ISSN 2039-1676


19 settembre 2017 |

Aggravante del metodo mafioso: la Suprema Corte propone una sintesi degli elementi probatori rilevanti per l’integrazione della circostanza di cui all’art. 7 d.l. 152/1991

Nota a Cass., Sez. VI, sent. 1 marzo 2017 (dep. 23 marzo 2017), n. 14249, Pres. Ippolito, Rel. Bassi, Imp. Barbieri

Contributo pubblicato nel Fascicolo 9/2017

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1. Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione torna[1] commendevolmente a riaffermare la necessità di un solido impianto motivazionale alla base della contestazione della circostanza aggravante “del metodo mafioso” di cui all’art. 7 d.l. 152/1991, conv. in l. 201/1991[2], ed opera un’importante ricognizione delle evidenze oggettive da porsi alla base della stessa. Nonostante tale sforzo, tuttavia, come vedremo la circostanza in parola continua a risultare intrisa di ambiguità.

Nel presente caso la Cassazione è chiamata a decidere sul ricorso avverso un’ordinanza del Tribunale del Riesame di Reggio Calabria, con la quale si confermava un provvedimento applicativo di misura cautelare pronunciato dal GIP del Tribunale della medesima città, in relazione ad una tentata estorsione continuata, aggravata ai sensi dell’art. 629 c. 2 c.p. nonché, per l’appunto, ai sensi dell’art. 7 l. 12 luglio 1991, n. 203.

 

2. Secondo la prima ricostruzione del fatto, il ricorrente, un imprenditore reggino, avrebbe posto in essere atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere con la minaccia un dipendente del comune di Reggio Calabria, nella specie, Responsabile Unico del Procedimento in relazione all’esecuzione di un appalto di lavori per la riduzione del rischio idrogeologico del bacino della fiumara di Gallico, ed il direttore dei lavori sul cantiere per l’esecuzione del predetto appalto a non provvedere alla risoluzione del contratto di appalto. Quest’ultima, viceversa, sarebbe dovuta essere disposta dai suddetti soggetti, stante il permanere di informative antimafia ostative alla continuazione dell’opera nei confronti dell’impresa appaltatrice facente capo al ricorrente.

L’ordinanza di cui sopra era stata impugnata dal ricorrente – peraltro fratello di un noto esponente di un clan ’ndranghetista , tra gli altri motivi, per “violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione all’art. 7 l. 12 luglio 1991, n. 203, per avere il Tribunale omesso di motivare in modo adeguato in merito alla sussistenza del metodo mafioso”.

 

3. Nell’accogliere tale motivo di doglianza, la Corte cerca di fare chiarezza sui presupposti applicativi dell’aggravante in esame.

Essa rammenta in primis che la circostanza è configurabile anche a carico di soggetto estraneo all’associazione di tipo mafioso, purché costui delinqua ponendo in essere un “comportamento oggettivamente idoneo ad esercitare una particolare coartazione psicologica sulle persone, con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale evocata”.

In secondo luogo, e conseguenzialmente, la Cassazione sottolinea come il “carattere mafioso” del comportamento del soggetto agente non possa essere desunto dalla mera reazione della vittima.

Ebbene, secondo la Cassazione, il Tribunale del Riesame non avrebbe rispettato tali parametri ermeneutici. La Cassazione, a differenza di quanto considerato dal Collegio cautelare, ritiene infatti che il comportamento posto in essere dal ricorrente, ed in particolar la minaccia, rivolta nei confronti del dipendente comunale e del direttore dei lavori (“stu lavuru si mu cacciati a mia non facciu cchiù nuddu” ossia “se mi cacciate, questo lavoro non lo fa più nessuno”), non integri di per sé gli estremi della minaccia “di tipo mafioso”.

La condotta incriminata, ed in particolar modo l’espressione poc’anzi richiamata, è sì elemento costitutivo del delitto di estorsione, integrando quindi a tutti gli effetti la minaccia-mezzo penalmente rilevante ai sensi dell’art. 629 c.p., ma non costituisce, secondo la Corte, minaccia contraddistinta dall’utilizzo del metodo mafioso. Pertanto, la Cassazione annulla l’ordinanza impugnata limitatamente, per quanto qui rileva, all’aggravante di cui all’art. 7 d.l. 152/1991, e rinvia al Tribunale di Reggio Calabria per nuovo esame sul punto.

