ISSN 2039-1676


9 giugno 2011 |

La Corte di Strasburgo ritorna sulla custodia di sicurezza nell'ordinamento tedesco: la difesa sociale non ammette il sacrificio delle garanzie convenzionali

Nota a Corte EDU, sez. V, sent., Pres. Spielman, ric. n. 30060/04, Jendrowiak c. Germania

Nel caso oggetto della pronuncia in epigrafe, il ricorrente – stupratore seriale – veniva nuovamente condannato nel 1990 a tre anni di reclusione per tentata violenza sessuale. La sentenza di condanna ordinava l’esecuzione al termine della pena della custodia di sicurezza (Sicherungsverwahrung), misura detentiva personale con funzione specialpreventiva in origine applicabile fino a dieci anni, che tuttavia nel gennaio del 1998 aveva conosciuto una modifica del proprio regime di durata, così da non risultare più limitata nel massimo.
 
Nel 2002 il ricorrente aveva trascorso già dieci anni di custodia di sicurezza, ma nonostante ogni ricorso e istanza di revisione i giudici tedeschi prolungavano la misura fino al 2009, applicando retroattivamente la novella del 1998 e motivando sulla base dell’ancora attuale pericolosità sociale dell’interessato. Il ricorrente si rivolgeva quindi alla Corte europea, lamentando fondamentalmente la violazione degli artt. 5, co.1, lett. a) Cedu e 7 Cedu.
 
La Corte ha ritenuto di trovarsi davanti ad un follow-up case rispetto a quello oggetto della sentenza M. c. Germania del 17 dicembre 2009. Con questa pronuncia, infatti, i giudici di Strasburgo si erano occupati proprio di un caso di applicazione retroattiva del nuovo e più severo regime di durata della custodia di sicurezza. I giudici avevano concluso per la violazione di entrambe le disposizioni convenzionali. Sotto l’angolo visuale dell’art. 5 Cedu, i giudici avevano ritenuto che l’applicazione retroattiva del nuovo regime di durata della custodia di sicurezza avesse comportato la rottura della connessione causale tra la condanna e la privazione della libertà personale seguita al prolungamento della custodia oltre i dieci anni, connessione richiesta dalla disposizione convenzionale come interpretata dalla giurisprudenza di Strasburgo. Sotto l’angolo visuale dell’art. 7 Cedu, i giudici, facendo applicazione dei comuni criteri che definiscono la pena ai sensi della Convenzione europea – e cioè il legame della misura afflittiva nazionale con la condanna per un’infrazione e la natura e lo scopo della misura stessa, che deve essere punitivo e dissuasivo –, avevano considerato la Sicherungsverwahrung come coperta dal principio di irretroattività in quanto vera e propria pena. Più in particolare, i giudici avevano rilevato come la custodia di sicurezza fosse stata inflitta a seguito di una condanna, così ravvisando nella misura uno scopo dissuasivo. Inoltre, i giudici avevano voluto verificare il concreto trattamento offerto ai soggetti interessati da tale misura, che non poteva dirsi teso a ridurre la pericolosità sociale e che, quindi, non permetteva di distinguere la custodia di sicurezza da una pena in senso formale.
 
La Corte ha così potuto facilmente pervenire alla condanna dello Stato convenuto anche nel caso in commento, peraltro approfittando dell’occasione per fare un’importante precisazione sui rapporti tra esigenze di difesa sociale e garanzie individuali. La Corte infatti, si dice consapevole del fatto che i giudici interni hanno applicato retroattivamente la novella del 1998 sulla base del perdurante rischio che l’interessato, se liberato, commettesse nuovi crimini, in particolare nuovi stupri, e dunque per proteggere le potenziali vittime da danni fisici e psicologici costituenti trattamenti inumani o degradanti. In effetti, l’art. 3 Cedu, come interpretato dalla giurisprudenza di Strasburgo, obbliga gli Stati aderenti ad adottare misure idonee ad evitare che le persone nella loro giurisdizione subiscano torture o trattamenti inumani o degradanti, che possono consistere anche in maltrattamenti perpetrati da privati. Tuttavia, la Corte afferma che un tale obbligo positivo di tutela deve contemperarsi con la necessità che gli Stati esercitino il loro potere di controllo e di prevenzione del crimine nel pieno rispetto del giusto processo e delle altre garanzie che pongono limiti agli scopi della loro azione, in particolare delle garanzie sancite dall’art. 5 e, a maggior ragione, dall’art. 7 Cedu, che non prevede deroghe nemmeno in caso di guerra o altre emergenze ai sensi dell’art. 15 Cedu. In altre parole, la Convenzione europea pone sugli Stati aderenti obblighi positivi di tutela, ma non permette che gli Stati proteggano gli individui dai comportamenti criminali di una persona utilizzando misure che violino i diritti convenzionali di quella stessa persona.