Secondo la sentenza annotata, il delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia (art. 513 bis c.p.) è configurabile anche allorquando un imprenditore, avvalendosi della forza di intimidazione di un sodalizio criminale dominante in un determinato territorio, riesca ad imporre sul mercato la propria attività d'impresa in modo esclusivo o prevalente, pur senza aver mai direttamente compiuto alcun atto di violenza fisica o minaccia esplicita. Ciò in quanto l'utilizzo del metodo mafioso è idoneo a determinare l'assoggettamento degli imprenditori concorrenti e delle imprese del settore alla volontà ed alle regole della societas sceleris dominante, così ledendo la libertà del mercato e della concorrenza, bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice.
Questo il fatto oggetto del procedimento cautelare: il G.i.p. presso il Tribunale di Napoli ha emesso un'ordinanza di custodia cautelare in carcere a carico degli indagati per il delitto de quo, aggravato dall'utilizzo del metodo mafioso (art. 7 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, conv. l. 12 luglio 1991, n. 203), nell'ambito di più vasto procedimento penale per associazione a delinquere di tipo mafioso a carico di alcuni esponenti del clan dei Casalesi. Viene contestato agli indagati del presente procedimento di aver ottenuto, nell'ambito di tale sodalizio e grazie anche all'accordo con famiglie di spicco nell'ambito di Cosa Nostra, la gestione monopolistica ed il controllo del trasporto su gomma da e per alcuni mercati ortofrutticoli del Centro e Sud Italia. Viene, tuttavia, accolto, in sede di riesame, il ricorso presentato dagli indagati sul rilievo, ritenuto dirimente dal Tribunale di Napoli, che il delitto di cui all'art. 513 bis c.p. possa essere configurato solo quando l'imposizione di un'impresa da parte della criminalità organizzata faccia seguito all'effettivo uso di violenza o minaccia, volta ad estromettere dal mercato di riferimento uno o più concorrenti: in difetto di riscontro circa la realizzazione di atti di violenza o minaccia, l'uso del c.d. “metodo mafioso” può essere valorizzato solo ai fini della contestazione del delitto di cui all'art. 416 bis c.p. ma non consente di ritenere integrato il reato di illecita concorrenza con violenza o minaccia. Impugnata l'ordinanza di riesame dal Pubblico Ministero presso il Tribunale di Napoli, la Suprema Corte con la sentenza annotata (Cass. Pen., Sez. II, (ud. 16.12.2010) dep. 21.2.2011, n. 6462), annulla con rinvio l'ordinanza si riesame precisando, in punto di diritto, che, incriminando l'art. 513 bis c.p. “la turbativa arrecata al libero mercato in un clima di intimidazione e con metodi violenti”, l'utilizzo del metodo mafioso in quanto idoneo a condizionare le attività commerciali, industriali o produttive di terzi, lede il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice ed, in particolare, integra quell'atto di violenza o minaccia richiesti dalla norma incriminatrice per la configurazione del delitto de quo.
La Cassazione motiva la sentenza annotata inquadrando il delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia da un punto di vista storico e sistematico. L'art. 513 bis c.p. è stato, infatti, introdotto dalla legge Rognoni-La Torre (art. 8 l. 13 settembre 1982 n. 646) con il preciso obiettivo, desumibile dal complessivo impianto della normativa sebbene non esplicitato dal testo normativo, di reprimere le attività imprenditoriali gestite, direttamente o indirettamente da associazioni per delinquere, specie di tipo mafioso, e, di conseguenza, le c.d. “imprese criminali”.
