ISSN 2039-1676


16 settembre 2012 |

Sulla configurabilità  del tentativo di rapina impropria in ipotesi di mancata sottrazione della res

Note a margine di Cass., Sez. Un., 19 aprile 2012 (dep. 12 settembre 2012), n. 34952, Pres. Lupo, Est. Fiandanese, ric. Reina

1. Con la sentenza che può leggersi in allegato le S.U. si pronunciano su un'annosa controversia, che da tempo divide dottrina e giurisprudenza. La questione rimessa alle S.U. è la seguente: "se sia configurabile il tentativo di rapina impropria, o se invece debba ritenersi il concorso tra il tentativo di furto con un reato di violenza o minaccia, nel caso in cui l'agente, dopo aver compiuto atti idonei diretti all'impossessamento della cosa altrui, non portati a compimento per fatti indipendenti dalla sua volontà, adoperi violenza o minaccia nei confronti di quanti cerchino di ostacolarlo, per assicurarsi l'impunità".

Questo il caso oggetto del giudizio: due uomini si introducono in un appartamento per realizzare un furto, che non riescono a consumare perché, nel frattempo, entra nell'abitazione la proprietaria, nei cui confronti gli stessi adoperano violenza e minaccia per guadagnare la fuga e l'impunità (uno dei correi mette una mano sulla bocca della vittima per non farla gridare, mentre l'altro la tiene ferma da dietro). Orbene, nell'ipotesi - come di quella specie - in cui un tentativo di furto sfocia in violenza o minaccia finalizzate all'impunità l'agente deve rispondere:

a) di furto tentato, in concorso con il delitto di minaccia o con gli altri delitti contro la persona integrati dalla violenza (ad es., percosse, lesioni personali), ovvero;

b) di tentata rapina impropria ai sensi dell'art. 628, co. 2 c.p., che equipara quoad poenam alla rapina propria il fatto di "chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l'impunità"?

 

2. La rapina 'impropria', come è noto, si configura allorché l'agente usa la violenza o la minaccia non già come mezzo per impossessarsi della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene (come nella rapina 'propria'), bensì - "immediatamente dopo la sottrazione" - come mezzo per assicurarsi il possesso della cosa sottratta ovvero per procurare a sé o ad altri l'impunità. Nella rapina propria, dunque, la violenza e la minaccia sono precedenti o concomitanti rispetto alla sottrazione; nella rapina impropria sono invece successive rispetto alla sottrazione.

Premesso che la rapina impropria è un reato complesso (furto più minaccia o altro delitto contro la persona, integrato dalla violenza), e che il tentativo postula l'inizio d'esecuzione della condotta tipica, va da subito segnalato che mentre non è controversa la configurabilità della tentata rapina impropria nell'ipotesi in cui, realizzata la sottrazione (la 'prima parte' del reato) l'agente tenti di (cioè cominci ad) usare violenza o minaccia per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o l'impunità, è invece controverso - come dimostra da ultimo la rimessione della questione alle S.U. - se sia configurabile un tentativo di rapina impropria qualora l'agente, con le predette finalità, adoperi violenza o minaccia senza aver precedentemente sottratto la res (cioè senza aver realizzato la 'prima parte del reato' complesso di cui sui tratta), non essendovi riuscito per cause a lui non imputabili. E' dunque sufficiente, per la configurabilità del tentativo, che l'agente realizzi la 'seconda parte' del reato complesso di rapina impropria?

 

3. Da tempo, come si accennava, le rispettive posizioni della dottrina e della giurisprudenza sono contrapposte:

a) la dottrina maggioritaria nega la configurabilità del tentativo di rapina impropria nel caso che ci occupa;

b) la giurisprudenza maggioritaria, al contrario, ne ammette la configurabilità.

Solo in anni recenti (a partire da Cass., Sez. V, 12.7.1999, n. 3796, Jovanovic, CED 215102) si è fatto strada, nella giurisprudenza di legittimità, un orientamento minoritario concorde con la posizione della dottrina maggioritaria.

