche di tutela degli imprenditori nazionali che non delocalizzano la produzione e mantengono gli stabilimenti produttivi in Italia, esse difficilmente possono essere soddisfatte sul piano nazionale attraverso una legge che, in modo - per così dire - "autarchico",  impone l'etichettatura di determinate tipologie di  prodotti. Piuttosto, per tutelare in modo reale ed effettivo la produzione nazionale occorre muoversi sul piano comunitario attraverso misure in grado di garantire ai prodotti fabbricati interamente in Italia un sufficiente livello di competitività non solo sul mercato nazionale ma soprattutto su quello europeo di fronte alla concorrenza (non sempre leale) dei Paesi emergenti come la Cina e l'India.

In realtà, è fin troppo evidente che i limiti e in qualche caso le bizzarrie  della disciplina penale del made in Italy, oltre ad essere legati all'effettiva difficoltà di trovare un punto di equilibrio tra istanze protezionistiche e comunitarie nel mercato globalizzato, dipendono fondamentalmente dal tentativo di supplire con lo strumento penalistico  all'assenza  di un'efficace strategia di tutela del made in condivisa al livello comunitario e quindi dalla incapacità del legislatore di resistere alla tentazione di utilizzare il diritto penale come  "succedaneo" di vere e proprie politiche economiche "globali", realmente efficaci ma evidentemente  più  difficili da attuare.