 

4. Il tema affrontato dalla Corte concerne, come evidente, la questione della c.d. “minaccia mafiosa” che, secondo i giudici reggini, si sarebbe sostanziata nell’avere il ricorrente fatto intendere ai due pubblici ufficiali che, qualora essi avessero disposto, nei confronti della sua impresa, la risoluzione del contratto, nessun’altra avrebbe completato l’opera, così implicitamente prospettando alle persone offese la vasta gamma di ritorsioni tipicamente legate al controllo sul territorio operato delle organizzazioni di stampo mafioso.

Della completa ricostruzione del fatto ascritto all’agente e della sua qualificazione sarà onerato il giudice al cui vaglio sarà sottoposto, nel merito, il procedimento in esame[3]; in questa sede preme, invece, sottolineare quanto segue.

La Cassazione rileva come, nonostante l’innegabile carattere intimidatorio che contraddistingue l’espressione appena ricordata, essa, di per sé, non possa fondare la contestazione dell’aggravante in esame, dal momento che, non suffragata da “ulteriori evidenze oggettive”, non può dirsi “oggettivamente idonea ad esercitare una coartazione psicologica sulle persone, avente i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale.

La Cassazione sposa qui una lettura garantista della norma, già in talune occasioni privilegiata dalla giurisprudenza (si veda ad esempio una recentissima Cass. Pen., sez. II, sent. n. 20197 del 09.02.2017, dep. 27.04.2017, in DeJure), che insiste sulla necessità di verificare che la condotta intimidatoria sia oggettivamente idonea ad ingenerare nella vittima la percezione che l’agente goda di legami con la criminalità organizzata di tipo mafioso.

Una tale interpretazione della disposizione di cui all’art. 7 d.l. 152/1991 appare rispettosa del principio di offensività, in quanto permette di punire più severamente – rispetto alla minaccia tout court, sia essa fine o mezzo, già “coperta” dalle disposizioni incriminatrici presenti nel nostro codice penale – quelle condotte che presentano un maggior grado di offensività, perché idonee ad esercitare una più forte pressione psicologica sulla vittima. Quest’ultima, infatti, per effetto della “minaccia mafiosa”, vede prospettarsi un danno futuro ed ingiusto di maggior entità e/o più probabile verificazione, proprio in quanto la minaccia proverrebbe da soggetto che gravita nella sfera di associazioni di tipo mafioso. La percezione che si instaura nella mente della vittima, generata dalla comprensione del messaggio, anche implicito, veicolato dall’autore della minaccia, deriva dalla consapevolezza delle ampie possibilità di ritorsione che l’associazione mafiosa è in grado di attivare in danno all’offeso.

 

5. Rimane, a questo punto, il problema di verificare quando una condotta risulti “oggettivamente idonea ad esercitare una coartazione psicologica sulle persone, avente i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale”.

A tal fine non può certo darsi rilievo unico o principale alla percezione dell’offeso[4]: in tal modo, infatti, si relegherebbe inaccettabilmente in secondo piano proprio l’indagine sul comportamento oggettivo tenuto dal soggetto agente.

Ecco allora che la sentenza in esame, raccogliendo e ricomponendo alcuni precedenti giurisprudenziali, cerca di elaborare, per lo meno in relazione ai reati in cui la minaccia sia elemento costitutivo, un compiuto “catalogo” di indicatori oggettivi, da cui possa desumersi il “carattere mafioso” della minaccia stessa.

Alla sentenza in epigrafe deve pertanto riconoscersi il merito di aver raccolto e ricondotto a sistema molteplici elementi che la giurisprudenza precedente aveva di volta in volta indicato come gli “indicatori oggettivi” – in quanto esteriorizzati o comunque in linea di massima verificabili – validi ad attestare l’utilizzo del metodo mafioso da parte dell’autore della minaccia.

Tali indicatori possono essere suddivisi in due categorie, a seconda che attengano al contenuto della minaccia oppure alle modalità della condotta dell’agente e alle peculiarità del contesto in cui tali manifestazioni minacciose vengono poste in essere.

