ISSN 2039-1676


08 aprile 2013 |

Il caso ILVA (e molto altro) nel nuovo numero della Rivista trimestrale

Editoriale

 

1. Le ciminiere cui abbiamo dedicato la copertina di questo primo numero del 2013 (e al quale può accedersi semplicemente cliccando sull'icona che compare nella colonna di sinistra di questa pagina) evocano, com'è agevole intuire, la complessa vicenda del procedimento penale che concerne l'Ilva di Taranto, a proposito della quale la Corte costituzionale si dovrà esprimere in esito all'ormai imminente udienza del prossimo 9 aprile. Diritto penale contemporaneo ha riservato particolare attenzione allo snodo della vicenda rappresentato dall'emanazione del decreto legge 3 dicembre 2012, n. 207, poi convertito con modificazioni nella legge 24 dicembre 2012, n. 231 ("Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale"): interventi normativi oggetto di due ricorsi per conflitto di attribuzione presentati dalla Procura di Taranto rispettivamente il 21 dicembre 2012 e il 23 gennaio 2013 (entrambi nel frattempo dichiarati inammissibili dalla Corte costituzionale con ordinanze n. 16 e 17 del 2013), e le cui disposizioni sono state altresì impugnate in via incidentale avanti alla Corte costituzionale da parte del Tribunale del Riesame e del G.i.p. di Taranto con due ordinanze del 15 e 21 gennaio 2013, sulle quali si attende, appunto, il responso della Corte.

Sulle norme chiave del d.l. 207/2012 e della relativa legge di conversione la nostra Rivista ha immediatamente sollecitato una riflessione dal mondo accademico, anche al di là dei tradizionali steccati di materia. Siamo stati, così, orgogliosi di poter pubblicare nelle pagine quotidiane on line di Diritto penale contemporaneo, in rapida successione temporale, una nutrita serie di interventi da parte di vari studiosi di diritto costituzionale, tutti accomunati - al di là della diversa età accademica ed anagrafica - da quella particolare autorevolezza che deriva dalla padronanza dei meandri della giustizia costituzionale e della relativa giurisprudenza della Corte, per lo più colpevolmente ignorati dai penalisti. E siamo stati poi lieti che a queste voci si sia alla fine aggiunta quella, autorevolissima, di Domenico Pulitanò: penalista da sempre attento alla dimensione costituzionale della nostra disciplina, e assieme fine ed attento osservatore della prassi e delle sue dinamiche, spesso difficilmente riconducibili agli schemi asettici illustrati nei nostri manuali di diritto e procedura penale.

Ci è parso pertanto doveroso - e assai utile per i nostri lettori, anche 'a futura memoria' - riproporre tutti assieme questi contributi nel presente numero della Rivista trimestrale, indicando per ciascuno di essi la data di pubblicazione originaria, in modo che il lettore sia in grado di contestualizzarli in relazione alla cronologia che abbiamo qui sinteticamente cercato di ricostruire. Per ogni ulteriore dettaglio, basterà d'altra parte consultare i due lavori di Giuseppe Arconzo, sulla base dei quali risulterà agevole - anche attraverso i numerosissimi collegamenti ipertestuali - ricomporre il quadro completo di questa intricata, ma assai istruttiva vicenda.

 

2. Molti, in effetti, i nodi problematici che la vicenda Ilva porta allo scoperto.

Sullo sfondo sta il tema generalissimo del bilanciamento tra diritti in conflitto, tutti di elevatissimo rango costituzionale, quali - da un lato - la libertà di iniziativa economica dell'impresa nonché, soprattutto, il diritto al lavoro delle migliaia di dipendenti dell'impresa medesima; e - dall'altro - il diritto alla vita, alla salute, a un ambiente salubre, etc., di cui sono titolari gli stessi lavoratori e la popolazione residente nel territorio circostante.

Si tratta, beninteso, di una questione non nuova per i penalisti, che con frequenza crescente negli ultimi decenni si trovano a dover compiere simili bilanciamenti nei processi per esposizione a sostanze tossiche connessi a processi produttivi, allorché debbano definire gli standard di condotta ai quali l'imprenditore avrebbe dovuto conformarsi per sottrarsi a un rimprovero per colpa. Ancor prima, tali bilanciamenti stanno alla base delle norme cautelari di fonte legislativa o regolamentari, che entreranno poi nei processi penali quali parametri per la valutazione della colpa specifica. Ma la peculiarità di questa vicenda sta nell'aver portato allo scoperto la tensione - di solito latente - tra istituzioni e poteri dello Stato che rivendicano una competenza esclusiva ad operare tali bilanciamenti, o per lo meno il diritto a dire l'ultima parola sui bilanciamenti medesimi.

