ISSN 2039-1676


17 dicembre 2010 |

C. cost., 17 dicembre 2010, n. 359 (sent.), Pres. De Siervo, Rel. Silvestri (parziale illegittimità  costituzionale dell'art. 14, co. 5-quater t.u. immigrazione)

Illegittima la punizione dell'inottemperanza all'ordine "reiterato" di allontanamento quando ricorre un "giustificato motivo"

Con la sentenza n. 359 del 2010, depositata il 17 dicembre 2010, la Corte costituzionale ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 5-quater, del T.u. in materia di immigrazione.
Detta norma, dopo la radicale innovazione recata con la legge n. 94 del 2009 (cd. «secondo pacchetto sicurezza»), sanziona la inottemperanza dello straniero all’ordine di allontanamento impartito dal questore in esecuzione del decreto di espulsione adottato dopo una precedente inottemperanza ad analogo ordine di allontanamento. A differenza di quanto non fosse per la condotta omissiva di cui al comma 5-ter (cioè, per così dire, quanto alla «prima» inottemperanza), la disposizione censurata non subordinava la punibilità del fatto alla carenza di un «giustificato motivo». Con una tipica sentenza additiva, in applicazione dell’art. 3 della Costituzione, la Corte ha «introdotto» anche nella fattispecie di «inottemperanza reiterata» l’elemento negativo costituito, appunto, dalla carenza del giustificato motivo.
 
Per un pieno apprezzamento del novum recato dalla decisione possono giovare alcune notazioni di inquadramento.
 
Prima del «secondo pacchetto sicurezza» si era sviluppata una lunga discussione sulla reiterazione degli ordini di allontanamento e sulla rilevanza penale dell’inottemperanza all’ordine reiterato.
In effetti, il comma 5-ter dell’art. 14 stabiliva, dopo aver «sanzionato» l’inottemperanza al provvedimento questorile di allontanamento: «in ogni caso, salvo che lo straniero si trovi in stato di detenzione in carcere, si procede all’adozione di un nuovo provvedimento di espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica per violazione all’ordine di allontanamento adottato dal questore ai sensi del comma 5-bis)». Accadeva però spesso che la macchina amministrativa non fosse in grado di eseguire l’espulsione, neppure dopo un «soggiorno» presso quelli che oggi si chiamano Centri di identificazione ed espulsione, e che dunque venisse emesso un secondo ordine di allontanamento (e poi un terzo, un quarto, ecc.). Dopo un serio contrasto, era prevalso in giurisprudenza l’orientamento a considerare penalmente irrilevante la inottemperanza all’ordine reiterato.
Lo scopo, spesso dichiarato, era quello di evitare la spirale di condanne per un fatto essenzialmente unitario, con cumuli di pena degni di vere e proprie carriere criminali. Lo schema provvedimentale più ricorrente si fondava sull’assunto della illegittimità del provvedimento questorile reiterato, in quanto assunto in contraddizione col precetto che si provvedesse «in ogni caso» all’accompagnamento alla frontiera, o, quale sola alternativa, al ricovero presso un CIE. Sembrava illogico, del resto, che l’ordinamento si affidasse all’ottemperanza volontaria anche in casi di comprovata indisponibilità dell’interessato.
Si può aggiungere un argomento solo in apparenza paradossale. Più saliva (e sale) il numero dei provvedimenti questorili rimasti ineseguiti, più appare grave e stabile il complesso dei fattori ostativi all’espulsione effettiva dello straniero, tale appunto da indurre la macchina amministrativa, nonostante la «recidiva», ad una rinuncia all’uso della forza, che pure sarebbe lecito. E tuttavia quelle stesse difficoltà rendono progressivamente meno comprensibile la punizione dell’interessato.
 
Dando un tipico esempio di legislazione «correttiva» (o reattiva, se si preferisce), con la legge n. 94 del 2010, la situazione è stata completamente modificata. Nel nuovo comma 5-ter dell’art. 14 si è stabilito espressamente che anche l’ordine di espulsione adottato in applicazione della stessa norma può essere eseguito con un «nuovo» provvedimento di intimazione ad allontanarsi dal territorio dello Stato. Ma il novum penalistico si è espresso nel novellato comma 5-quater: la violazione dell’ordine reiterato risulta espressamente sanzionata (con reclusione stavolta fino a cinque anni). Per inciso, la norma non si riferisce più alla condotta cui in precedenza veniva riferita, cioè l’indebito rientro dopo l’effettiva espulsione a norma dell’art. 14, comma 5-ter, che a questo punto, evidentemente, è rifluita nella previsione dell’art. 13, comma 13 del Testo unico.
Ebbene, nella nuova previsione, pur essendo la condotta strutturalmente identica a quella descritta nel comma 5-ter, non era conferita alcuna rilevanza al «giustificato motivo».
 
