ISSN 2039-1676


23 febbraio 2015 |

Massimo Donini, Il diritto penale come etica pubblica. Considerazioni sul politico quale 'tipo d'autore', Mucchi ed., Modena, 2014, pp. 80

Presentazione del volume da parte dell'autore

Già da molto tempo nel nostro Paese non esiste più un'etica generale comune agli schieramenti politici, diversa da quella definita dal diritto e in particolare dal diritto penale. In questa dimensione culturale si passa immediatamente da ciò che è reato a ciò che è lecito in quanto non delittuoso. L'inconcepibile equazione: "criminally innocent"= politically correct domina nei fatti il dibattito sulle scelte pubbliche perché manca un criterio identitario dell'etica pubblica diverso dal diritto penale, il che impone di recuperare un orientamento ai valori attraverso il diktat di qualche provvedimento giudiziario penale.

Molti sono i percorsi della modernità e della post-modernità che hanno preparato questo stato delle cose nel corso del Novecento, riducendo a opzioni irrazionali le scelte di valore, e dunque quelle morali, in quanto non supportate da una base scientifica: da Max Weber a Hans Kelsen, da Wittgenstein al Circolo di Vienna, ai filosofi analitici, ai filosofi del diritto che hanno da sempre sostenuto la separazione tra questioni di fatto e di valore, relegando quest'ultime a scelte a-scientifiche di tipo irrazionale, religioso, morale, una cultura dominante ha diffuso l'idea che non ci potesse essere un'etica pubblica che non fosse quella legata alle vecchie ideologie o religioni. Col passare del tempo, tuttavia, le etiche del partito, di chiesa e di schieramento, laici e cattolici, o comunisti e cattolici, liberali e socialisti, sono tutte quante divenute sempre più, se non concetti storici, quanto meno visioni private del mondo: visioni che tuttavia è vietato assumere come quelle pubbliche della legge in chiave monopolistica e totalizzante. Sono visioni private del mondo accolte da gruppi che restano stranieri morali tra loro, come emerge a tutto campo nelle questioni paradigmatiche della bioetica. In un contesto di pluralismo dei valori, infatti, solo il diritto può adottare punti di vista rispettosi del pluralismo e non contrassegnati da una specifica identità ideologica che sarebbe ad esso vietata da principi superiori. E' vero dunque, oggi, che solo il diritto può rappresentare ormai l'etica pubblica. Ma poiché il diritto non obbliga in coscienza, e dunque formalmente non è un parametro di moralità, se un'etica pubblica va individuata, dovrà essere ritagliata dal perimetro di ciò che è giuridicamente consentito, ma possa venire avvertito anche come doveroso moralmente. L'etica pubblica è dunque ciò che, della forma-jus, ci obbliga in coscienza[1].

Come tale essa è una parte non giuridica del diritto, ma il diritto, che ne costituisce un criterio d'identificazione, ne segna anche il perimetro, l'insieme maggiore.

Più singolare e distorcente è la declinazione penalistica del fenomeno, anche se comprende bene che  il diritto penale è quel ramo del diritto che ha più capacità censoria, è il più intollerante dei diritti, pur restando (in ipotesi) laico e non confessionale, di partito o di parte.

In una situazione di assenza di parametri pubblici di valutazione morale, per censurare una condotta la via più sicura è di qualificarla come reato, mancando altrimenti un sistema di valori davvero eloquente o condiviso: una censura in termini non penalistici o perfino non giuridici, ha un impatto assai modesto in un sistema privo di un codice di comportamento autonomo.

E' diffusa la percezione che se un certo comportamento non configura un reato, la norma-precetto che lo vieta non sia espressione di un obbligo veramente vincolante: se un fatto è un illecito civile o amministrativo, la relativa sanzione può essere vista come una sorta di onere: la si può metter in conto, in cassa, quale tributo da pagare se vi vuole commettere il fatto. Se la sanzione è penale,  la regola ha un impatto censorio assai più forte, esprimendo un divieto assoluto, la cui sanzione non è riducibile a tassa.

Questo dato è poi accentuato da una peculiare debolezza della politica, incapace di esprimere una propria scala di valori, un codice di comportamento autonomo.

Siamo in un Paese dove c'è bisogno della magistratura per far funzionare lecitamente qualsiasi grande contratto pubblico di appalto, ma siamo anche il Paese dove alla magistratura penale si ricorre persino per verificare se un consigliere comunale abbia legittimamente rendicontato per il rimborso spese una tazzina di caffè.

Lo Stato di diritto, insomma, vive ormai la verifica dei poteri in una dimensione così patologica da affidarla direttamente al diritto penale.

