ISSN 2039-1676


27 ottobre 2015 |

La responsabilità  a titolo di partecipazione del personale del lager di Auschwitz

A margine della sentenza di condanna nei confronti di Oskar Groning

 

1. Una recente decisione[1] di un tribunale tedesco riapre il dibattito sulla responsabilità a titolo di partecipazione in omicidio del personale del lager Auschwitz, che non sia stato direttamente coinvolto nelle operazioni di sterminio. Sono state infatti depositate le motivazioni della sentenza con cui lo scorso quindici luglio il Landgericht di Lüneburg ha riconosciuto la responsabilità penale del novantaquattrenne, ex membro delle SS, Oskar Gröning, a titolo di partecipazione concorsuale in omicidio aggravato (Mord) di trecentomila persone e lo ha quindi condannato alla pena di quattro anni di reclusione. Non è ancora stato stabilito se ed in quali condizioni tale pena verrà eseguita, vista l'età e le condizioni di salute del condannato, il quale ha già annunciato di voler proporre impugnazione.

Il processo e la sentenza sono di particolare rilevanza perché indizianti di una possibile svolta repressiva della giurisprudenza tedesca nei confronti dei membri del personale dei lager nazisti ancora in vita, per quanto oggi di numero assolutamente esiguo. Il dodici maggio 2011 infatti, il II Landgericht di Monaco di Baviera ha condannato a cinque anni di detenzione l'ex prigioniero ucraino, poi impiegato nel personale del campo di concentramento di Sobibór, Ivan (John) Demjanjuk, deceduto il 20 marzo 2012, nelle more dell'impugnazione davanti al Bundesgerichtshof[2].

Gröning, come membro delle SS, ha prestato servizio nel campo di concentramento di Auschwitz, dove gli sono state affidate le mansioni di raccolta e custodia dei bagagli dei deportati, una volta scesi dai treni, di catalogazione e classificazione degli stessi, nonché di trasporto degli oggetti di valore a Berlino, per consegnarli al comando centrale delle SS o depositarli direttamente in banca. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, Gröning è stato chiamato come testimone in alcuni processi, nei quali ha sempre collaborato, senza tuttavia fornire mai dichiarazioni incriminanti nei confronti deli ex 'colleghi'. Decise poi di raccontare il proprio passato pubblicamente e sotto forma di memoriale da lasciare ai figli, come reazione dichiarata a forme crescenti di negazionismo ed in particolare alle opere di Thies Christophersen, uno dei primi fautori della teoria della Auschwitzlüge (la menzogna di Auschwitz), il quale ha sempre negato l'esistenza della camere a gas[3]. Gröning non ha mai negato o minimizzato ciò che avvenne ad Auschwitz. Al contrario, ha sempre dichiarato di essere stato, anche all'epoca dei fatti, consapevole dello sterminio che veniva posto in essere e di tutte le sue fasi, pur tuttavia ribadendo sempre il proprio ruolo di tesoriere e quindi rivendicando estraneità alle uccisioni. Alla luce dell'esito della sentenza Demjanjuk, l'Autorità Giudiziaria per le Indagini sui Crimini Nazionalsocialisti ha riavviato le indagini nei suoi confronti, confidando in un mutato approccio da parte della giurisprudenza.

Il processo, conclusosi lo scorso luglio, ha visto quindi una collaborazione da parte dell'imputato, che ha rilasciato numerose dichiarazioni. Sono state inoltre acquisite tre perizie, due storiche ed una medica[4], e sono stati ascoltati alcuni testimoni ancora in vita. Questi ultimi in particolare non sono stati in grado di riconoscere l'imputato, dopo oltre 70 anni, né di ricordarne il nome. La maggior parte di essi ha dichiarato, in udienza, di non essere tanto interessata alla punizione dell'imputato, quanto piuttosto all'accertamento, da parte di un tribunale tedesco, dell'eccidio perpetrato ad Auschwitz e alla memoria delle vittime. Si tratta peraltro di un tema molto rilevante e frequente nella giustizia di transizione, che presenta inoltre svariati risvolti sul processo penale. In tali contesti infatti spesso le istanze per una verità autoritativa, sancita in maniera ufficiale e irrevocabile, risultano più forti delle istanze punitive ed anzi perdurano anche quando dai fatti sia trascorso un tempo così lungo da far apparire la punizione degli anziani colpevoli, ove ancora superstiti, poco significativa.