Proprio l'affermazione di un simile orientamento ha occasionato la rimessione della questione alle Sezioni Unite, che, con la sentenza allegata, ribadiscono l'orientamento maggioritario della giurisprudenza: affermano la configurabilità del tentativo di rapina impropria anche in difetto della sottrazione della cosa mobile altrui e, così facendo, confermano sul punto la discrasia tra dottrina e giurisprudenza, con una decisione che certo non mancherà di alimentare il dibattito sull'annosa controversia. D'altra parte, se è vero che la sentenza allegata si discosta nelle conclusioni dalle tesi maggioritarie in dottrina, è anche vero che con quelle tesi (sposate dalla giurisprudenza minoritaria) si confronta ampiamente, dando vita a un ideale dialogo con la dottrina, tutt'altro che frequente nei nostri provvedimenti giudiziali.

 

4. L'articolata motivazione della sentenza si regge su una serie di obiezioni alle critiche mosse - dalla dottrina - alla tesi della configurabilità del tentativo di rapina impropria anche nel caso in cui non venga portata a compimento la sottrazione della cosa mobile altrui. Di tali critiche, e delle obiezioni delle S.U., daremo conto di seguito in forma sintetica, senza rinunciare a qualche riflessione critica 'a caldo' e rinviando, per più meditate e ampie considerazioni attorno alla complessa decisione, a contributi che la nostra Rivista non mancherà di ospitare in futuro.

 

4.1. Argomento letterale. - La tesi che nega la configurabilità del tentativo fa tradizionalmente leva, anzitutto, sulla lettera dell'art. 628, co. 2 c.p.: violenza e la minaccia devono essere esercitate immediatamente "dopo la sottrazione". Diversamente, esse assumono rilevanza autonoma (percosse/lesioni, o minaccia), e possono concorrere con il furto tentato, integrato dal tentativo di impossessamento della res.

Le S.U. muovono tre obiezioni a questo argomento letterale:

a) La lettera della legge non precluderebbe la configurabilità del tentativo: si limiterebbe infatti a sottolineare, nel contesto di un reato complesso, il "nesso di contestualità dell'azione complessiva posta in essere", cioè delle aggressioni al patrimonio e alla persona, "indipendentemente dall'essere quelle stesse condotte consumate o tentate".

A noi pare, tuttavia, che si possa contro-obiettare che la lettera della legge, più che limitarsi a sottolineare la contestualità delle condotte in esame, scandisce un preciso ordine logico e cronologico: un prima (sottrazione) e un dopo (violenza o minaccia).

b) Proprio la lettera della legge, secondo le S.U., deporrebbe a favore della configurabilità del reato, nella forma tentata, anche in assenza di una previa sottrazione della res. La finalità di assicurarsi il possesso è posta in alternativa a quella di procurarsi l'impunità: quest'ultima finalità, dunque, potrebbe sussistere "anche senza previa sottrazione". Il concetto di "sottrazione" ("dopo la sottrazione") abbraccerebbe infatti "tutte le fasi in cui essa in concreto si manifesta, e quindi da quella iniziale del tentativo di impossessamento a quello finale dell'impossessamento della cosa che ne è oggetto").

E' una tesi che non ci persuade: sembra mettere tra parentesi il dato letterale, da una parte, e - sulla scia di un consolidato orientamento della giurisprudenza - la distinzione (e l'autonomia) tra i concetti di impossessamento e sottrazione, dall'altra parte. Ed infatti, da un lato resta il fatto che la lettera della legge richiede che la minaccia e la violenza finalizzate a procurarsi l'impunità siano realizzate "dopo la sottrazione"; dall'altra parte, la sottrazione (cioè la privazione della disponibilità materiale della cosa nei confronti del rapinato) è un prius rispetto  a (e un mezzo per realizzare) l'impossessamento (cioè l'acquisizione di autonoma disponibilità della cosa da parte dell'agente, al di fuori della diretta vigilanza di chi abbia su di essa un potere giuridico maggiore); al concetto di "sottrazione" non ci sembra dunque riconducibile l'impossessamento. Ci sembra che lo dimostri tra l'altro - e proprio - la stessa lettera della legge invocata dalle S.U., allorché si riferisce all'ipotesi della minaccia e della violenza mosse dalla finalità di procurarsi il "possesso", dopo che è stata posta in essere la "sottrazione". E d'altra parte, ancora, pare difficile sostenere la tesi delle S.U. se si pensa a come, descrivendo la rapina propria, il legislatore si sia riferito a impossessamento e sottrazione - abbia cioè mostrato di considerare i due concetti come diversi - e a come invece, nel descrivere la rapina impropria, si sia riferito al solo concetto di sottrazione.

