ISSN 2039-1676


24 aprile 2018 |

A proposito della inapplicabilità dell'art. 131-bis c.p. ai reati di competenza del giudice di pace

Cass., Sez. Un., u.p. 22 giugno 2017 (dep. 28 novembre 2017), n. 53683, Pres. Canzio, Rel. Vessichelli, ric. Perini

Contributo pubblicato nel Fascicolo 4/2018

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1. Con la pronuncia in commento le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, investite della questione dall’ordinanza di rimessione già pubblicata e commentata in questa Rivista[1], hanno dato risposta negativa al quesito circa l’operatività nel procedimento dinanzi al giudice di pace della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p.

La Corte ha infatti ritenuto che le ipotesi di particolare tenuità del fatto in relazione a reati di competenza del giudice di pace siano regolate ai soli sensi della speciale causa di improcedibilità di cui all’art. 34 d.lgs. 274/2000, in ragione delle peculiarità che caratterizzano tale procedimento, al punto da delinearne una sorta di microcosmo punitivo”.

 

2. Quanto ai fatti sub iudice, la terza Sezione della Corte di Cassazione era stata investita della questione a seguito del ricorso presentato dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Venezia avverso una sentenza con la quale il Giudice di pace di Verona aveva assolto ai sensi dell’art. 131 bis c.p. i due imputati, cui era stata contestata la contravvenzione di inosservanza dell’obbligo di istruzione elementare del figlio minore, prevista dall’art. 731 c.p.

Invero, il giudice di pace aveva espressamente affrontato la questione del rapporto tra gli analoghi istituti di cui, rispettivamente, all’art. 131 bis c.p. e 34 d.lgs. 274/2000, ed aveva concluso ritenendo che si tratta di un’ipotesi di concorso apparente di norme da risolvere alla stregua del principio di specialità ex art. 15 c.p. In particolare, pur nella diversità ontologica che connota i due istituti – stante la differente natura giuridica di causa di non punibilità, il primo, e causa di improcedibilità, il secondo – norma speciale ai sensi della disposizione in parola sarebbe l’art. 131 bis c.p., da cui la sua applicazione al caso di specie.

Di diverso avviso la Procura ricorrente che ritiene applicabile da parte del Giudice di pace il solo art. 34 d.lgs. 274/2000, sul presupposto che la diversa disciplina sia conseguenza indefettibile dei differenti procedimenti entro i quali i due istituti sono destinati ad operare, oltre che delle differenti finalità che li muovono. In particolare, fondamentale rilievo per la risoluzione della problematica in esame viene attribuito alla centralità del ruolo che la persona offesa assume nei procedimenti per reati di competenza del giudice di pace, fortemente ispirati ad esigenze conciliative.

 

3. Venendo ora alla pronuncia in commento, le Sezioni Unite hanno in primo luogo ricostruito i termini del contrasto giurisprudenziale insorto sulla questione in esame, ripercorrendo in particolare i due principali orientamenti emersi.

In base ad una prima soluzione interpretativa la causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. non sarebbe applicabile nei procedimenti di competenza del giudice di pace, ove le ipotesi di particolare tenuità si ritengono disciplinate dal solo art. 34 d.lgs. 274/2000, norma speciale che dà espressione alle finalità conciliative proprie di tale peculiare procedimento.

Questo primo filone giurisprudenziale ha in particolare posto in rilievo le numerose differenze che caratterizzano i due istituti. Anzitutto, per quanto concerne i presupposti applicativi, mentre l’art. 131 bis c.p. prevede quale limite di operatività dell’istituto il massimo edittale pari a cinque anni di reclusione, nessun riferimento al quantitativo di pena astrattamente irrogabile si ritrova nell’art. 34 d.lgs. 274/2000.

Diversa sarebbe anche la valutazione richiesta al giudice, che solo nell’art. 34 si estende ad eventuali interessi individuali per i quali si rende inopportuna l’inflizione di una sanzione penale (vale a dire il “pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può arrecare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato”).