La sentenza Gröning ripercorre analiticamente l'ascesa politica del nazismo, la creazione dei lager e l'Operazione Reinhardt; l'evoluzione storica è ricostruita minuziosamente, in parallelo al percorso di formazione personale e psicologica dell'imputato. Figlio di un reduce della prima guerra mondiale che militava nel movimento Stahlhelm, Bund der Frontsoldaten, Gröning sin da molto piccolo si inserì, assieme al fratello, nelle file del movimento giovanile paramilitare Scharnhorstbund, poi confluito nella Hitlerjugend. La sentenza dà atto di come, agli occhi di Gröning, le SS fossero una élite che difendeva il popolo tedesco, cosa che lo spinse ad arruolarvisi come volontario.

Dal punto di vista penalistico, la sentenza è particolarmente interessante per due motivi, profondamente interconnessi. Da un lato essa inaugura una nuova linea della giurisprudenza tedesca, che supera il precedente approccio delle corti federali al campo di concentramento di Auschwitz[5]. In secondo luogo le considerazioni del Landgericht sono di particolare interesse, perché pongono nuovamente in discussione un tema centrale, segnatamente nel diritto penale internazionale: quello del contributo materiale e dell'elemento soggettivo della partecipazione criminosa. In particolare il tema viene in questione nei casi di crimini commessi in maniera sistematica all'interno di vere e proprie strutture ad hoc, come i lager. Tali strutture, quando sono di dimensioni rilevanti, possono funzionare mediante un'organizzazione complessa, in cui sono coinvolti soggetti con compiti specifici, ma che non hanno nessun ruolo immediato nella commissione dei crimini. In questa prospettiva, è proprio con riferimento ai lager nazisti, in particolare nei processi celebrati nell'ambito della Legge N. 10 del Consiglio di Controllo Alleato per la Germania[6], che si è applicata ai crimini internazionali, e sviluppata conseguentemente, la responsabilità per le condotte di agevolazione[7].

 

2. La giurisprudenza tedesca relativa ai processi in cui gli imputati erano membri del personale dei lager nazisti, si è sempre basata su una premessa implicita fondamentale, confermata anche dal Bundesgerichtshof [8]: la distinzione fra campi di concentramento in cui veniva portata avanti anche l'operazione di sterminio (in particolare Auschwitz e Majdanek) e i 'campi di puro sterminio' (Sobibór, Treblinka II, Belzec e Chelmno). La distinzione non si basa sui tassi di mortalità, invero non eccessivamente differenti, quanto su struttura ed organizzazione funzionale. I secondi infatti erano finalizzati al mero sterminio immediato dei deportati e pertanto anche la struttura era di ridotte dimensioni (Sobibór ad esempio aveva un'estensione di circa 400x600 metri e vi prestavano servizio non più di 30-35 SS o poliziotti, affiancati da prigionieri addestrati come collaboratori, per un numero massimo di 150). Ad Auschwitz invece, anche se fondamentalmente nessuno doveva comunque sopravvivere al campo, lo sterminio immediato era riservato a chi non superava la selezione iniziale, mentre un numero significativo di deportati restava internato nel campo (nelle note pessime e vessatorie condizioni). La superficie di Auschwitz-Birkenau, di conseguenza, si estendeva per 171 ettari, con un personale che superava abbondantemente le 4.000 unità. Partendo da questa premessa, le corti tedesche hanno fatto derivare una differenza di trattamento per i membri del personale dei due tipi di lager, con riferimento ai quali non fosse provato nessun legame diretto con i singoli crimini. La questione infatti si è posta per le c.d. condotte di tipo 'neutrale'[9] all'interno del campo (ad esempio lo svolgimento di attività di medico, tesoriere, dentista, panettiere etc.).

Nel caso di 'campi di puro sterminio' la giurisprudenza tedesca non ha avuto dubbi nel ritenere agevolatrici anche queste condotte 'neutrali'[10]. Alla base vi è la considerazione che in tali campi la struttura era finalizzata all'unico scopo dello sterminio immediato, con piena consapevolezza da parte di tutto il personale, che nessuna attività ivi svolta, anche se all'apparenza non materialmente collegata alle uccisioni, poteva dirsi realmente neutrale. La «macchina dello sterminio»[11] infatti funzionava grazie al lavoro coordinato di tutti gli ingranaggi e in questo senso ogni condotta del personale può assumersi come causalmente collegata all'evento. Non si è quindi richiesta nessuna prova ulteriore rispetto a quella dell'aver prestato servizio nel campo e alla funzione è stata ricollegata la responsabilità penale. Per capire in concreto quali fatti penalmente rilevanti ascrivere all'agevolatore, si è applicato il criterio del numero dei morti nel periodo di servizio dell'imputato, con detrazioni forfettarie in caso di permessi e per sottrarvi il numero delle morti che non fossero conseguenza diretta dell'operazione di sterminio.