c) Le S.U., ancora, ricordano come, in dottrina, a sostegno dell'argomento letterale di cui si è detto sub a), sia stato invocato il divieto di analogia per escludere la configurabilità del tentativo di rapina impropria in assenza dell'avvenuta sottrazione della cosa altrui. Si tratterebbe di un'argomentazione "suggestiva"; le S.U. replicano infatti ricordando come il principio di legalità trovi fondamento, oltre che nella Costituzione, nell'art. 7 Cedu, ove ad esso - secondo la giurisprudenza di Strasburgo - si ricollegano i valori della accessibilità della norma penale violata (accessibility) e della prevedibilità della sanzione (foreseeability), "accessibilità e prevedibilità che si riferiscono non alla semplice previsione della legge, ma alla norma 'vivente' quale risulta dalla applicazione e dalla interpretazione dei giudici; pertanto la giurisprudenza viene ad assumere un ruolo decisivo nella precisazione del contenuto e dell'ambito applicativo del precetto penale". La prevedibilità del risultato interpretativo è dunque criterio decisivo per stabilire il rispetto del principio di legalità e "non vi è dubbio" - concludono le S.U. - che nel caso di specie quel principio sia rispettato, atteso che nel senso della configurabilità del tentativo di rapina impropria, nonostante l'assenza di una previa sottrazione della res, si esprime una giurisprudenza "granitica per molti decenni, fino alla pronuncia di alcune sentenze difformi".

Anche questa obiezione delle S.U. non ci persuade. Anzitutto, invocando in questa sede l'art. 7 Cedu a fronte di una lamentata violazione del divieto di analogia ci sembra che le S.U. trascurino un'altra disposizione fondamentale della Cedu: l'art. 53, ai sensi del quale nessuna disposizione della Convenzione "può essere interpretata in modo da limitare o pregiudicare i diritti dell'uomo e le libertà fondamentali" riconosciute dagli ordinamenti nazionali. La garanzia della riserva di legge e del divieto di analogia, che fa di ogni spazio non disciplinato dalla 'legge' del Parlamento uno spazio libero dal diritto penale, non può essere frustrata invocando un preteso ruolo della giurisprudenza quale fonte del diritto, capace di riempire le lacune dell'ordinamento. Vi è di più: a noi pare, se non vediamo male, che la tesi delle S.U. si possa addirittura prestare a legittimare violazioni del divieto di analogia da parte della giurisprudenza. Un granitico 'diritto vivente' che propugni un'interpretazione analogica della legge penale consentirebbe la 'prevedibilità' del risultato interpretativo e, pertanto, sarebbe conforme alla riserva di legge: un risultato all'evidenza paradossale!

D'altra parte, e ad abundantiam, anche a voler ragionare sul piano delle S.U., si può dubitare che, nel caso di specie, a venire in rilievo sia un risultato interpretativo normalmente prevedibile: lo dimostra la stessa rimessione alle S.U. della questione di cui si discute, e dunque l'esistenza di un orientamento giurisprudenziale difforme che, come ricordano le S.U., per quanto minoritario annovera pur sempre ben sei pronunce della Cassazione dal 1999 ad oggi (oltre che svariate decisioni di merito).

 

4.2. 'Sottrazione' come presupposto (e non già elemento) della condotta. - Si sostiene poi in dottrina, a sostegno della tesi che nel caso in esame nega la configurabilità del tentativo di rapina impropria, che la sottrazione del bene avrebbe natura di presupposto della condotta; con la conseguenza che il tentativo sarebbe configurabile solo in relazione agli elementi del fatto tipico inquadrabili nella condotta (la minaccia e la violenza, poste in essere dopo che è venuto ad esistenza il presupposto della sottrazione del bene). Le S.U., con un'articolata e persuasiva argomentazione, criticano la tesi anzidetta e sostengono che la 'sottrazione', in quanto condotta a carattere consapevole e illecito posta in essere dallo stesso agente, non è un presupposto della condotta. Lo dimostra, d'altra parte, la natura di reato complesso (e a formazione progressiva) della rapina: sottrazione, da una parte, violenza e minaccia (finalisticamente orientate al possesso o all'impunità), dall'altra parte, sono, unitariamente considerate, la condotta incriminata, che identifica la rapina impropria come specifica forma di offesa al patrimonio e alla persona.

