ISSN 2039-1676


21 novembre 2016 |

Parla il "giudice dei lasciati indietro". A proposito del libro di Paulo Pinto de Albuquerque, I diritti umani in una prospettiva europea, a cura e con un saggio di Davide Galliani, prefazione di Paola Bilancia, Giappichelli, Torino, 2016.

Recensione

“I do not like borders, I prefer bridges”. La massima, che Davide Galliani riproduce nella sua Premessa al libro del giudice Paulo Pinto de Albuquerque – definito da un collega “the judge of the left behind” – basterebbe di per sé a invogliare alla lettura di un’opera che stupisce e cattura non solo perché rappresenta una benvenuta novità nel panorama editoriale italiano, ma soprattutto per la sua autoevidente utilità per tutti gli operatori e gli studiosi del più appassionante dei “diritti”.

Seguire gli sviluppi della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dovrebbe rappresentare – parafrasando Hegel – “la preghiera mattutina” del giurista. Intanto, per la fondamentale ragione che, se la Convenzione dei diritti dell’Uomo è ancora alive and kicking  dimostrando, anzi, una sorprendente capacità di contaminazione degli ordinamenti nazionali, il merito deve ascriversi, anzitutto, alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, vero e proprio cuore pulsante e motore di sviluppo di quel patrimonio di diritti fondamentali della persona umana che – come ci ricorda Zagrebelsky – fa dell’Europa un modello di civiltà giuridica per tutto il resto del mondo.

Ma, il libro che raccoglie le opinions del giudice europeo Pinto de Albuquerque, arricchito dalla Prefazione di Paola Bilancia e dal saggio introduttivo di Davide Galliani che ne costituisce non ancillare ma, anzi, indispensabile chiave di lettura, è anche uno strumento prezioso per consolidare quella sempre più necessaria collaborazione tra giudici e corti nazionali e giudice europeo che forma l’architrave su cui poggia il sistema integrato di protezione dei diritti in Europa.

E proprio il fatto di cum laborare presuppone reciproca conoscenza e riconoscibilità dei meccanismi e delle procedure attraverso le quali si genera, con il faticoso travaglio che è caratteristica di tutti i fenomeni creativi, la materia prima che alimenta e rinnova il tessuto del corpus dei diritti fondamentali della persona e che è – prima di tutto – un fenomeno di matrice giurisprudenziale, con tutte le criticità che un tale sistema comporta ma che non ha alternativa di fronte alla complessità dei rapporti umani e del numero e varietà delle situazioni meritevoli di tutela giuridica che da essi generano, come già scriveva un giudice della Corte Suprema americana negli anni ’20 del secolo scorso: “No doubt the ideal system, if it were attainable, would be a code at once so flexible and so minute, as to supply in advance for every conceivable situation the just and fitting rule. But life is too complex to bring the attainment of this ideal within the compass of human powers” (Benjamin Cardozo, 1921).        

Questa necessità di “conoscere per capire” appare ancor più pressante e di difficile assolvimento nel caso della produzione giurisprudenziale CEDU, laddove l’accesso diretto alla fonte è reso problematico non solo dalla barriera linguistica, ma dalla stessa limitatezza degli strumenti conoscitivi, dal momento che non esiste una gazzetta ufficiale delle pronunce e l’unico accesso resta il sito ufficiale della Corte. Di più, il giurista italiano è obbligato a tenere conto di altri fattori, peculiari alla materia, costituiti, da una parte, dal principio sancito dalla nostra Corte costituzionale, per cui il giudice ha l’obbligo di attenersi alla “giurisprudenza consolidata” della Corte alsaziana; dall’altra parte, dal “principio di totalità”, che impone a chi si accosta alla giurisprudenza della Corte EDU di esaminarne le pronunce in tutte le loro componenti, sia dispositive che argomentative, così da coglierne non solo gli elementi che concorrono a formare quella opinione consolidata che fa sorgere in capo al giudice comune l’obbligo costituzionale di adeguamento, ma di individuare anche – compito ancor più difficile – quelle tracce argomentative e concettuali (spesso annidate nelle dissenting opinions rese da alcuni componenti del collegio giudicante e altrettanto spesso trascurate dal giurista continentale del tutto alieno rispetto a tale peculiare “voce interna” del collegio) che anticipano quelli che potrebbero essere gli scenari futuri e le linee di faglia della giurisprudenza di Strasburgo, aiutando a comprendere se la decisione assunta nel caso concreto dalla CEDU possa avere un domani e confluire nel mainstream dell’orientamento consolidato che diventa cogente al di là del caso concreto.

Dalla parte sua, la Corte EDU si pone il problema della conciliabilità dell’esigenza di assicurare un tasso minimo di prevedibilità delle proprie decisioni in un sistema fondato sul case law e “della necessità” – come scrive Davide Galliani – “di non smentirsi di continuo” anche per assicurare alle proprie sentenze quella forza che si basa piuttosto sulla auctoritas che sulla potestas, non avendo la CEDU a propria disposizione un apparato statale in grado di assicurare la coercibilità dei propri decisa ed essendo l’arsenale della Corte di Strasburgo privo di alcuni fondamentali strumenti di intervento, quali - in primo luogo - la possibilità di pronunciare declaratorie di illegittimità convenzionale delle norme statuali scrutinate.

Ecco allora, ritornando alla chiosa iniziale, l’intuizione che sta alla base del libro del giudice Pinto de Albuquerque: conoscersi reciprocamente per meglio procedere – con la fatica del laborare insieme – verso il comune obiettivo di implementare quel gioco di squadra tra giudici comuni e giudice europeo che valga ad assicurare, qui e ora, la piena ed effettiva tutela dei diritti fondamentali.   

In questa prospettiva, l’opera offre – nella sua parte iniziale – alcuni essenziali strumenti conoscitivi, in particolare sulle dinamiche di lavoro interne della Corte, sul metodo di approccio adottato rispetto ai flussi del contenzioso, sui rapporti tra la CEDU e gli Stati aderenti alla Convenzione. La parte centrale del libro, il suo vero cuore pulsante, sono però le opinions del giudice Pinto de Albuquerque, raccolte secondo un opportuno criterio sistematico che contempla anzitutto i contributi resi in relazione a decisioni della Corte europea assunte nelle materie che formano il nucleo centrale dei diritti fondamentali (diritto alla vita, diritto all’integrità fisica, diritto alla libertà), per abbracciare quindi quei diritti il cui esercizio integra la piena espressione della persona umana (diritto alla giustizia, al rispetto della vita familiare, alla libertà di espressione, e così via). Si realizza così la mission dell’Autore che – come scrive Paola Bilancia nelle pagine iniziali dell’opera – “non solo accetta di buon grado, ma che anzi desidera essere giudicato per il proprio operato e per le proprie prese di posizione dai cittadini e dagli addetti ai lavori e che con questo fine in mente redige le proprie opinioni”.

Al libro dovrebbe essere dedicata una lettura iniziale, che consente di entrare in sintonia con argomenti e profili giuridici spesso distanti dalla formazione culturale del giurista italiano, riservando ad una consultazione mirata “al bisogno” la riflessione sui molti specifici profili che la lettura delle opinions del giudice Pinto de Albuquerque sviluppa, spesso in forme di vero e proprio saggio di approfondimento scientifico.    

L’opera dovrebbe essere un livre de chevet del giurista europeo