ISSN 2039-1676


15 dicembre 2010 |

C. cost., 15.12.2010, n. 358 (ord.), Pres. De Siervo, Rel. Frigo

La Consulta sulla prova delle pressioni indebite nei confronti del testimone

Come accade di frequente per la giurisprudenza della Corte costituzionale, una pronuncia di manifesta inammissibilità fornisce spunti di notevole importanza per la ricostruzione di un determinato istituto.
 
Nel caso della ordinanza n. 358 del 2010, utili indicazioni si ricavano quanto alle regole probatorie valevoli per il procedimento incidentale finalizzato ad accertare se sussistano le condizioni per l’acquisizione delle dichiarazioni predibattimentali  di un teste che si ritenga sottoposto a violenza, minaccia, offerta di denaro o altra utilità.
 
La disciplina della fattispecie è posta all’art. 500 c.p.p., che regola in generale la materia delle contestazioni nell’esame testimoniale, e stabilisce, al comma 2, che le dichiarazioni di cui venga data lettura a fini di contestazione possono essere utilizzate al solo fine di valutare la credibilità del teste. Tuttavia il comma 4 dello stesso art. 500, in parziale applicazione dell’art. 111, quinto comma, della Costituzione, stabilisce che le dichiarazioni i cui verbali si trovino nel fascicolo del pubblico ministero possono essere utilizzate, quali prove dei fatti cui si riferiscono, quando sussistono elementi concreti di allarme sulla genuinità delle dichiarazioni dibattimentali. Quando cioè, come si accennava, possa ritenersi che il teste abbia subito lusinghe o pressioni di carattere illecito.
 
Il procedimento utile ad accertare la ricorrenza delle condizioni indicate è regolato dal comma 5 dell’art. 500 c.p.p.: il giudice decide senza ritardo, svolgendo gli accertamenti che ritiene necessari, su richiesta della parte, cui è consentito anche di «fornire» i concreti elementi dimostrativi circa la condotta finalizzata all’inquinamento della prova.
 
Nel caso posto ad oggetto del giudizio principale, il rimettente sospetta indebite pressioni su una teste, che in fase dibattimentale ha ritrattato dichiarazioni accusatorie a carico del convivente. Il sospetto è alimentato dalla specifica indicazione, fornita in istruttoria, circa lo svolgimento di vicende analoghe in precedenti giudizi: la teste sporgeva denunce per maltrattamenti, e poi veniva costretta a negarne il fondamento nei procedimenti conseguentemente instaurati a carico del convivente.
 
Tanto premesso, il giudice a quo ha censurato il comma 2 dell’art. 500 c.p.p., nella parte in cui gli preclude – a suo dire – di utilizzare le dichiarazioni istruttorie per comprovare le pressioni indebite sulla teste e per acquisirne, dunque, le dichiarazioni originarie.
 
Ebbene, la Corte ha negato esplicitamente l’applicabilità della norma censurata nel procedimento incidentale, ed ha lasciato chiaramente intendere che esistono soluzioni interpretative utili ad argomentare, piuttosto, in favore della utilizzabilità di dichiarazioni assunte fuori del contraddittorio per identificare condotte intimidatorie o corruttive nei confronti del testimone. In effetti, la disciplina dettata dal comma 2 dell’art. 500 c.p.p. attiene al processo principale, che ha come oggetto l’accertamento della responsabilità dell’imputato per i fatti a lui contestati. Le regole probatorie del procedimento incidentale sono espresse piuttosto ai commi 4 e 5 dello stesso art. 500. Ed è abbastanza evidente – anche se la Corte si limita a rilevare come il rimettente non abbia approfondito la questione giuridica sottesa al suo quesito – che si tratta di regole diverse.
 
È sufficiente, per l’acquisizione delle dichiarazioni istruttorie, che ricorrano «elementi concreti» (espressione evidentemente non riconducibile al concetto di prova assunta in contraddittorio). Tali elementi possono emergere «anche» nel dibattimento, a significare che, nel contempo, rilevano elementi desumibili da fonti non pertinenti alla sede dibattimentale. Il giudice svolge direttamente gli accertamenti necessari, ed è possibile anche che gli «elementi concreti» gli vengano forniti dalla parte: dunque che vengano utilizzati elementi raccolti aliundee, soprattutto, secondo un procedimento non segnato dal contraddittorio in fase genetica.
 
Queste, almeno, le indicazioni che emergono dal dibattito giurisprudenziale e dottrinale, sulla base per altro di fattori letterali e sistematici piuttosto univoci. La Corte l’ha ricordato, rimproverando dunque al rimettente di aver male individuato la norma da applicare (cd. aberratio ictus) e di non aver compiuto una «adeguata ponderazione del quadro normativo». Una sorte di sicura inammissibilità per la questione sollevata. Ed un effetto di accredito – per quanto prudente debba essere la lettura delle decisioni in chiave processuale della Consulta – della tesi che le regole probatorie del procedimento incidentale in questione non sono quelle dettate per l’accertamento del fatto nel giudizio principale.