Si osserva inoltre come la portata dell’art. 131 bis c.p. risulterebbe circoscritta rispetto a quella dell’art. 34 d.lgs. 274/2000, in ragione del requisito della non abitualità della condotta illecita e della serie di ipotesi ritenute astrattamente incompatibili con la particolare tenuità del fatto.

Ulteriore argomento dal quale si ricaverebbe l’asserita inconciliabile diversità dei due istituti è rappresentato dal ruolo riconosciuto alla persona offesa ai fini della loro stessa operatività. Infatti solo per i reati di competenza del giudice di pace è attribuita alla persona offesa la facoltà di opporre un insuperabile veto alla definizione del procedimento per tenuità del fatto.

Né del resto potrebbe riconoscersi l’avvenuta abrogazione tacita dell’art. 34 d.lgs. 274/2000 ad opera del sopravvenuto art. 131 bis c.p. Trattandosi di istituti che operano in ambiti diversi, infatti, andrebbe ravvisato tra le due norme un rapporto di specialità da dirimersi ai sensi dell’art. 16 c.p., secondo cui le disposizioni del codice penale si applicano alle materie regolate da altre leggi, “in quanto non sia da queste stabilito altrimenti” (dunque con la prevalenza del primo istituto sul secondo laddove il giudizio riguardi fatti di reato di competenza del giudice di pace).

Gli elementi di indubbia diversità propri degli istituti in questione vengono parimenti riconosciuti dalle numerose sentenze delle sezioni semplici di Cassazione che si sono fatte espressione del secondo orientamento. In questa seconda prospettiva, tuttavia, proprio tali elementi divengono il punto di partenza per pervenire ad un esito opposto rispetto a quello poc’anzi esaminato.

Si è infatti innanzitutto osservato che negare l’applicabilità dell’art. 131 bis al procedimento dinanzi al giudice di pace si risolverebbe in un inaccettabile paradosso: una simile preclusione infatti finirebbe per eludere la finalità deflattiva cui è ispirata la causa di non punibilità in questione e, ancor prima, l’intera riforma del 2015, nonostante l’intrinseca minor offensività propria dei reati di competenza di tale giudice. La natura sostanziale dell’istituto di cui all’art. 131 bis, espressamente riconosciuta dalle Sezioni Unite allorché chiamate ad affrontare profili di retroattività della norma in esame[2], viene indicata da questo secondo orientamento quale ragione principale del diverso ambito applicativo dell’istituto in parola rispetto a quello delineato dall’art. 34 d.lgs. 274/2000.

Del resto, a nulla rileverebbe invocare il principio di specialità, posto che tra le due norme non sussiste alcun rapporto di genere a specie. Né a diversa conclusione porterebbe il richiamo dell’art. 2 d.lgs. 274/2000, il cui rinvio al procedimento ordinario riguarda, appunto, le sole norme processuali.

 

4. Ebbene, le Sezioni Unite ritengono condivisibile il primo orientamento, concludendo per l’inapplicabilità dell’art. 131 bis c.p. ai procedimenti dinanzi al giudice di pace.

Invero, sin dalle prime battute la Corte mette in rilievo il diverso spirito che muove i due istituti: la finalità deflativa, per quanto attiene alla causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis, che, come indicato nella relazione di accompagnamento al decreto introduttivo, sarebbe stata destinata ad operare “nella giustizia ordinaria”; l’obiettivo conciliativo, quanto all’art. 34 d.lgs. 274/2000, come testimoniato dall’attribuzione alla persona offesa di un potere di veto alla concreta operatività di tale causa di improcedibilità.