Il biennio del governo Monti è stato segnato da un programma di efficientismo economico veicolato dalla riforma dei reati di corruzione: una riforma scarsamente efficace già in partenza, come ben sapevano gli addetti ai lavori; essa è stata presentata tuttavia come uno strumento necessario per la competitività economica in Europa e nel mondo: non tanto per ragioni etiche, in questo caso, quanto utilitaristiche.

Sennonché, la soluzione di un problema di corruzione non può essere affidata soltanto alla legge, ma al costume, alla cultura, all'educazione civica collettiva, al comportamento dello Stato, alla fiducia o sfiducia nella pubblica amministrazione, al senso di appartenenza o di distanza rispetto ai pubblici poteri.

Invece, da vari lustri il "controllo delle virtù" pubblica è apparso come un fenomeno caratterizzante le funzioni della magistratura penale, oltre i fenomeni di uso privato della legge o della amministrazione. Ma prima ancora che di un controllo, si è trattato della produzione stessa di un'etica pubblica, perché alcune norme sono state "riconosciute" per la prima volta come vigenti solo dopo la loro qualificazione penalistica.

Tuttavia, anche la Giustizia diventa oggetto di scambio e di strumentalizzazione in questa divisione collettiva. Il fenomeno del giustizialismo e dell'uso del processo contro nemici politici, la trasformazione dell'azione punitiva in mezzo di lotta politica - lo facciano i giudici o se ne rendano strumento, consapevoli, conniventi o meno, poco importa -, sono parte della privatizzazione, e non solo della moralizzazione, della cosa pubblica.

Non sono dunque un fenomeno diverso, ma un aspetto della stessa realtà.

Il fatto è che la stessa Giustizia vive tutte le contraddizioni e le malattie del sistema, invece di costituirne l'antidoto. Chi pensa anzi che la soluzione alla più grave crisi di fondamenti della politica sia una via giudiziaria, ha evidentemente sognato che possa esistere una giustizia separata dalla società, così perdendo la prospettiva fondamentale del nesso "costituzionale",  tra societas e jus: il diritto non può 'salvare' la società dall'esterno, dovendo invece restare espressione di quella.

Questa situazione rende impossibile distinguere etica e diritto penale, almeno fino a quando l'etica pubblica non si sia essa stessa affrancata in definizioni indipendenti. Ed è questo he manca ancora nel nostro Paese. Invece, noi dobbiamo poter decidere - e non astrattamemente "sapere" - che se un politico è assolto da un delitto molto infamante e immorale, non è per ciò solo "moralmente a posto": l'assoluzione penale non è un'assoluzione morale.

Nello stesso tempo, se un politico (o un imprenditore o un quisque de populo) è condannato penalmente, dobbiamo avere criteri di etica pubblica per separare il giudizio penale da quello etico.

Può essere che quella condanna non abbia valore morale, e non debba esigere le sue "dimissioni", così come non sono moralmente rappresentativi i giudici: chi fa il giudice penale o il pubblico ministero non è un'autorità morale nella persona fisica che esercita quel ruolo. Né lo è sul pano istituzionale: etica e diritto devono rimanere distinguibili, anche se sono in parte sovrapposti.

La ricerca del "bene comune" non è un compito che possa essere lasciato ai penalisti, che si occupano solo di sanzionare o assolvere, producendo, infine, un cortocircuito. Il loro mestiere e il loro ruolo sono stati enfatizzati oltre ogni limite. E' dunque tempo che la politica e la società civile riprendano in mano le sorti della loro virtù pubblica. 

 

 

 

 


[1] Esempio.  Se si deve decidere un aborto in presenza di malformazioni del nascituro, o il mancato impianto di un embrione, la visione del mondo può risultare determinante alla luce di ben definite etiche coesistenti nella società, e che il diritto lascia coesistere senza coartarle in modo illiberale (anche se per l'embrione ci ha provato per quasi un decennio con la l. n. 40 del 2004). Se però si deve stabilire quale livello di arricchimento personale sia lecito, l'intensità dell'ammissibile informazione diffamante su una persona, quale rischio sia affrontabile da un'impresa in una situazione di crisi, quale livello di disinvoltura nella manipolazione dei colleghi sia accettabile, o quali forme di disuguaglianza sociale siano ammesse e tollerate, sul punto non esiste più un'etica pubblica: è solo il diritto che definisce questi limiti, spesso attraverso sanzioni penali, misure di prevenzione e in un vorticoso mutamento di prospettive e di qualificazioni giuridiche. Ancor più questo è vero in caso di scelta se esercitare l'azione penale rispetto al potere politico: qui la stessa opzione penale diventa una forma di controllo tout court sull'etica pubblica dei rappresentanti dei poteri dello Stato. Passa attraverso ipotesi di reato, e sono esse che veicolano l'affermazione pedagogica di valori che si diffondono attraverso la minaccia di pene criminali.