ISSN 2039-1676


11 marzo 2011 |

Tre sentenze sulla 'custodia di sicurezza' (Sicherungsverwahrung) nell'ordinamento tedesco, e sull'obbligo dello Stato di adeguarsi ai giudicati della Corte

Nota a Corte EDU, sez. V, sent. 13.01.2011, Pres. Lorenzen, ric. n. 17792/07, Kallweit c. Germania; sez. V, sent. 13.01.2011, Pres. Lorenzen, ric. n. 20008/07, Mautes c. Germania; sez. V, sent. 13.01.2011, Pres. Lorenzen, ric. nn. 27360/04 e 42225/07, Schummer c. Germania

SOMMARIO:
 
1. Il precedente M. c. Germania
2. Le vicende all'origine dei tre casi decisi dalla Corte EDU lo scorso 13 gennaio
3. Il contrasto giurisprudenziale sull'esecuzione nell'ordinamento interno di M. c. Germania
4. Il decisum della Corte europea
5. L'esecuzione dei giudicati della Corte nell'ordinamento tedesco: il richiamo all'art. 46 CEDU
 
 
1. Il precedente M. c. Germania
 
Con tre recenti sentenze contro la Germania, la Corte europea dei diritti dell’uomo è tornata a pronunciarsi sulla legittimità convenzionale dell’applicazione retroattiva del nuovo e più duro regime di durata della misura personale detentiva della custodia di sicurezza (Sicherungsverwahrung).
 
Tale misura specialpreventiva, in origine applicabile per un massimo di dieci anni, nel gennaio del 1998 aveva appunto conosciuto una modifica del proprio regime di durata, che dunque oggi non risulta più limitata nel massimo (art. 67d § 3 codice penale tedesco). Il nuovo regime ha operato retroattivamente, cioè anche con riferimento a fatti commessi prima della modifica del 1998, coerentemente con la funzione specialpreventiva e la natura di misura di sicurezza riconosciuta alla Sicherungsverwahrung dai giudici tedeschi.
 
Con la sentenza 17 dicembre 2009, M. c. Germania (ric. n. 19359/04), la Corte di Strasburgo si era occupata proprio di un caso di applicazione retroattiva del nuovo e più severo regime di durata della custodia di sicurezza: di un caso, quindi, in cui il ricorrente si era visto prolungare la custodia – ordinata con la sentenza di condanna che lo aveva riguardato – oltre il limite dei dieci anni. La Corte aveva concluso per la violazione dell’art. 5 § 1 lett. a), che considera legittima privazione della libertà personale la detenzione legale risultante da una condanna pronunciata da un giudice competente, e dell’art. 7 Cedu, che enuncia il principio di legalità e di irretroattività dei reati e delle pene.
 
Sotto l’angolo visuale dell’art. 5 Cedu, in particolare, la Corte aveva ritenuto che l’applicazione retroattiva del nuovo regime di durata della custodia di sicurezza avesse comportato la rottura della connessione causale tra la condanna e la privazione della libertà personale seguita al prolungamento della custodia oltre i dieci anni, connessione richiesta dalla disposizione convenzionale come interpretata dalla giurisprudenza di Strasburgo.
 
Sotto l’angolo visuale dell’art. 7 Cedu, invece, la Corte, facendo applicazione dei comuni criteri che definiscono la pena ai sensi della Convenzione europea – e cioè il legame della misura afflittiva nazionale con la condanna per un’infrazione e la natura e lo scopo della misura stessa, che deve essere punitivo e dissuasivo –, aveva considerato la Sicherungsverwahrung coperta dal principio di irretroattività in quanto vera e propria pena. Più in particolare, la Corte aveva rilevato come la custodia di sicurezza fosse stata inflitta a seguito di una condanna, così ravvisando nella misura uno scopo dissuasivo. Inoltre, la Corte aveva sottolineato come il concreto trattamento offerto ai soggetti interessati da tale misura non potesse dirsi teso a ridurre la loro pericolosità sociale e che, quindi, non fosse possibile distinguere la custodia di sicurezza da una pena in senso formale.
 
 
2. Le vicende all'origine dei tre casi decisi lo scorso 13 gennaio
 
Nel caso che ha originato la sentenza Kallweit c. Germania, che può leggersi in calce al presente documento, il ricorrente – ancora internato al momento della pronuncia della Corte europea – veniva condannato nel 1992 a tre anni e sei mesi di reclusione per abuso sessuale su minore. La sentenza di condanna ordinava anche la custodia di sicurezza, da cominciare a scontarsi una volta terminata la pena detentiva.
 