Proprio il ruolo centrale attribuito alla persona offesa nel giudizio per i reati di competenza del giudice di pace è espressione della finalità conciliativa che impernia la ratio stessa di tale procedimento speciale, rappresentandone al contempo l’obiettivo ultimo. Del resto, anche la Consulta in più occasioni ha posto l’accento sul carattere del tutto peculiare del procedimento di cui al d.lgs. 274/2000 e ne ha escluso la comparabilità con quello ordinario, affermando che il legislatore può derogare alla disciplina comune senza incorrere in alcuna violazione del dettato costituzionale (si consideri ad esempio la scelta di estromettere il patteggiamento dal novero degli epiloghi processuali, la cui compatibilità con la Carta Costituzionale è stata espressamente riconosciuta dal giudice delle leggi[3]).

 

5. Ciò premesso, le Sezioni Unite chiariscono come il canone ermeneutico cui fare riferimento per risolvere il concorso apparente tra l’art. 131 bis c.p. e l’art. 34 d.lgs. 274/2000 non sia da rinvenire nel principio di specialità di cui all’art. 15 c.p. L’applicazione di questa regola richiederebbe infatti l’“individuazione di un nucleo comune presente in entrambe le discipline in questione, con aggiunta di uno o più elementi specializzanti in assenza dei quali la norma speciale torni ad essere integralmente sostituibile dalla norma generale”. Nel caso in esame – si legge nella pronuncia in commento – ciascuna norma presenta elementi specializzanti rispetto all’altra, sicché deve riconoscersi che i due istituti si pongono in un rapporto non già di specialità, quanto, al più, di ‘interferenza’. Né sarebbe utile il richiamo alla specialità reciproca, criterio che non è affatto idoneo a risolvere il concorso apparente tra norme accordando prevalenza ad una piuttosto che all’altra disposizione, ma che la giurisprudenza di solito richiama per sostenere la possibilità di applicare contestualmente entrambe le norme in concorso.

 

6. L’attenzione della Corte si sposta allora verso il principio, espresso dall’art. 16 c.p., di “espansivitàdelle norme del codice penale alle materie regolate da leggi speciali. Come noto, questa disposizione prevede espressamente che le norme contenute nel codice penale trovino applicazione anche in relazione a materie regolate da altre leggi speciali, salvo che queste ultime abbiano già diversamente disposto sulle medesime materie. Si tratterebbe, in definitiva, di una ‘clausola di salvaguardia della disciplina speciale’, la cui portata di limite alla prevalenza della normativa codicistica deve essere verificata guardando ai singoli istituti non di per sé soli considerati e quindi rapportati tra di loro in termini astratti, bensì alla luce del ruolo che ciascuno assume nel proprio contesto.

Ciò posto, con specifico riferimento alla questione in esame, le Sezioni Unite ritengono che l’interprete sia chiamato a valutare se l’ipotesi di particolare tenuità del fatto per i reati di competenza del giudice di pace abbia già trovato o meno espressa regolamentazione all’interno del d.lgs. 274/2000, normativa speciale ai sensi dell’art. 16 c.p. Del resto, si osserva, la medesima operazione ermeneutica è fatta propria dallo stesso decreto 274/2000 che all’art. 2 rinvia, per quanto concerne le disposizioni processuali, alle norme del codice di procedura penale, laddove applicabili.

A supporto di tali considerazioni la sentenza in commento richiama il ragionamento espresso nella pronuncia con la quale la Consulta ha rigettato la questione di legittimità costituzionale prospettata in relazione all’art. 60 d.lgs. 274/2000, che esclude l’operatività della sospensione condizionale alle pene irrogabili dal giudice di pace[4].

Nel dichiarare la compatibilità della norma in parola con l’art. 3 Cost., i giudici delle leggi avevano infatti avuto occasione di affermare come la legittimità costituzionale di quanto disposto dall’art. 60 dovesse essere vagliata tenendo conto delle peculiarità del “microcosmo punitivo” in cui lo stesso si innesta, alla luce di una valutazione complessiva della disciplina per i reati di competenza del giudice di pace.