Nell’ambito della prima categoria, quella attinente al contenuto della minaccia, la Corte non ha in realtà enucleato elementi utili all’identificazione della stessa.

Nella seconda, invero ampia, categoria, la Corte ha viceversa indicato elementi eterogenei che a loro volta possono essere raggruppati per soggetto o entità a cui afferiscono: l’autore della minaccia, la vittima della stessa, l’ambiente in cui l’intimidazione si consuma.

In primo luogo vengono quindi in rilievo le qualità soggettive del reo: l’atteggiamento e la gestualità dell’agente durante la consumazione del reato[5] o il coinvolgimento di questi in un procedimento per fatti di criminalità organizzata[6]; la sua vicinanza ad ambienti criminali ed in particolare i rapporti con esponenti della consorteria criminale.

In secondo luogo, la Corte dà rilievo ad un dato afferente alla vittima della minaccia, ossia al fatto che questa sia a conoscenza della vicinanza dell’agente a clan mafiosi locali, o ne abbia anche solo il “sentore”[7].

In terzo luogo la Corte indica, come ulteriore elemento di prova alla base della contestazione dell’aggravante del metodo mafioso, il contesto ambientale” in cui sono occorsi i fatti di intimidazione, e leinfiltrazioni mafiose nel tessuto economico sociale[8].

Essa conclude, infine, con un’amplissima formula, che lascia aperto il quadro degli elementi probatori sopra delineato, conferendo rilevanza ad ogni altra evidenza, afferente alla condotta del reo, idonea ed evocare, con efficienza causale, l’esistenza di un sodalizio e, quindi, idonea ad incutere il timore “aggiuntivo” della ritorsione da parte dello stesso. Con tale formula conclusiva, la Cassazione non solo fa intendere che gli elementi probatori sui quali validamente fondare la contestazione dell’aggravante sono potenzialmente infiniti, ma fornisce anche una chiave di lettura per tutti gli altri indicatori enumerati, sottolineando come la ratio sottesa alla circostanza di cui all’art. 7 consista nella maggiore incisività che la condotta intimidatoria, posta in essere con metodo mafioso, ha nei confronti della libera determinazione della vittima.

 

6. In definitiva, la Suprema Corte, nel provvedimento in commento, pare essersi mossa in una direzione “oggettivistica”, indicando parametri che, per lo meno in taluni casi, sono riscontrabili nella realtà fenomenica. In questo senso, la Cassazione sposa un orientamento garantista già affermato in talune, precedenti pronunce di legittimità (si vedano, ad esempio, Cass. pen. Sez. II, sent. n. 45321 del 14.10.2015, in Leggi d’Italia, e Cass. pen. Sez. VI, sent. n. 28017 del 26.05.2011, ivi).

La sentenza in esame ha, come sopra esposto, pregevolmente costruito un elenco di parametri dei quali il Giudice deve tenere conto ai fini della contestazione dell’aggravante di cui all’art. 7. Nonostante – e, forse, proprio in virtù di – tale operazione, alcuni interrogativi rimangono, tuttavia, aperti.

In primis: dal momento che la Corte non esplicita alcuna gerarchia nell’ambito dei parametri sopra individuati, si deve ritenere che gli stessi godano di pari importanza nell’ambito della valutazione operata dal giudice, oppure si può ipotizzare un maggior rilievo degli uni rispetto agli altri? In altre parole: è legittimo considerare dirimente la presenza di uno o più elementi, al punto da poter considerare la sussistenza degli stessi come di per sé idonea a contestare l’aggravante del metodo?

E, ancora: ipotizzando che essi godano di pari rilevanza, quanti sono gli elementi probatori da porre alla base della contestazione del metodo, tra quelli elencati? Considerando che, nella sentenza in commento, la Cassazione, pur riconoscendo la valenza intimidatoria della minaccia posta in essere dal ricorrente, non la considera sufficiente per l’affermazione della sussistenza del metodo, e viceversa richiede ulteriori evidenze, sorge spontaneo chiedersi fino a che punto la Pubblica Accusa debba spingersi a fornire la prova del metodo mafioso e, viceversa, il Giudice debba considerarla necessaria ai fini della contestazione.

