28 giugno 2017 |
Sulla compatibilità tra reato di intestazione fittizia di beni (art. 12-quinquies L. 356/92) e l'aggravante de "l'aver agito al fine di agevolare l'associazione mafiosa"
Nota a Cass., Sez. I, sent. 9 novembre 2016 (dep. 6 aprile 2017), n. 17546, Pres. Vecchio, Rel. Sandrini, Ric. Martino
Contributo pubblicato nel Fascicolo 6/2017
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1. Con la sentenza in commento, la prima sezione penale della Corte di Cassazione torna ad analizzare gli elementi della fattispecie di intestazione fittizia di beni prevista dall'art. 12-quinquies L. 356/1992, nonché la sua compatibilità con l'aggravante ad effetto speciale prevista dall'art.7 L. 203/1991, dell'aver agito al fine di agevolare l'attività dell'associazione mafiosa, destinata, secondo il nostro legislatore, a colpire penalmente le condotte ed i comportamenti dei fiancheggiatori dei sodalizi criminali.
Nello specifico, la Suprema Corte, annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata e l'ordinanza del Gip del Tribunale di Reggio Calabria impositiva della misura coercitiva dell'obbligo di dimora e presentazione alla p.g. a carico dell'imputata, gravemente indiziata, in concorso con altri due coimputati, del delitto di cui all'art. 12-quinquies L. 356/1992, aggravato ex art. 7 L.203/1991.
2. Nella vicenda sottoposta al vaglio dei giudici di legittimità, uno degli imputati, con condotta accertata nel 2014, prestava il consenso, in qualità di socio amministratore titolare del 50% delle quote di una società, all'intestazione fittizia alla coimputata del restante 50% delle quote, di cui un terzo soggetto (sottoposto a custodia cautelare per il reato di cui all'art. 416-bis c.p.) era, di fatto, socio occulto e reale dominus. Dalle indagini, consistite in attività di intercettazione telefonica ed ambientale, escussione di collaboratori di giustizia e persone informate su fatti e circostanze utili alle indagini, emerge dunque a più riprese come i coimputati si siano prestati, già in sede di costituzione della società, a schermare la presenza del socio di fatto occulto attraverso il consenso prestato all'intestazione fittizia delle quote e della carica amministrativa, con il presunto obiettivo di evitare una probabile misura di prevenzione patrimoniale (di cui quest'ultimo, in passato, era già stato destinatario).
Viene appurato, inoltre, come il socio di fatto avesse originariamente condotto di persona le trattative e le pratiche di acquisto dell'attività, curato direttamente i rapporti con il commercialista e con i terzi, con i quali, in più occasioni, si era presentato come il "proprietario" della stessa, come avesse sempre deciso le operazioni finanziarie e di strategia imprenditoriale connesse alla gestione della società ricoprendovi un ruolo infungibile e non surrogabile dagli altri due coimputati, ed incamerandone gli utili.
3. L'imputata presenta ricorso per cassazione avverso il provvedimento limitativo della libertà personale, lamentando, nel primo motivo di doglianza, la violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione agli art. 273 Cod. Proc. Pen. e 12-quinquies L. 356/1992, nel secondo motivo la violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli art. 273 Cod. Proc. Pen. e art. 7 L. 356/1992, ed infine, con il terzo motivo, la violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 274 Cod. Proc. Pen. con riferimento al pericolo attuale di reiterazione del reato a fronte della risalenza della condotta al 2006.
4. Analizzando il primo motivo di ricorso, che è diretto sostanzialmente a contestare la configurabilità del reato di cui all'art. 12-quinquies L. 356/1992, la Suprema Corte ripercorre i caratteri del suddetto delitto, cercando di fare chiarezza tra i vari, e non sempre lineari, principi di diritto affermati, in passato, nella stessa sede.