Un'ennesima tappa, si direbbe, di quello scontro tra potere politico e magistratura (soprattutto penale) che sta diventando purtroppo una costante del panorama italiano: in conseguenza, questa volta, della pretesa dei pubblici ministeri e degli stessi organi giurisdizionali tarantini di fissare limiti al bilanciamento invalicabili da parte dei titolari dei poteri politici, a tutela dei diritti alla vita e alla salute della popolazione, assunti quali poziori rispetto alle confliggenti ragioni della proprietà e degli stessi dipendenti dello stabilimento. Limiti che quei magistrati intendono affermare e difendere anche rispetto allo stesso potere legislativo, pur democraticamente legittimato, in difesa di diritti fondamentali che reclamano tutela anche contro le decisioni della maggioranza.

Se il decreto legge n. 207 e la successiva legge di conversione abbiano fissato un punto di equilibrio legittimo o illegittimo tra le opposte istanze di tutela lo dovrà dire, naturalmente, la Corte costituzionale, se le questioni sottopostele supereranno il vaglio di ammissibilità. Ma quelle questioni portano allo scoperto, altresì, un secondo e più generale snodo problematico, ben messo in luce da Pulitanò nel suo contributo, che concerne nientemeno che il ruolo che può legittimamente assumere la magistratura penale in uno Stato sociale di diritto.

Può ancora ritenersi che il compito della magistratura penale (inquirente e giudicante) debba restare confinato a quello, consegnatoci dal paradigma liberalgarantistico, della scoperta, della persecuzione e dell'accertamento di fatti illeciti già commessi? Ovvero si deve ormai apertamente riconoscere alla giurisdizione un ruolo schiettamente preventivo (e pro-attivo) in difesa di beni giuridici e di diritti dalle minacce che su di essi incombono, e che non si siano ancora tradotte in danni in senso tradizionale (o che, quanto meno, ancora non abbiano esaurito la loro potenzialità lesiva)?

Si tratta di un tema - quello del diritto penale come strumento anche preventivo di tutela dei beni giuridici, anziché come mero strumento reattivo rispetto a fatti lesivi già commessi - che emerge sempre più frequentemente nella riflessione penalistica contemporanea, italiana e straniera, e alla quale chi scrive ha già dedicato in passato qualche osservazione[1], sulla scorta peraltro di ben più qualificati contributi[2]. La strada - che la dottrina più ortodossa, in verità, volentieri percorrerebbe - di negare in radice la legittimazione del diritto e del processo penale rispetto all'esercizio di una simile funzione preventiva si scontra, ahimè, con la constatazione che il sistema penale e processuale penale così come disegnato dallo stesso legislatore attribuisce inequivocabilmente agli organi della giurisdizione penale compiti preventivi di tutela dei beni giuridici: sul piano sostanziale, incriminando largamente atti preparatori (i c.d. reati ostacolo, che mirano appunto a prevenire la commissione di fatti lesivi di beni giuridici), associazioni criminose (anch'esse strumenti che consentono l'anticipazione dell'intervento penale rispetto al momento della commissione di reati-fine direttamente lesivi dei beni giuridici), inosservanza di prescrizioni dell'autorità amministrativa o condotte di ostacolo all'attività amministrativa di vigilanza finalizzata alla tutela dei beni contro future possibili aggressioni, etc.; e sul piano processuale, dotando la pubblica accusa di un arsenale di misure cautelari programmaticamente funzionali a prevenire nuovi reati e/o o a impedire che il reato venga portato a conseguenze ulteriori (dalle misure cautelari personali emesse ai sensi dell'art. 274 lett. c) c.p.p. ai sequestri preventivi di cui all'art. 321 c.p.p., di cui per l'appunto si discute nella vicenda Ilva). Il che apre per forza di cose la strada a un procedimento penale che, lungi dall'essere esclusivamente orientato alla scoperta di fatti già commessi, mira altresì a impedire che altri fatti di reato vengano commessi, o quanto meno di limitare gli effetti lesivi di quelli già commessi, assumendo così un ruolo proattivo nella difesa dei beni giuridici contro future aggressioni, ed entrando in tal modo fatalmente in concorrenza con l'attività della pubblica amministrazione, e dello stesso legislatore, normalmente pensati come i titolari esclusivi di questa funzione.

Infine - e giusto per limitarci qui a qualche pennellata sulla vastità dei problemi evocati dalla vicenda tarantina - la chiamata in causa della Consulta appariva qui verosimilmente come una soluzione obbligata a fronte della sin troppo scoperta pretesa del decreto legge (e della stessa legge di conversione) di travolgere ipso iure gli effetti di provvedimenti giurisdizionali - ancorché, e qui risiede certamente un ulteriore profilo di complessità, adottati tutti in sede cautelare. Ben comprensibili le reazioni della magistratura, a difesa non solo delle proprie prerogative nel caso di specie, ma più in generale dello stesso principio della separazione dei poteri dello Stato: profilo questo di cruciale importanza, sul quale avrà ora l'occasione di esprimersi la Corte costituzionale - sempre che non opti per la strada prudente della sterilizzazione in via ermeneutica del conflitto, attraverso una rilettura degli atti normativi impugnati come se avessero inteso non già caducare ipso iure i provvedimenti di sequestro della magistratura tarantina, quanto piuttosto limitarsi a modificare il quadro normativo preesistente sulla cui base i provvedimenti in questione si fondavano, creando così un consequenziale obbligo per il giudice di provvedere in conformità al mutato quadro normativo.