Ancora, le Sezioni Unite precisano come la “salvaguardia dell’autonomia dei connotati specializzanti del procedimento dinanzi al giudice di pace” sembri altresì trovare ulteriore conferma nella recente introduzione nell’ambito del procedimento ordinario della causa di estinzione del reato per condotte riparatorie, istituto già disciplinato all’art. 35 del d.lgs. 274/2000.

Invero, proprio il silenzio del legislatore in punto di coordinamento tra i due istituti, che pur è stato oggetto di acceso dibattito al momento dell’intervento normativo, rappresenterebbe un’ulteriore conferma della volontà di “tenere distinti i due ambiti giuridici”.

 

7. La Corte ad ogni modo precisa come ogni eventuale considerazione attinente la possibile rilevanza dell’art. 131 bis nell’ambito del procedimento per reati di competenza del giudice di pace potrebbe essere formulata solo laddove si escludesse che la disposizione codicistica regoli una materia che già trova una disciplina speciale nel d.lgs. 274/2000. Una simile conclusione non è tuttavia prospettabile ad avviso delle Sezioni Unite.

Da un lato, si osserva che sarebbe improprio ravvisare l’intervenuta abrogazione tacita dell’art. 34 d.lgs. 274/2000 ad opera dell’art. 131 bis c.p., ai sensi e per gli effetti dell’art. 15 Preleggi: come infatti appena visto, le Sezioni Unite ritengono che nessun rapporto di genere a specie può dirsi sussistente tra le due norme, poste le differenze in termini tanto di effetti, quanto di requisiti.

Dall’altro, proprio la necessità di guardare alla portata dell’istituto della particolare tenuità tenendo conto del microcosmo punitivo in cui si colloca, imporrebbe all’interprete “di ragionare in termini non di compatibilità/incompatibilità fra istituti ma di concreta applicabilità all’interno del sistema speciale”. Ciò posto, all’apparente irragionevolezza che comporterebbe escludere l’operatività dell’art. 131 bis per reati di minor gravità, quali sono quelli di competenza del giudice di pace, farebbero “da contrappeso e da bilanciamento altri valori di pari dignità”. In altre parole, non vi sarebbe alcuna disparità di trattamento tra posizioni che, di fatto, non sono uguali: nel procedimento ordinario e quello dinanzi al giudice di pace diversi sono infatti gli epiloghi decisori nonché la portata afflittiva delle sanzioni irrogabili, così come diversa è la finalità che li muove (essendo solo il procedimento speciale ispirato da quella ratio conciliativa che trova espressione massima nel potere di veto alla definizione del processo per particolare tenuità riservato alla persona offesa)[5].

 

8. Da ultimo, viene rilevato come in alcun modo valga ad inficiare le conclusioni cui sono giunte le Sezioni Unite la circostanza per cui il d.lgs. 28/2015, nell’introdurre la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, ha inciso su alcune disposizioni processuali (artt. 411 e 469 c.p.p.) che trovano applicazione anche nel procedimento per reati di competenza del giudice penale. Ciò per il semplice fatto che il rinvio operato dalle singole norme del d.lgs. 274/2000 alle disposizioni processuali in parola deve essere configurato quale rinvio fisso, e dunque al testo normativo così come formulato al momento di entrata in vigore del decreto sul giudice di pace, senza alcuna rilevanza delle modifiche successivamente apportate alle norme richiamate.

 

***

 

9. Qualche brevissima riflessione di carattere generale, in attesa di poter ospitare su questa rivista un più ampio contributo alla pronuncia in esame.

Quella cui giungono le Sezioni Unite, invero, ci pare essere una soluzione solo parzialmente condivisibile.

Condivisibile, in particolare, è certamente il punto di partenza fatto proprio dalla pronuncia in commento, vale a dire l’impossibilità di configurare un rapporto di specialità tra gli artt. 34 d.lgs. 274/2000 e 131 bis c.p.[6]. Gli istituti in questione sono infatti, come visto, diversi per natura, presupposti, requisiti e conseguenze, così come parzialmente diversa ne è la stessa ratio di fondo, al punto che nemmeno accogliendo la nozione di specialità reciproca potrebbe essere risolto quello che, in realtà, neppure si profila come un concorso apparente di norme[7].