5. Con riguardo all'elemento oggettivo del reato, senza dubbio trattasi di un reato a concorso necessario che può essere commesso anche da chi non sia ancora sottoposto a misura di prevenzione ed ancor prima che il relativo procedimento sia iniziato[1], per la cui configurabilità, dunque, è sufficiente l'attribuzione fittizia ad altri della titolarità o della disponibilità di denaro, beni o altre utilità, da intendersi in un'accezione ampia, che rinvia non solo alle forme negoziali tradizionalmente intese, ma a qualsiasi tipologia di atto idonea a creare un apparente rapporto di signorìa tra un determinato soggetto e il bene, rispetto al quale permanga intatto il potere di colui che effettua l'attribuzione patrimoniale, per conto o nell'interesse del quale essa è operata, e che può legittimamente includere, dunque, anche un'azienda, un'attività imprenditoriale, o una società[2].
Tutto questo, specifica la Corte, può instaurarsi sia nella fase iniziale di costituzione dell'azienda (come nel caso in questione), che nella fase successiva alla sua istituzione, qualora decida di subentrare all'interno un socio occulto che, avvalendosi dell'interposizione fittizia di persone, persegua una delle finalità previste dalla norma incriminatrice (fra le quali emerge quella di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali), senza che sia necessariamente richiesto l'apprezzamento della concreta capacità elusiva dell'operazione, trattandosi di una situazione estranea agli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice[3].
La norma in questione integra un'ipotesi di reato di pericolo, per il cui perfezionamento è sufficiente che un soggetto sottoposto o sottoponibile ad una misura di prevenzione patrimoniale ed il suo concorrente necessario pongano in essere un qualsiasi negozio giuridico capace di perseguire una delle finalità elusive della norma. In tal modo, spiegano i giudici di legittimità, la valutazione del pericolo di elusione deve essere compiuta ex ante ed in base alle circostanze che, al momento del fatto, erano conosciute o conoscibili in quella determinata situazione.
Non solo, la Suprema Corte si spinge ad affermare che il reato possa ritenersi perfezionato anche qualora le condotte abbiano ad oggetto beni che non provengono da delitto, la cui provenienza illecita sia però riconducibile alla presunzione relativa scaturente dalla pericolosità sociale particolarmente qualificata del soggetto nel cui interesse è stata realizzata l'interposizione fittizia: ciò, si sostiene, in linea con la ratio della fattispecie incriminatrice che intende contrastare le manovre elusive poste in essere da soggetti sottoponibili potenzialmente a misure di prevenzione patrimoniali, volte ad occultare la disponibilità di beni o altre utilità, anche a prescindere da un accertamento preciso della loro provenienza[4].
Per di più, si ricorda come la configurabilità del reato non sia esclusa nel caso in cui i beni del soggetto sottoposto a misura di prevenzione patrimoniale siano intestati anche a titolo oneroso, nonché a titolo gratuito o fiduciario, nei due anni precedenti alla suddetta misura, a soggetti vicini come il coniuge, i figli, le persone conviventi, i parenti e gli affini, per i quali opera la presunzione d'interposizione fittizia prevista dall'art. 26 comma 2° D. Lgs. 159 del 2011[5]. Tuttavia, si precisa che anche in tali ultimi casi la capacità elusiva dell'operazione patrimoniale non può prescindere dall'apprezzamento di elementi di fatto ulteriori rispetto all'atto del trasferimento, che consentano la ricostruzione della fattispecie incriminatrice non solo sul piano oggettivo ma anche su quello soggettivo.
6. Quanto all'elemento soggettivo del reato in questione non vi sono dubbi sul fatto che trattasi di un dolo specifico, consistente nel fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniale, non richiedendosi che la condotta integrata dai concorrenti sia posta in essere in pendenza dell'applicazione o dell'emanazione della misura (che rileva solo come indice sintomatico della relativa finalità elusiva) e prescindendosi dalla concreta possibilità di adozione della misura ablativa all'esito del procedimento, essendo integrato anche solo dal fondato timore del suo possibile inizio, prima ancora che la procedura sia intrapresa.