Secondo la Suprema Corte la scelta di non inserire il metodo mafioso, oggi definito dall'art. 416 bis comma 3 c.p., tra gli elementi costitutivi del delitto di illecita concorrenza, ma di tipizzare, quali elementi costitutivi del reato, la mera violenza o minaccia, è stata compiuta al fine di consentire la repressione ogni forma di concorrenza sleale attuata mediante metodi violenti o intimidatori, a prescindere dalla loro riferibilità ad un sodalizio criminale. Ciò non toglie che l'uso del metodo mafioso possa rilevare al fine di fondare, almeno astrattamente e nei termini di fumus commissi delicti caratteristici del procedimento cautelare, un addebito per il delitto di cui all'art. 513 bis c.p., essendo tale condotta ugualmente pericolosa per il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice.
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La pronuncia annotata riporta all'attenzione degli interpreti un delitto poco commentato, eppure sovente oggetto di importanti pronunce di merito e legittimità. L'art. 513 bis comma 1 c.p. punisce chi, nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale o comunque produttiva, compie atti di illecita concorrenza con violenza o minaccia. La formulazione della norma incriminatrice ha lasciato ampio spazio alla giurisprudenza per definire, in modo più preciso, quali siano gli elementi caratterizzanti il delitto de quo.
Considerato da parte della giurisprudenza un reato proprio, poiché presuppone l'esercizio da parte del soggetto attivo di un'attività produttiva il cui oggetto è astrattamente lecito (cfr. recentemente Cass. Pen., Sez. VI, 22 ottobre 2008, n. 1089 in DeJure), il delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia incrimina “qualsiasi comportamento violento o intimidatorio idoneo ad impedire al concorrente di autodeterminarsi nell'esercizio della sua attività” (così Cass. Pen., Sez. IV, 22 ottobre 2008, n. 44169 in DeJure) a prescindere, per la prevalente giurisprudenza, dall'effettivo compimento di atti di illecita concorrenza ai sensi degli artt. 2595 ss. c.c. (così Cass. Pen., Sez. I, 3 febbraio 2010, n. 9750, in DeJure; Cass. 44169/2008, cit.; Cass. 1089/2008, cit.). Il reato (di pericolo) reprime in via anticipata la libertà di concorrenza “che non si vuole incrinata da prevaricazioni violente o intimidatorie” (Cass. 9750/2010, cit.) e, quindi, l'ordine economico inteso come “pacifico e normale svolgimento delle attività produttive” (cfr., anche per un confronto con il delitto di estorsione del quale la giurisprudenza pacificamente ammette il concorso con l'illecita concorrenza violenta, Cass. Pen., Sez. I, 31 marzo 2010 n. 24172; Cass. Pen., Sez. II, 10 dicembre 2008, n. 46992 entrambe in DeJure). Tale pericolo si manifesta, normalmente, quando vengano compiuti specifici atti di violenza o minaccia avverso un concorrente per imporgli di tollerare strategie anticoncorrenziali altrui ovvero di adottare di una determinata condotta nello svolgimento della propria attività produttiva.
Se tali atti anticoncorrenziali, violenti ed intimidatori, sono realizzati avvalendosi del metodo mafioso, ovvero per agevolare associazioni di tipo mafioso, il reato di illecita concorrenza sarà comunque integrato ed aggravato ai sensi dell'art. 7 d.l. 13 maggio 1991 n. 152 (conv. l. 12 luglio 1991, n. 203). Ed, inoltre, qualora tale modalità di gestione dell'attività produttiva sia realizzato dal soggetto attivo nell'ambito di un'organizzazione formata da tre o più persone che abbia come obiettivo l'acquisto, in modo diretto o indiretto, del controllo di un'attività economica, questi risponderà, ai sensi dell'art. 416 bis comma 1 e 3 c.p., anche del delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso.
Alla luce di tale quadro normativo, il rischio, paventato dall'ordinanza impugnata con il ricorso in Cassazione che ha dato luogo alla pronuncia in commento, è che l'utilizzo del metodo mafioso, venga, in modo improprio, valutato al fine di giustificare una moltiplicazione delle risposte sanzionatorie, originate, in concreto, dal medesimo fatto e, di conseguenza, al fine di dilatare, in spregio alla disciplina dettata dall'art. 297 comma 3 c.p.p., anche i termini massimi di custodia cautelare.