 

3. Numerosi e interessanti sono, poi, gli altri temi affrontati e discussi in questo numero della Rivista trimestrale.

Tra essi spicca, mi pare, la grande questione dello statuto della legalità penale alla luce del crescente impatto sul sistema penale interno della giurisprudenza sovranazionale, in particolare della Corte europea dei diritti dell'uomo: questione alla quale è dedicato un acuto lavoro di Ombretta Di Giovine, che si inserisce idealmente in un dibattito avviato dalla nostra Rivista sin dai suoi esordi.

Un dibattito, del resto, che Diritto penale contemporaneo continua a promuovere anche in relazione ai molti casi concreti in cui questi nodi vengono al pettine. La Corte costituzionale sta per decidere, ad esempio, una questione di legittimità costituzionale sollevata dalle Sezioni Unite della Cassazione in relazione alle possibili ricadute della sentenza Scoppola c. Italia (n. 2) su tutti i condannati all'ergastolo in forza di sentenza definitiva i quali si trovano nell'identica situazione del ricorrente uscito vittorioso in quel giudizio in sede europea[3]: questione sulla quale - ancor prima della decisione delle Sezione Unite - la nostra Rivista aveva richiamato l'attenzione con numerosi contributi[4], in ragione anche del suo carattere paradigmatico dello stress cui i principi penalistici e processualpenalistici tradizionali (primi fra tutti il principio di legalità, sostanziale e processuale) sono sottoposti proprio per effetto dell'irruzione sulla scena di quella 'legalità europea', cui è ora dedicato il contributo di Di Giovine.

Sempre la Corte costituzionale, e il tema spinoso dei conflitti tra i poteri dello Stato, sono poi al centro del contributo di Novella Galantini, dedicato a un primo commento della sentenza n. 1/2013 sull'arcinoto conflitto tra il Capo dello Stato e la Procura di Palermo, in relazione alle intercettazioni 'casuali' del Presidente nelle indagini sulla presunta trattativa tra Stato e mafia nei primi anni novanta: una sentenza di grande rilievo giuridico e istituzionale, e sulla quale certamente ritorneremo anche nel prossimo numero, dove riproporremo tra l'altro il recentissimo contributo di Alessandro Morelli, appena apparso sulle nostre pagine quotidiane on line[5].

Ma conviene arrestare qui la nostra chiacchierata introduttiva, rinviando per tutti gli altri temi alla lettura del nostro sommario; non senza augurare a tutti, come sempre, buona lettura.

 


[1] F. Viganò, Terrorismo, guerra e sistema penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, p. 648 ss., spec. 672 s. e 690 ss. Sul distinto ma connesso profilo della funzione di neutralizzazione dell'individuo pericoloso svolta dal sistema penale nel suo complesso, nonostante tutti i principi (e la retorica) del 'diritto penale del fatto' che si insegnano nei nostri manuali, si veda anche, volendo, F. Viganò, La neutralizzazione del delinquente pericoloso nell'ordinamento italiano, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012, p. 1334 ss.

[2] Cfr., in particolare, W. Hassemer, Sicherheit durch Strafrecht?, in HRRS, 2006, p. 130 ss.

[3] Cass. pen., Sez. Un., ord. 19 aprile 2012 (dep. 10 settembre 2012), n. 34472, Pres. Lupo, Est. Milo, Imp. Ercolano).

[4] G. Romeo, Alle Sezioni unite la questione della possibilità per il giudice dell'esecuzione, dopo la sentenza «Scoppola» della Corte edu, di sostituire la pena di trenta anni di reclusione alla pena dell'ergastolo, 19 marzo 2012;  F. Viganò, Figli di un dio minore? Sulla sorte dei condannati all'ergastolo in casi analoghi a quello deciso dalla Corte EDU in Scoppola c. Italia, 10 aprile 2012; G. Romeo, L'orizzonte dei giuristi e i figli di un dio minore, 16 aprile 2012; F. Viganò, Giudicato penale e tutela dei diritti fondamentali, 18 aprile 2012.

[5] A. Morelli, La riservatezza del Presidente. Idealità dei principi e realtà dei contesti nella sentenza n. 1 del 2013 della Corte costituzionale, 27 marzo 2013.