Diremo a breve, peraltro, come a nostro parere escludere (a ragione) che la 'sottrazione' abbia natura di presupposto della condotta non legittimi la soluzione accolta dalle S.U. in ordine alla configurabilità del tentativo.

 

4.3. Tentativo e reato complesso. Contro la configurabilità del tentativo, nell'ipotesi in esame, si afferma in dottrina che il tentativo di un reato complesso è configurabile a due condizioni alternative:

a) la porzione della condotta compiutamente realizzata è quella che la norma richiede sia realizzata per prima (nel nostro caso, la sottrazione del bene);

b) è indifferente l'ordine logico di realizzazione delle condotte (il che non può dirsi nel caso della rapina impropria).

A questa tesi le S.U., con un'articolata argomentazione alla quale si rinvia (cfr. il punto 9 della motivazione in diritto), ne oppongono altra, secondo la quale si avrebbe tentativo di reato complesso sia quando non sia stata ancora raggiunta la compiutezza né dell'una né dell'altra condotta, sia quando (come nel caso che ci occupa) sia stata raggiunta la consumazione dell'una (violenza/minaccia) e non dell'altra (sottrazione della cosa).

Rinviando ad altra sede più meditate riflessioni, ci sembra vada sottolineato, contro la tesi delle S.U., che la rapina impropria si caratterizza come reato complesso a formazione progressiva. Ancora una volta occorre tornare alla lettera della legge: il fatto tipico consiste nella violenza o minaccia poste in essere immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare il possesso del bene o garantire l'impunità all'agente. La condotta tipica, pertanto, consiste in atti di violenza o minaccia, così finalisticamente orientati, posti in essere dopo l'avvenuta sottrazione del bene, con la correlata offesa al patrimonio. In difetto di una simile successione temporale delle condotte (sottrazione - violenza/minaccia) non è integrata la figura della rapina impropria. Se così è, ne consegue - a nostro parere - che il tentativo del reato complesso e a formazione progressiva di rapina impropria richiede che siano posti in essere atti che rappresentino l'inizio dell'esecuzione della condotta tipica; che l'agente abbia cioè iniziato a esercitare minaccia o violenza nei confronti della vittima, dopo aver realizzato la sottrazione del bene.

 

4.4. Ragioni politico-criminali. La tesi contraria alla configurabilità del tentativo di rapina impropria, in difetto della sottrazione del bene, fa infine leva su un argomento sostanziale: il trattamento severo della rapina impropria (l'equiparazione quoad poenam alla rapina propria) si giustifica a condizione che non venga mai meno l'aggressione al patrimonio altrui. A questa tesi le S.U. replicano che il particolare disvalore della rapina impropria dipende dal legame strutturale e, in particolare finalistico, tra le offese al patrimonio e alla persona; legame che non viene meno anche se l'offesa al patrimonio non si è compiutamente realizzata, perché l'agente ha posto in essere un mero tentativo di sottrazione.

L'argomento delle S.U., qui sinteticamente compendiato, ci sembra persuasivo ma non anche risolutivo: è indubbiamente vero che un'offesa al patrimonio, accompagnata a un'offesa alla persona si realizza anche in caso di mero tentativo di sottrazione del bene, seguito da minaccia o violenza; è altresì vero, tuttavia, se non vediamo male, che l'art. 628, co. 2 c.p., anche combinato con l'art. 56 c.p., richiede la compiuta sottrazione del bene (cioè l'offesa al patrimonio nella forma più grave, della lesione), accompagnata da minaccia o violenza (consumate o anche solo tentate). Nella rapina impropria, consumata o tentata, l'offesa al patrimonio deve essere sempre realizzata, e ad essa si aggiunge l'offesa (consumata o tentata) alla persona: di qui il grave disvalore del fatto tipico, che giustifica, agli occhi del legislatore, la grave pena comminata per la rapina propria.