La legittimità della disposizione era stata censurata – dal Tribunale di Voghera – in riferimento all’art. 2 della Costituzione, per contrasto con il principio di solidarietà, posto che la norma incriminatrice, nell’assetto denunciato, avrebbe colpito la «condizione sociale dell’essere cittadino straniero migrante». Era stato invocato inoltre l’art. 3 della Costituzione, per l’ingiustificata difformità di trattamento rispetto alla previsione di cui all’art. 14, comma 5-ter, dello stesso d.lgs. n. 286 del 1998, ove la punibilità dell’inottemperanza all’ordine di allontanamento è esclusa quando ricorra un «giustificato motivo». Infine sarebbero stati violati gli artt. 25, secondo comma, e 27 della Costituzione, in quanto il sanzionamento di fatti commessi in presenza di un «giustificato motivo» contrasterebbe con il principio di offensività e con il principio di colpevolezza.
 
La Corte, come anticipato, ha accolto la questione in relazione al parametro dell’uguaglianza formale, considerando assorbita ogni altra doglianza. Il fulcro del ragionamento si rinviene nella risposta ad un quesito essenziale: se trovasse giustificazione, visto che il comma 5-ter ed il comma 5-quater dell’art. 14 puniscono una analoga condotta di disobbedienza all’ordine questorile di allontanamento, il fatto che nel primo caso la punibilità fosse esclusa in forza di un «giustificato motivo», mentre nel secondo non fosse contemplato un identico elemento negativo.
 
A proposito della identità strutturale tra le condotte, anzitutto,  la Corte ha osservato: «Il fatto che l’omissione cui si riferisce la norma censurata faccia seguito ad altra omissione dello stesso genere non incide sul nucleo essenziale della descrizione legislativa della condotta illecita, che resta uguale nella prima e nella seconda ipotesi». Soprattutto si è rilevata una necessaria corrispondenza delle fattispecie all’identica ratio che ne determina l’esistenza.Posto che la peculiarità della situazione innescata dall’ordine questorile di allontanamento ha indotto il legislatore a mostrare tolleranza oltre la soglia delle ordinarie cause di non punibilità, quando ha disegnato il comma 5-ter, e posto che le stesse peculiarità segnano anche l’ordine questorile «reiterato», non può giustificarsi  l’irrilevanza del giustificato motivo nel comma 5-quater.
La Corte, in ossequio alle valutazioni recentemente compiute con la sentenza n. 250 del 2010 (infra), ha inteso negare espressamente che l’inserimento della «clausola di salvaguardia» nella fattispecie censurata fosse imposto dal principio di colpevolezza.
Ma – questo il nucleo del ragionamento – una volta che il legislatore ha discrezionalmente stabilito che il miglior bilanciamento tra le esigenze di libertà e quelle di governo dei flussi migratori, a fini di tutela di effettività degli ordini di allontanamento, è assicurato mediante la clausola del «senza giustificato motivo», non ha il diritto di discriminare situazioni sostanzialmente assimilabili.
 
Si segnala anche un inciso che trae spunto da rilievi della Presidenza del Consiglio dei ministri, intervenuta a difesa della norma censurata. Sembra chiaro che la Corte non ha inteso prendere posizionesugli innumerevoli problemi applicativi che tormentano la giurisprudenza (che rapporti tra i procedimenti amministrativi, tra questi ed i procedimenti penali, tra i procedimenti penali fra loro?).
Tuttavia, per respingere l’argomento di una minor tollerabilità della reiterazione nell’atteggiamento inottemperante, si è osservato: «La sequenza di provvedimenti descritta nell’ultima parte del comma 5-ter non esprime necessariamente la «progressione criminosa» cui si è riferita l’Avvocatura dello Stato nell’atto di intervento. Essa, comunque, non renderebbe meno valide le ragioni che possono giustificare l’inottemperanza all’ordine di allontanamento, proprio in forza della loro reale consistenza, verificabile da parte del giudice. Tale consistenza non può essere esclusa o attenuata, anche se l’ordinamento consideri meritevole di una sanzione più severa chi ponga in essere più volte lo stesso comportamento omissivo. Sarebbe erroneo sovrapporre il piano della valutazione della gravità del reato a quello della giustificabilità della condotta».
 
La Corte ha anche marcato le differenze tra la decisione assunta ed i due precedenti aventi ad oggetto la mancata previsione della clausola di salvaguardia, precedenti ormai ben noti a tutti.
La ordinanza n. 41 del 2009 ha dichiarato manifestamente infondata la questione, relativamente all’indebito reingresso allora sanzionato dal comma 5-quater dell’art. 14, perché si voleva accomunare la difficoltà di trovare fondi e documenti per un espatrio alla situazione di chi abbia trovato risorse per un reingresso clandestino.
La sentenza n. 250 del 2010 ha dichiarato infondata la questione, nonostante la natura omissiva dell’indebito trattenimento ex art. 10-bis,  perché manca in tale fattispecie la dipendenza dell’obbligo da un ordine mirato ed individualizzato dell’Autorità, la cui inosservanza entro il termine indicato comporta un «netto “salto di qualità” nella risposta punitiva»
Si può aggiungere che nella specie la Corte svolse un’ulteriore considerazione, evidenziando l’esistenza di «un diverso strumento di “moderazione” del trattamento sanzionatorio», in chiara funzione compensativa rispetto alla carenza della clausola fondata sul «giustificato motivo». L’allusione coglieva la speciale ipotesi di improcedibilità dell’azione prevista, per tutti i reati di competenza del giudice di pace, dall’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000. Un correttivo del quale, evidentemente, non si poteva disporre nel caso esaminato.