Nel marzo 2006 il ricorrente, raggiunti i dieci anni di Sicherungsverwahrung, chiedeva al giudice di porre termine all’internamento. Il giudice tuttavia riteneva applicabile retroattivamente il nuovo regime di durata della custodia di sicurezza, ordinando la proroga della misura e motivando il provvedimento sulla base dell’ancora attuale pericolosità sociale del ricorrente. Questi non riusciva a trovare soddisfazione nei successivi gradi di giudizio. La custodia di sicurezza veniva poi ulteriormente prolungata con due decisioni prese dai giudici tedeschi in occasione di altrettante istanze di revisione proposte dal ricorrente. Il ricorrente si duole dunque avanti alla Corta europea della violazione degli artt. 5, co. 1 e 7 Cedu.
 
Nel caso considerato dalla sentenza Mautes c. Germania, il ricorrente – ancora internato al momento della pronuncia della Corte europea – veniva condannato nel 1991 a sei anni di reclusione per vari fatti di violenza, anche sessuale. La sentenza di condanna ordinava anche di applicare la custodia di sicurezza una volta scontata la pena.
 
Poco prima che fossero trascorsi dieci anni di Sicherungsverwahrung, il giudice nell’ottobre del 2006 ordinava la proroga della misura avvalendosi del nuovo regime di durata per essa previsto, e motivando la sua decisione sulla base del pericolo ancora attuale che il ricorrente potesse tornare a delinquere. Rigettati i vari ricorsi proposti dall’interessato, la custodia di sicurezza veniva poi nuovamente prolungata in occasione dei giudizi di revisione. Il ricorrente lamenta anche qui la violazione degli artt. 5, co.1 e 7 Cedu.
 
Nel caso deciso con la sentenza Schummer c. Germania, infine, il ricorrente veniva condannato nel 1985 a cinque anni di prigione per violenza sessuale. La sentenza di condanna ordinava anche la custodia di sicurezza, da eseguirsi una volta terminata la pena. Nel 1999 il ricorrente aveva trascorso già dieci anni di Sicherungsverwahrung, ma nonostante ogni ricorso e istanza di revisione i giudici tedeschi prorogavano la misura, motivando sulla base dell’ancora attuale pericolosità sociale dell’interessato, fino al 10 settembre 2010, giorno in cui la Corte d’appello di Karlsruhe ordinava di porre termine alla custodia di sicurezza, riferendosi ad una sentenza della Corte di cassazione, IV sezione, del 12 maggio 2010, che aveva interpretato il codice penale in conformità alla sentenza M. c. Germania della Corte di Strasburgo. Più in particolare, la Corte di cassazione tedesca aveva così ragionato: l’art. 2 co. 6 del codice penale prevede che le decisioni giudiziali sulle misure di sicurezza debbano basarsi sulla legge in vigore al momento (non della commissione del fatto di reato ma) delle decisioni stesse, salvo che la legge preveda altrimenti; l’art. 7, come interpretato dalla Corte europea, deve considerarsi una legge che prevede altrimenti, dal momento che la Corte di Strasburgo ha stabilito che la custodia di sicurezza va considerata come una pena, coperta come tale dal principio di irretroattività sancito per la materia penale dall’art. 7. Il ricorrente si duole fondamentalmente della violazione degli artt. 5, co.1, 7, e 3 – divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti – Cedu oltre che dell’art. 4, co. 1 del Settimo Protocollo allegato alla Convenzione europea – che enuncia il principio del ne bis in idem sostanziale.
 
 
3. Il contrasto giurisprudenziale sull’esecuzione nell’ordinamento interno di M. c. Germania
 
In tutte e tre le sentenze in commento la Corte europea, prima di passare all’esame delle questioni, dà conto del contrasto giurisprudenziale che in questi giorni vede divisi i giudici tedeschi sulla possibilità di dare seguito nell’ordinamento interno alla sentenza M. c. Germania.
 
Alcuni giudici di appello, infatti, si sono uniformati alla citata pronuncia del 12 maggio 2010 della quarta sezione della Corte di cassazione, ponendo termine alla custodia di sicurezza di coloro che, per fatti commessi prima del 1998, avevano già superato i dieci anni di internamento.
 