7. Alla stregua della suddetta ricostruzione, i supremi giudici giungono ad affermare che indiscutibile rilievo assume il fatto che il socio occulto sia indagato e sottoposto a misura custodiale per il reato di cui all'art. 416-bis c.p., trattandosi di una situazione che rende agevolmente prevedibile il verosimile inizio del procedimento di prevenzione[6]. Inoltre, la sussistenza del suddetto compendio indiziario, che ha fatto emergere l'interposizione fittizia delle quote societarie, la finalità elusiva di un eventuale procedimento di prevenzione, la consapevolezza dei precedenti procedimenti di prevenzione, il cui esito favorevole in un solo caso non precludeva comunque l'avvio di una nuova procedura basata su ulteriori elementi di fatto, insieme alla consapevolezza dello stato di custodia cautelare del socio occulto gestore della società, per il quale poi è sopravvenuta la condanna per il reato di partecipazione in associazione di stampo mafioso, è stato ritenuto, dai giudici di legittimità, correttamente valorizzato dal Tribunale in sede cautelare, con motivazione sul punto incensurabile.
8. Il secondo e il terzo motivo di ricorso, che la Suprema Corte ritiene fondati, sono analizzati congiuntamente vista la loro stretta connessione. Non vi sono dubbi, si afferma, che la circostanza aggravante ad effetto speciale prevista dall'art. 7 L. 203 del 1991 possa trovare applicazione anche in relazione al delitto previsto dall'art. 12-quinquies L. 356/1992, qualora l'occultamento giuridico dell'attività imprenditoriale di un soggetto, attraverso la fittizia intestazione ad altri, sia funzionale ad implementare la forza del sodalizio di stampo mafioso, determinando un accrescimento della sua posizione sul territorio attraverso il controllo di un'attività economica[7].
Fondamentale, inoltre, in relazione al dolo specifico del fine favorire l'associazione di stampo mafioso, richiesto per la contestazione dell'aggravante, è che l'attività di intestazione fittizia del soggetto agente sia direttamente improntata al perseguimento di tale finalità, ossia funzionale al raggiungimento degli interessi del sodalizio criminale, che da tale condotta può trarre mezzi, forza e prestigio per esercitare il proprio predominio sul territorio. Non è ritenuto sufficiente alla configurazione dell'aggravante, per contro, che l'attività di interposizione fittizia posta in essere dal soggetto attivo, persegua gli interessi di un singolo associato, quand'anche si tratti di un esponente apicale della cosca, né che quest'ultima possa trarre benefici indiretti dalla finalizzazione della condotta a favorire il singolo compartecipe[8].
9. Nel caso in questione, perciò, la Suprema Corte ritiene non legittimamente configurabile l'aggravante ex art. 7 L. 356/1992, in quanto non compiutamente provata la specifica e diretta finalità di agevolare l'attività dell'organizzazione criminale, la quale sarebbe stata affermata dall'ordinanza impugnata in termini essenzialmente assertivi e privi di reale contenuto argomentativo, limitandosi semplicemente (e come spesso accade) a valorizzare la caratura mafiosa del socio occulto, senza però esplicitare le ragioni per le quali l'obiettivo (direttamente) perseguito dall'imputata con la sua condotta sarebbe stato non solo e non tanto quello di favorire l'interesse personale del socio (occulto), e gli appartenenti alla sua cerchia familiare, ad evitare la confisca dell'attività di proprietà, quanto quello di favorire la cosca di riferimento del correo e l'interesse collettivo degli associati, attraverso il rafforzamento delle relative capacità operative.
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10. Ad avviso di chi scrive, le conclusioni ermeneutiche alle quali giunge la sentenza in commento sono condivisibili.