Nel caso invece dei campi di Auschwitz e Majdanek, sia i giudici di merito che il Bundesgerichtshof hanno sempre rifiutato un tale automatismo, richiedendo la prova del contributo causale, materiale o morale, al singolo fatto penalmente rilevante. Ciò persino nei casi di medici impiegati nel lager, dei quali si era provata la presenza, al momento di arrivo dei convogli, sulla c.d. rampa dei treni. Si è escluso che la mera presenza in camice in tale luogo, senza la prova che il singolo medico abbia partecipato anche alla procedura di selezione, costituisca un contributo causale allo sterminio. Si è quindi negato che la presenza di medici in camice servisse a conferire un minimo di 'residua normalità' alla situazione ed infondere false speranze di sopravvivenza nei deportati prima della terribile selezione, permettendo così una procedura più rapida ed efficiente[12].

La sentenza Gröning non prende una posizione netta circa la premessa concettuale che ha orientato la giurisprudenza precedente. Essa, da un lato, imputa a Gröning tutte le morti avvenute nel lager durante la c.d. Operazione Ungheria (l'operazione che estendeva agli ebrei ungheresi i metodi di persecuzione e sterminio dell'Operazione Reinhardt), dall'altra però non dichiara espressamente che ciò deriva semplicemente dall'incarico svolto. Al contrario si sforza di spiegare come e perché anche la condotta dell'imputato abbia costituito un contributo causalmente rilevante. All'interno delle mansioni di custodia, catalogazione e trasferimento dei beni da parte di Gröning, dirimente è stata considerata la sua presenza sulla rampa. In tale sede infatti Gröning doveva essere presente, all'arrivo dei convogli, per prendere in custodia i beni dei deportati ed evitare che andassero persi o venissero sottratti dalle SS.

Il Landgericht ha quindi analizzato approfonditamente la posizione di Gröning sia dal punto di vista soggettivo che materiale. Quanto all'elemento soggettivo, non vi è dubbio che Gröning fosse a conoscenza dello sterminio. Egli stesso ha infatti dichiarato che al suo arrivo ad Auschwitz gli era stato spiegato che i deportati inabili al lavoro venivano «smaltiti»[13]. Una volta, trovandosi per il suo servizio presso il forno crematorio, il responsabile di questo, suo conoscente, aveva aperto un oblò dal quale Gröning aveva sentito uscire delle grida, seguite da silenzio. Poco dopo aveva anche visto un forno, dal quale usciva puzza di carne bruciata. Ancora, aveva assistito alla brutale uccisione di un neonato presso la rampa, preso per i piedi da un SS e sbattuto contro il vagone del treno. Gröning aveva protestato con i suoi superiori per la brutalità di tale violenza, a suo dire non necessaria, a differenza del generale «smaltimento», che egli invece giustificava con le necessità che gli venivano spiegate dai superiori e dall'ideologia nazista. Gli era stato tuttavia intimato di limitarsi a compiere il suo dovere.

 

3. Molto più controversa la questione del contributo oggettivamente fornito. Valutate le mansioni dell'imputato e considerando che è noto, anche per ammissione dello stesso, che molti dei beni (in particolar modo quelli alimentari) finivano alle SS del campo e che si «chiudeva un occhio» sulle sottrazioni da parte di questi ultimi, il Landgericht si è interrogato sulla vera funzione della presenza di Gröning alla rampa al momento degli arrivi. L'imputato ha sempre ribadito come il proprio compito fosse esclusivamente quello di custodire e raccogliere i beni dei deportati ed infatti era sì in uniforme, ma armato di sola pistola e non di fucile come le SS sorveglianti. I giudici tuttavia, in composizione di Corte d'Assise, hanno ritenuto che, più che a tale scopo formale, la presenza di Gröning fosse molto più funzionale allo sterminio organizzato dell'Operazione Reinhardt. Discostandosi quindi dalla precedente giurisprudenza relativa ad Auschwitz, il Landgericht ha considerato che la mera presenza dell'imputato alla rampa, armato e in uniforme, costituisse una forma di deterrenza per i deportati e di disincentivo di tentativi di fuga o ribellione, consentendo quindi che la procedura di selezione (cui però l'imputato non prendeva parte), e quindi l'operazione di sterminio, si svolgessero con maggiore ordine e regolarità. Un ulteriore contributo è stato poi rinvenuto nell'aver raccolto il denaro dei deportati e averlo portato a Berlino, mettendolo a disposizione delle SS, gruppo che coincide con gli autori materiali dei crimini.