Il Tribunale del Riesame, infatti, avere evidenziato come in difetto della prova di specifica atti di violenza o minaccia, elementi caratterizzanti la condotta descritta dall'art. 513 bis c.p., l'avvalersi della forza di intimidazione e del vincolo di assoggettamento ed omertà che ne deriva, al fine di ottenere il controllo di attività economiche, potrà e dovrà rilevare solo per la configurazione del delitto di cui all'art. 416 bis c.p. ma non il delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia, del quale difetterebbero i presupposti.
La Cassazione, invece, sembra riproporre con la pronuncia in oggetto, per configurare il delitto di cui all'art. 513 bis c.p., argomenti analoghi a quelli ormai consolidati nella giurisprudenza di legittimità per ritenere ascrivibile al singolo sodale il delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso, a prescindere dal compimento da parte sua di atti espressivi del c.d. metodo mafioso. Nell'ambito del delitto di cui all'art. 416 bis c.p. non è richiesto, infatti, a ciascun partecipe di esercitare tale metodo, ma perché venga consumato tale delitto è sufficiente che il soggetto attivo sia consapevole che l'associazione nel suo complesso, ed a prescindere dal compimento di specifici atti di intimidazione, abbia acquisito nell'ambiente circostante un'effettiva capacità di sopraffazione della quale gli aderenti si avvalgono per il perseguimento dei propri obiettivi (così, ex pluribus, Cass. Pen., Sez. VI, 30 maggio 2001, n. 35914, Hsiang khe, in DeJure; Cass. Pen., Sez. VI, 11 gennaio 2000, n. 1612, Ferone, in DeJure). Ed invero caratteristico del metodo mafioso non è il compimento di atti di violenza o minaccia, bensì avvalersi della forza di intimidazione e del vincolo di assoggettamento ed omertà che ne deriva (ossia la capacità di sopraffazione del sodalizio) per il perseguimento degli obiettivi tipici, leciti od illeciti, dell'associazione.
Diversamente, il delitto di cui all'art. 513 bis c.p. si realizza allorquando vengano compiuti atti “anticoncorrenziali” con la violenza o la minaccia. L'interpretazione teleologica della norma incriminatrice ed il riferimento all'implicita intenzione del legislatore storico al momento della sua adozione, paiono, pertanto, difficilmente in grado di superare il tenore letterale della norma incriminatrice che richiede espressamente il compimento di atti di violenza o minaccia.
Avrebbe, probabilmente, suscitato minori perplessità, anche alla luce del radicamento sul territorio e della indubbia forza intimidatoria propria delle associazioni per delinquere di tipo mafioso coinvolte nel patto che ha garantito agli indagati la gestione monopolistica del trasporto ortofrutticolo su determinati mercati nel Centro e Sud Italia nel caso di specie, sviluppare altro argomento, pur presente in nuce nella pronuncia annotata, ossia la riconducibilità dell'accordo e delle sue, attuali e potenziali, modalità esecutive, alla categoria già nota alla giurisprudenza di legittimità della “minaccia implicita” quale minaccia “larvata, indiretta ed indeterminata” a cui viene riconosciuto lo stesso valore della minaccia esplicita, “essendo solo necessario che sia idonea ad incutere timore ed a coartare la volontà del soggetto passivo, in relazione alle circostanze concrete, alla personalità dell'agente, alle condizioni soggettive della vittima e alle condizioni ambientali, in cui questa opera” (così, in tema di estorsione, Cass. Pen., Sez. II, 20 maggio 2010, n. 19724). Così argomentando, lo sfruttamento del metodo mafioso al fine di condizionare le attività commerciali, industriali o produttive di terzi, rileverebbe solo quando, in concreto, corrispondente all'atto di violenza o minaccia (implicita), richiesto dalla norma incriminatrice per la configurazione del delitto di cui all'art. 513 bis c.p.