Altri giudici di appello, al contrario, si sono rifiutati di procedere in questo senso, ritenendo che il testo del codice penale non consenta un’interpretazione conforme agli artt. 5 e 7 Cedu: infatti, la sezione 1a del § 3 dell’Introduzione al codice penale stabilisce espressamente che l’abolizione del limite massimo di durata della custodia di sicurezza si applica anche a coloro che hanno commesso il fatto prima dell’entrata in vigore della modifica. Secondo questi giudici, quindi, spetterebbe soltanto al legislatore dare esecuzione a M. c. Germania.
 
La questione è stata comunque fatta oggetto di diversi “rinvii preliminari” alla Corte di cassazione tedesca, tesi ad ottenere appunto la soluzione del contrasto. Peraltro, la quinta sezione della Corte di cassazione, con una sentenza del 9 novembre 2010, ha affermato che gli internati per fatti commessi prima del 1998 che hanno già superato i dieci anni di Sicherungsverwahrung non possano essere liberati automaticamente: tuttavia, alla luce della pronuncia M. c. Gemania, l’art. 67d § 3 del codice penale va interpretato restrittivamente, e l’applicazione retroattiva dei nuovi termini di durata della custodia di sicurezza può giustificarsi solo in caso di estremo pericolo che l’interessato, una volta riacquistata la libertà, possa commettere i più gravi reati sessuali o comunque di violenza.
 
 
4. Il decisum della Corte europea
 
La Corte considera di trovarsi di fronte a tre follow-up cases rispetto a quello oggetto della sentenza M. c. Germania. Riconosce dunque, sulla base di motivazioni identiche a quelle spese nel citato precedente, la violazione dell’art. 5 § 1 lett. a) e dell’art. 7 Cedu.
 
Precisa che il prolungamento della privazione della libertà personale subito dai ricorrenti oltre il limite dei dieci anni e slegato da ogni sufficiente connessione causale con la sentenza di condanna non può apparire giustificato nemmeno sotto l’angolo dell’art. 5, co. 1 lett. c) ed e), che rispettivamente consentono la privazione della libertà quando si tratti di prevenire la commissione di un reato o l’interessato sia un malato di mente.
 
Con riguardo al caso Schummer, infine, la Corte esclude che il prolungamento della privazione della libertà personale oltre i limiti previsti al momento della commissione del fatto abbia superato quel minimo livello di gravità oltre il quale un trattamento può essere considerato inumano e degradante. La Corte quindi nega la violazione dell’art. 3 Cedu tenendo anche conto della buona fede delle autorità nazionali, senza peraltro rinunciare a ricordare che lasciare un individuo nell’incertezza con riguardo al termine della misura privativa della libertà personale che lo riguarda può in certi casi rilevare sotto l’angolo della considerata disposizione convenzionale, ossia dell'art. 3 Cedu. Sempre con riguardo al caso Schummer, la Corte esclude anche la violazione dell’art. 4, co. 1 del Prot. 7 Cedu, non ravvisando nella vicenda alcuna violazione del principio del ne bis in idem sostanziale.
 
 
5. L'esecuzione dei giudicati della Corte nell'ordinamento tedesco: il richiamo all'art. 46 Cedu
 
Con riguardo ai casi Kallweit e Mautes, che vedono i ricorrenti ancora internati al momento della decisione del ricorso, la Corte europea ritiene che, tenuto conto delle circostanze concrete, occorra determinare quali conseguenze si debbano trarre dall’art. 46 della Convenzione, che obbliga gli Stati aderenti a dare esecuzione alle sentenze della Corte che li riguardino.
 
La Corte ricorda che l’art. 46, più precisamente, fonda un obbligo per lo Stato condannato di adottare tutte le misure generali e individuali necessarie a porre fine alla violazione accertata dalla Corte e ad eliminarne gli effetti per quanto possibile. In alcuni casi eccezionali, nondimeno, la Corte può addirittura indicare allo Stato membro quali siano le singole misure da adottare – ad esempio la liberazione del ricorrente – quando la natura della violazione imponga determinate misure e solo quelle.
 
Con riferimento ai casi oggetto dei ricorsi, essa rileva che alcune Corti di appello e la Corte di cassazione hanno già interpretato il codice penale in senso conforme alla Convenzione. Tenuto conto tra l’altro del criterio di sussidiarietà che regola la giurisdizione della Corte europea, i giudici di Strasburgo non ritengono necessario, al momento, indicare allo Stato convenuto alcuna misura generale o individuale da adottare in esecuzione della propria pronuncia, ma esortano comunque le autorità nazionali ad assumersi la responsabilità di assicurare al più presto al ricorrente il suo diritto alla libertà personale.