Una volta ritenuto sussistente sia l'elemento soggettivo relativo al reato altrui, che il contributo oggettivo, il Landgericht ha dovuto riflettere sull'elemento soggettivo relativo all'efficacia causale del contributo rispetto allo sterminio. A questo riguardo l'imputato aveva dichiarato come solo oggi gli sia apparso chiaro che con la propria attività, garantendo il funzionamento di Auschwitz, egli ha indirettamente avuto un ruolo anche nelle uccisioni, mentre all'epoca riteneva di non averci nulla a che fare. Nella fattispecie ha parlato di una «rimozione, che oggi non gli è comprensibile»[14] e di un'abitudine ad accettare la «comodità dell'obbedienza»[15]. La Corte d'Assise ha però stabilito che Gröning era a conoscenza sia del fatto che i furti ad Auschwitz fossero all'ordine del giorno, che del permissivismo circa le appropriazioni dei beni dei deportati da parte delle SS. Da questo la Corte ha dedotto che egli non poteva non comprendere la vera funzione svolta con la propria presenza sulla rampa e quindi non poteva non comprendere che egli stava indirettamente sostenendo lo sterminio. Al contrario, le spiegazioni da lui fornire testimonierebbero che egli, scegliendo la suddetta «comodità», «ha scelto di rendersi - secondo le sue stesse parole - "corresponsabile[16].

Come si può notare, la sentenza non applica alla struttura del campo di Auschwitz l'automatismo pensato per i 'campi di puro sterminio', per cui la responsabilità debba dedursi dalla semplice partecipazione alla gestione del lager. I giudici non affrontano tale distinzione astratta e si sforzano di rinvenire un contributo materiale dell'imputato ed un'adesione soggettiva, a fondamento della sua partecipazione.

Tale ricostruzione potrebbe tuttavia prestarsi a delle critiche, specialmente nel punto principale della motivazione, ossia nella qualificazione della mera presenza alla rampa, in uniforme, come uno strumento di deterrenza nei confronti dei deportati, i quali non sarebbero stati in grado di distinguere il suo ruolo da quello delle SS addette alla sorveglianza. Questo sarebbe stato un contributo alle uccisioni, nella misura in cui avrebbe reso più efficiente la procedura di selezione e di sterminio. È evidente come, così argomentando, la Corte d'Assise si sforzi di fondare la condanna sul piano causale, al fine di rinvenire un contributo oggettivo e soggettivo dell'imputato alle operazioni di sterminio. Da un lato residuano dei dubbi sulla persuasività di una tale argomentazione. Dall'altro è evidente la consapevolezza (implicita) dei giudici che sentenze di condanna fondate su una motivazione analoga a quella del personale dei 'campi di puro sterminio' sono già state annullate in passato dal Bundesgerichtshof, in altri casi relativi al personale di Auschwitz[17].

Ciò che invece il caso Gröning pare suggerire è che la condotta dell'imputato non possa e non debba essere considerata fra le condotte 'neutrali', non tanto perché essa fosse effettivamente collegata allo sterminio sul piano causale, bensì perché essa permetteva il regolare ed efficiente funzionamento di una 'macchina', il cui scopo ultimo era in ogni caso lo sterminio.

 

4. Nelle sue dichiarazioni, Gröning aveva fatto riferimento al già citato concetto di «comodità dell'obbedienza»[18]. Con riferimento a ciò, i giudici si sono soffermati ad analizzare in che cosa consistesse tale comodità e quali vantaggi avesse l'imputato nell'ubbidire. Gröning infatti aveva giustificato la propria obbedienza anche sulla base della costante paura di essere allontanato dal suo posto di lavoro. Egli era infatti consapevole che, in quanto SS, se avesse lasciato Auschwitz sarebbe stato molto probabilmente assegnato al temuto fronte sovietico, dove già suo fratello era deceduto. Pur non avendo l'imputato posto tale motivazione alla base di una specifica istanza di stato di necessità scriminante, la Corte d'Assise ha vagliato autonomamente tale ipotesi e ne ha escluso la sussistenza.

