17 gennaio 2013 |
La Corte costituzionale sul diritto dei detenuti all'affettività ed alla sessualità
Corte cost., 19 dicembre 2012, n. 301, Pres. Quaranta, Rel. Frigo
1. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 301 del 2012, ha dichiarato l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'articolo 18, secondo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà personale), nella parte in cui prevede il controllo visivo del personale di custodia sui colloqui dei detenuti e degli internati, in tal modo impedendo loro di avere rapporti affettivi intimi, anche sessuali, con il coniuge o con la persona ad essi legata da uno stabile rapporto di convivenza. Pur risolvendosi in una dichiarazione di inammissibilità, la sentenza merita di essere segnalata sia per quanto è ribadito in relazione ai requisiti delle ordinanze di rimessione e, di conseguenza, in ordine alla "tipologia" delle sentenze emesse dalla Corte, sia per quanto è, di fatto, statuito "nel merito".
2. Alla luce di tale premessa, è opportuno ripercorrere le argomentazioni svolte dal rimettente a sostegno delle censure.
Il Magistrato di sorveglianza di Firenze ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, nei termini sopra indicati, ritenendo la violazione, da parte della disposizione censurata, degli artt. 2, 3, primo e secondo comma, 27, 29, 31 e 32 della Costituzione.
In particolare, secondo il rimettente, il diritto del detenuto in carcere ad avere rapporti sessuali con il coniuge o con il convivente more uxorio, nel più ampio contesto del diritto all'affettività, sarebbe ricompreso tra i diritti inviolabili dell'uomo: diritti che, sebbene ricevano limitazioni per effetto della condizione di restrizione della libertà personale, non possono essere annullati. Ciò sarebbe, peraltro, affermato in alcune raccomandazioni del Consiglio d'Europa e in alcuni atti dell'Unione europea [si tratta della Raccomandazione n.1340 (1997) dell'Assemblea generale sugli effetti sociali e familiari della detenzione, della Raccomandazione R(2006) 2 del Comitato dei ministri, sulle regole penitenziarie europee, ed ancora della Raccomandazione del Parlamento europeo n. 2003/2188 (INI) del marzo 2004, sui diritti dei detenuti nell'Unione europea].
La preclusione posta di fatto all'esercizio del diritto sarebbe in contrasto anche con il principio di uguaglianza e ostacolerebbe il pieno sviluppo della persona del detenuto; si concretizzerebbe, inoltre, in un trattamento contrario al senso di umanità, tale da compromettere la funzione rieducativa della pena in quanto l'astinenza sessuale, incidendo su una delle funzioni fondamentali del corpo, determinerebbe pratiche innaturali e degradanti, quali la masturbazione e l'omosessualità "ricercata o imposta".
Il divieto censurato, inoltre, determinerebbe anche il fenomeno dei cd. "matrimoni bianchi" in carcere, dei matrimoni cioè celebrati e non consumati e, ancora, impedirebbe la maternità; di qui il contrasto con l'art. 29 Cost.
Infine, sussisterebbe il contrasto con il precetto costituzionale che garantisce il diritto alla salute, dal momento che l'astinenza sessuale comporterebbe "l'intensificazione di rapporti a rischio e la contestuale riduzione delle difese sul piano della salute", e non aiuterebbe uno sviluppo normale della sessualità "con nocive ricadute stressanti sia di ordine fisico che psicologico".
Fin d'ora va rimarcato il "rimedio" che secondo il giudice a quo varrebbe ad assicurare la compatibilità costituzionale della disciplina: la "rimozione" dell'obbligo di controllo a vista, dalla quale evidentemente si presume discenda una praticabilità di fatto delle effusioni tra i colloquianti.
3. Risulta chiaro, dal breve riepilogo delle argomentazioni contenute nell'ordinanza di rimessione, come la Corte costituzionale non abbia potuto che dichiarare l'inammissibilità della questione, anzitutto perché il rimettente ha omesso di descrivere la fattispecie concreta e, di conseguenza, di motivare in ordine alla rilevanza della questione.
Il giudice a quo, infatti, non specificando il contenuto del reclamo del detenuto, né indicando se il reclamante fosse nelle condizioni di poter beneficiare o meno dei permessi premio, di cui all'art. 30 ter della legge n. 354 del 1975 - istituto che ad avviso dello stesso rimettente rappresenta la soluzione al problema posto in evidenza - non ha indicato la ragione per la quale egli avrebbe dovuto applicare, per la soluzione del caso sottoposto alla sua attenzione, la norma censurata.
Come è noto, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale della Corte costituzionale, dette lacune dell'ordinanza di rimessione determinano l'inammissibilità della questione incidentale di legittimità.
La Corte peraltro, in considerazione evidentemente della delicatezza del tema introdotto dal Magistrato di sorveglianza di Firenze, non si è limitata a dichiarare l'inammissibilità per il motivo appena indicato, ma ne ha individuato uno ulteriore, "distinto e concorrente" rispetto a quello già evidenziato.