In terzo, e ultimo luogo, vi è una questione strettamente legata all’interrogativo appena sopra posto: le indicazioni espresse dalla sentenza in commento in quale rapporto si collocano con le numerose pronunce di legittimità[9] le quali in passato hanno negato che la circostanza aggravante in parola possa risultare integrata in presenza di uno solo tra gli elementi sopra indicati?

A tali importanti quesiti la Corte non pare fornire soluzione. La pronuncia de qua, pur collocandosi in un’ottica garantista e pur compiendo un passo avanti nella ricostruzione della base probatoria della circostanza del metodo mafioso, non sembra, pertanto, sopire tutti i dubbi – dubbi imposti, a prescindere da ogni altra considerazione, dalla gravità delle conseguenze scaturenti già dalla sola contestazione dell’aggravante in parola. Conseguenze sulle quali la stessa sentenza in esame giustamente richiama l’attenzione, sottolineando gli effetti che l’aggravante di cui all’art. 7 cit. è in grado di esplicare, non solo – a responsabilità penale accertata – in punto di aumento di pena, ma, altresì ed ancora prima, sulla disciplina processuale del reato in relazione al quale l’aggravante è contestata[10], ed in particolare sui profili cautelari come, in primis, l’applicazione della presunzione – se pur relativa – di pericolosità sociale e di adeguatezza della custodia cautelare in carcere di cui all’art. 275 c. 3 c.p.p.

 


[1] Principio già espresso da Cass. Sez. 6, n. 21342 del 02/04/2007, Mauro, Rv. 236628.

[2] Si riporta, per comodità del lettore, il testo dell’art. 7 cit.: c.1. Per i delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà. c.2 Le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114 del codice penale, concorrenti con l'aggravante di cui al comma 1 non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall'aumento conseguente alla predetta aggravante.

[3] Sia consentito segnalare che, a parere di chi scrive, nel caso di specie sembra in realtà ricorrere una minaccia “mafiosa”, e ciò nonostante il fatto che il ricorrente sia incensurato e i due procedimenti avviati dalla DDA a suo carico siano stati archiviati. La suddetta minaccia pare, infatti, essere stata idonea ad esercitare una pressione psicologica nei confronti delle vittime avente i caratteri propri dell’intimidazione mafiosa, come peraltro da queste ultime confermato, e come potrebbe risultare non solo dal fatto di essere il ricorrente fratello di un noto boss ‘ndranghetista, ma soprattutto dalla circostanza che l’impresa del ricorrente era stata oggetto di un’informativa antimafia di segno negativo.

[4] Così, invece, un’opinione diffusa in giurisprudenza: si veda ad esempio Cass. Sez. 2, Sentenza n. 16053 del 25/03/2015 Cc. (dep. 17/04/2015), in DeJure.

[5] Cass. Pen., Sez. V, sent. n. 42818 del 19.06.2014, in DeJure, che ha ritenuto necessarie “condotte specificamente evocative di forza intimidatrice derivante dal vincolo associativo” nell’ambito della consumazione del reato aggravato.

[6] Così Cass. Pen., Sez. II, sent. n. 37516 del 11.06.2013, in DeJure, nella quale l’applicazione della circostanza viene automaticamente legata alla partecipazione, da parte dell’agente, a sodalizio di tipo mafioso.

[7] Si veda, ad esempio, Cass. Pen., Sez. 2, sent. n. 10467 del 10.02.2016, in Leggi d’Italia, che ha dato rilievo alla “pur confusa percezione [da parte della vittima] dello spessore criminale” dell’agente.

[8] Ad esempio Cass. Pen., Sez. II, sent. n. 32 del 30.11.2016 (dep. 2 gennaio 2017), in Leggi d’Italia, recente pronuncia che ha dato importanza decisiva alla collocazione ambientale nella quale si esplica la condotta intimidatoria.

[9] Ex multis: Cass. Pen., Sez. II, sent. n. 24992 del 24.05.2013, in Leggi d’Italia; Cass. Pen., Sez. VI, sent. n. 27666, del 4.07.2011, in Leggi d’Italia.

[10] Sulla capacità di talune circostanze di incidere, anche significativamente, sulla disciplina processuale, e non solo sostanziale, dei reati cui si riferiscono, cfr. amplius F. Basile, L’enorme potere delle circostanze sul reato; l’enorme potere dei giudici sulle circostanze, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 4, 2015, 1743.