Non sembrano esservi dubbi circa la compatibilità tra l'aggravante ex art. 7 L. 306/1991 ed il reato di intestazione fittizia di beni previsto dall'art. 12-quinquies della L. 356/1992. Tuttavia, comportando la contestazione della suddetta circostanza effetti non irrilevanti[9], fra cui spicca certamente il particolare incremento sanzionatorio (l'aumento di pena da un terzo alla metà), è necessario optare, in linea con la pronuncia in questione, e diversamente da quanto talora preferito in passato[10], per un maggiore rigore probatorio, richiedendosi, in definitiva, non la mera presenza di un esponente di spicco di un clan locale, di cui si è soltanto assertivamente accusati di essersi prestati a schermare la presenza all'interno del contesto societario, ma la prova che il reato sia stato posto in essere dal suo autore al fine specifico di favorire l'attività dell'associazione mafiosa nella sua integrità.
Nella sentenza in commento, inoltre, viene ribadita l'importante e necessaria natura soggettiva dell'aggravante in questione[11], in quanto incentrata su una particolare motivazione a delinquere ricavabile dalla direzione finalistica della condotta, ovvero quella di agevolare l'associazione mafiosa, non potendo trovare applicazione per il soggetto che si sia genericamente rappresentato un possibile effetto agevolativo da parte della propria condotta nei confronti dell’associazione. Ciò in controtendenza rispetto ad un non irrilevante e recente orientamento[12] che ne afferma invece la natura oggettiva, così da permetterne la trasmissione a tutti i concorrenti nel reato quand'anche la componente volitiva sussista in capo ad un solo dei soggetti attivi, e sia semplicemente conosciuta o ignorata per colpa dagli altri ex art. 59 comma 2 c.p.
11. Per cui, concludendo, risulta particolarmente apprezzabile che la Suprema Corte pretenda che tale finalità agevolatrice, perseguita dall'autore del delitto, sia oggetto di una dettagliata verifica in sede di formazione della prova sotto il duplice profilo sia dell'accertamento vero e proprio della condotta agevolatrice del soggetto autore, che della consapevolezza e volizione dell'ausilio diretto all'associazione mafiosa o camorristica, sussistente anche qualora l'autore del reato persegua l'ulteriore scopo di trarre un utile personale dal fatto delittuoso, evitando così il rischio della diluizione nella semplice contestualità ambientale.
[1] Vedi, Cass., Sez V, 28 febbraio 2014, n. 13083;
[2] Vedi, Cass., Sez. II, 30 settembre 2014, n. 52616;
[3] Vedi, Cass., Sez. V, 6 aprile 2016, n. 40278;
[4] Vedi, Cass., Sez. II, 16 dicembre 2015, n. 13448;
[5] Vedi Cass, Sez II, 9 dicembre 2015, n. 13915; Cass. Sez. VI, 6 maggio 2014, n. 37375;
[6] Vedi anche Cass., Sez. VI, 4 febbraio 2015, n. 24379;
[7] Vedi Cass., Sez. V, 17 marzo 2016, n. 28648;
[8] Vedi Cass., Sez. II, 4 dicembre 2015, n. 49090, Cass., Sez. V, 25 febbraio 2015, n. 26699; Cass., Sez. VI, 2 luglio 2014, n. 45065;
[9] Fra cui l'attribuzione della competenza alle indagini alla Procura Nazionale Antimafia e Antiterrorismo (art. 51 c3-bis c.p.p.), limitazioni in tema di diritto alla prova (art. 190-bis c.p.p.), l'allungamento della durata massima delle indagini preliminari (art. 407 c2 lett.a) c.p.p.), il divieto di concessione di benefici e carcere duro (art. 4-bis e art. 41-bis c2 L. 354/1975), l'ipotesi di confisca obbligatoria di valori ingiustificati (art. 12-sexies L. 356/1992);
[10] Vedi Cass., Sez. V, 4 febbraio 2015, n. 11101;
[11] A differenza dell'aggravante dell'aver agito avvalendosi del metodo mafioso, di cui, a più riprese, se ne afferma la natura oggettiva. Vedi Cass., Sez. III,13 gennaio 2016, n. 9142,
[12] Vedi Cass., Sez. II, 11 marzo 2016,n. 13707.