4. È proprio tale ulteriore profilo di inammissibilità che connota di particolare significato la portata della sentenza in esame in quanto, sebbene si tratti di un vizio concernente la formulazione del "petitum" dell'ordinanza di rimessione, l'illustrazione dello stesso si è di fatto, tradotta in una valutazione pertinente al merito della questione di legittimità costituzionale, la cui soluzione però ha incontrato il limite derivante dalla impossibilità, per la Corte costituzionale, di sindacare l'uso del potere discrezionale del legislatore, così come espressamente previsto dall'art. 28 della legge 11 marzo 1953, n.87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale).
La Corte infatti - nel censurare come detto con l'inammissibilità una richiesta il cui accoglimento avrebbe comportato un intervento additivo in una materia riservata alla discrezionalità del legislatore, in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata - ha svolto argomentazioni volte ad evidenziare che il tema proposto con l'ordinanza di rimessione evoca «una esigenza reale e fortemente avvertita» e «che merita ogni attenzione da parte del legislatore».
I Giudici costituzionali hanno posto in rilievo come l'esigenza di permettere alle persone detenute o internate di continuare ad avere rapporti affettivi, anche a carattere sessuale, trovi nel nostro ordinamento una risposta soltanto parziale, rappresentata dall'istituto dei permessi premio, la cui fruizione è, però, preclusa a larga parte della popolazione carceraria in considerazione dei presupposti oggettivi e soggettivi richiesti dall'art. 30 ter della legge n. 354 del 1954. Si è posto in rilievo, inoltre, che un numero sempre crescente di Stati ha riconosciuto, in varie forme e con diversi limiti, il diritto dei detenuti ad una vita affettiva e sessuale intramuraria. La stessa Corte europea dei diritti dell'uomo, pur avendo escluso - nelle sentenze 4 dicembre 2007, Dickson contro Regno Unito e 29 luglio 2003, Aliev contro Ucraina - che gli articoli 8, paragrafo 1, e 12 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, prescrivano inderogabilmente agli Stati parte di permettere i rapporti sessuali all'interno della struttura carceraria ha, però, espresso il proprio apprezzamento nei confronti del movimento di riforma in atto.
Ciò posto, e per tornare al tema processuale dell'ammissibilità, la Consulta si è soffermata sulla formulazione del petitum, e sulla portata dell'art. 18 della legge n. 354 del 1954, ponendo in evidenza come la richiesta di intervento ablativo - volto, cioè, ad una pronunzia attraverso cui sia "eliminato" il controllo visivo del personale di custodia sui colloqui dei detenuti e degli internati - si rivelerebbe «eccedente lo scopo perseguito e, per altro verso, insufficiente a realizzarlo».
Sotto il primo profilo, la Corte, ha affermato che il controllo a vista del personale di custodia non ha come scopo specifico quello di impedire i rapporti affettivi intimi del recluso con il suo partner, ma persegue finalità generali di tutela dell'ordine e della sicurezza all'interno della struttura e, ancora, di prevenzione dei reati, sicché l'ostacolo all'esercizio del diritto alla sessualità sarebbe una delle conseguenze indirette della norma in esame, stante la naturale esigenza di intimità connessa a tale tipo di rapporti. La Corte ha stabilito, quindi, che l'asserita necessità di rimuovere tale conseguenza non giustifica la caduta di ogni forma di sorveglianza sui colloqui.
Sotto il secondo profilo, l'eliminazione del controllo visivo non basterebbe a realizzare l'obiettivo perseguito, «dovendo necessariamente accedere ad una disciplina che stabilisca termini e modalità di esplicazione del diritto». L'obiettivo sarebbe realizzato solo là dove fossero individuati i destinatari della disciplina, i presupposti comportamentali per la concessione delle «visite intime», il numero delle stesse e la loro durata ed, ancora, le relative modalità organizzative.
Ebbene, la predisposizione delle misure finalizzate alla realizzazione dei detti presupposti non può che essere riservata alle scelte discrezionali del legislatore e ciò «anche a fronte della ineludibile necessità di bilanciare il diritto evocato con esigenze contrapposte», quali quelle dell'ordine e della sicurezza nelle carceri.
Riprova dell'assoluta necessità di un intervento del legislatore nella materia è, dunque, la varietà delle soluzioni prospettabili, peraltro già racchiuse nei numerosi progetti di legge formulati al riguardo.
5. La Corte non è potuta addivenire ad una decisione diversa da quella della inammissibilità nemmeno ritenendo che il giudice a quo abbia richiesto una sentenza additiva "di principio", ovvero una decisione che affermi l'esigenza costituzionale di riconoscere, nel caso di specie, «il diritto alla sessualità» all'interno della struttura carceraria, demandando al legislatore il compito di definire modi e limiti della sua esplicazione; in tal caso la pronunzia costituzionale sarebbe stata rispettosa della sfera riservata alla discrezionalità del legislatore. La sentenza additiva "di principio", nella ipotesi in esame, «risulterebbe infatti, essa stessa espressiva di una scelta di fondo» e ,come tale, di esclusiva spettanza del legislatore: la prospettiva del rimettente - secondo cui il diritto alla esplicazione dei rapporti affettivi, anche sessuali, dovrebbe essere riconosciuto ai soli detenuti coniugati o a coloro che abbiano un convivente more uxorio, escludendo gli altri che, invece, intrattengano rapporti affettivi diversi da quelli menzionati - non costituirebbe, infatti, l'unica soluzione prospettabile.