In questo senso, si può notare che, fondando la condanna sul piano causale, la sentenza Gröning ha ottenuto indirettamente un altro effetto. Essa aggiunge infatti un forte carattere stigmatizzante della condotta dell'imputato, perché ne sottolinea l'adesione soggettiva, che diventa paradossalmente ancora più vituperata sul piano etico, in quanto data da ragioni di opportunismo, con auto-rimozione del proprio coinvolgimento nel destino altrui. La sentenza pare quindi voler implicitamente lanciare anche un messaggio all'opinione pubblica, una condanna ufficiale, da parte di un tribunale tedesco, di ogni adesione soggettiva indiretta e opportunistica allo sterminio nazista, giustificata appunto dalla «comodità dell'obbedienza».

È prematuro dire se questa sentenza segnerà l'ultima parola della giustizia federale tedesca con riferimento ai lager nazisti o se invece possa aprire la strada ad altri procedimenti nei confronti di qualche altro membro del personale dei lager. Se si arriverà ad una pronuncia del Bundesgerichtshof, sarà interessante osservare come i giudici valuteranno questa motivazione, che formalmente non nega la precedente giurisprudenza e che si sforza di fondare la condanna sulla diversa prospettiva dell'effettività del contributo fornito dal partecipe.

 


[1] LG Lüneburg, 15.07.2015 27 Ks 1191 Js 98402/13 (9/14)

[2] Per un commento a tale sentenza si rinvia a Werle G. - Burghardt B., La punibilità del partecipe nelle uccisioni di massa nei campi di sterminio nazisti -  Il caso Demjanjuk nel contesto della giurisprudenza federale tedesca, in Jus17@unibo.it, n. 2, 2015.

[3] Si veda al riguardo Rees L., Auschwitz: the Nazis & the final solution, Londra, 2005, nonché l'intervista di Gröning alla rivista Der Spiegel: Geyer M., An SS Officer remembers: the bookkeeper from Auschwitz, Der Spiegel, 19, 2005, disponibile in traduzione inglese cliccando qui.  

[4] I consulenti storici sono il Dr. Stefan Hördler, direttore della Fondazione dei Memoriali di Buchenwald e Mittelbau-Dora, il Dr. Frank Bajohr, direttore del Centro Studi sull'Olocausto dell'Institut für Zeitgeschichte di Monaco di Baviera, mentre la perizia medica è stata affidata al Dr. Sven Anders, medico legale della clinica universitaria di Amburgo-Eppendorf.

[5] Particolarmente esemplificativa di tale approccio LG Münster, sentenza del 29.11.1960, Az.: 6 Ks 2/60, in Justiz und NS-Verbrechen, Bd. XVII, Lfd. Nr. 500, 17.

[6] Si veda in particolare United Kingdom v. Tesch et al. (1946) 1 L.R.T.W.C 93, tenutosi davanti a un tribunale militare britannico e meglio conosciuto come il caso Zyklon B.

[7] Ci si riferisce in particolare a quelle condotte di agevolazione che vengono definite di aiding and abetting, una forma di complicità comprendente apporti di tipo materiale o morale, che abbiano avuto un effetto sostanziale nell'agevolazione o nella facilitazione della commissione del crimine, senza la necessità che tali apporti assurgano a una vera e propria condicio sine qua non. Si veda Amati E., Caccamo V., Costi M., Fronza E., Vallini A., Introduzione al diritto penale internazionale, Milano, 2010, 146.

[8] Si veda in particolare BGH, sentenza del 20.02.1969, Az.: 2, StR 280/67 in Justiz und NS-Verbrechen, Bd. XXI, Lfd. Nr. 595b, 882.

[9] Espressione usata da BGH, sentenza del 25.11.1964, Az.: 2 StR 71/64, in Justiz und NS-Verbrechen, Bd. XXI, Lfd. Nr. 594c, 352.

[10] Ibidem.

[11] LG Hagen, sentenza del 20.12.1966, Az.: 11 Ks 1/64 in Justiz und NS-Verbrechen, Bd. XXV, Lfd. Nr. 642a, 219.

[12] Critici verso questa giurisprudenza Werle G. - Burghardt B., La punibilità del partecipe nelle uccisioni di massa nei campi di sterminio nazisti -  Il caso Demjanjuk nel contesto della giurisprudenza federale tedesca, cit. 353. Ivi anche l'uso dell'espressione «residua normalità».

[13] Pag. 8 della sentenza che si commenta.

[14] Pag. 29 della sentenza che si commenta.

[15] Pag. 11 della sentenza che si commenta.

[16] Pag. 29 della sentenza che si commenta.

[17] Supra, cit. 8.

[18] Supra, cit. 15.