Cionondimeno, chi scrive ritiene che proprio tali differenze strutturali e sostanziali tra i due istituti, diversi anche per natura giuridica (causa di improcedibilità il primo[8], di esclusione della punibilità il secondo), rappresentino ciò che li rende destinati a coesistere nell’ambito del procedimento dinanzi al giudice di pace.

Nulla quaestio, quindi, circa la necessità di regolare il rapporto tra le due norme in esame non già ai sensi dell’art. 15 c.p., quanto piuttosto alla luce del principio generale di cui all’art. 16 c.p., stante il quale le disposizioni del codice penale devono trovare applicazione anche alle materie regolate da leggi speciali, laddove non sia da queste “stabilito altrimenti”. Senonché, a differenza di quanto ritenuto dalle Sezioni Unite, nel caso di specie ci sembra che venga in rilievo la sola prima parte dell’art. 16 c.p., e dunque il principio di generale estendibilità della disciplina del codice penale alle materie regolate dalle leggi speciali, e non l’eccezione allo stesso. All’interno del d.lgs. 274/2000 manca, infatti, una deroga espressa all’operatività dell’art. 131 bis c.p. nel procedimento speciale per i reati di competenza del giudice di pace. Né, d’altra parte, si può a nostro avviso rinvenire nel medesimo decreto la presenza di un istituto a tal punto analogo alla causa di non punibilità in esame da giustificare implicitamente la sua disapplicazione, neppure guardando – come suggerisce la sentenza in commento – agli istituti in questione “nel ruolo e nella funzione che svolgono all’interno del sistema di riferimento”.

 

10. Come si è visto, per precisare i termini entro i quali andrebbe condotto il raffronto tra i due istituti in materia di particolare tenuità del fatto, le Sezioni Unite hanno richiamato la pronuncia della Consulta[9] che ha dichiarato la legittimità costituzionale in relazione al principio di uguaglianza dell’esclusione della sospensione condizionale nel procedimento dinanzi al giudice di pace. Il richiamo tuttavia non ci pare pertinente, in quanto muove da un presupposto e, altresì, attiene ad un ambito del tutto diversi da quello in esame.

La questione sottoposta al giudice delle leggi riguardava infatti la legittimità costituzionale di una norma, l’art. 60 d.lgs. 274/2000, che nell’escludere l’istituto della sospensione condizionale per i reati di competenza del giudice di pace deroga espressamente alla disciplina del codice penale.

Ben diverso è però il quadro di riferimento in cui si inserisce il tema oggi in esame, dove, come detto, manca un’espressa deroga all’applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p. nel procedimento dinanzi al giudice di pace: una simile deroga non è infatti prevista nel d.lgs. 274/2000 (ciò che, del resto, va da sé, trattandosi di istituto introdotto solo quindici anni dopo l’entrata in vigore del decreto in parola), né è stata introdotta dal legislatore del 2015 al momento della formulazione dell’art. 131 bis c.p.

11. In mancanza di una deroga espressa a nostro avviso non può che trovare applicazione la regola generale dell’art. 16 c.p., e dunque la estendibilità delle norme codicistiche alle materie regolate da leggi speciali, salvo che la disciplina codicistica sia incompatibile con quella già prevista per la medesima materia dalla normativa speciale.

Non si vede per quale ragione i due istituti non possano coesistere nel sistema del giudice di pace. In particolare, in presenza di un fatto di reato connotato da particolare tenuità il giudice di pace sarà chiamato in prima istanza a valutare l’eventuale sussistenza dei presupposti e requisiti di operatività dell’art. 34 d.lgs. 274/2000; e solo laddove tale istituto non possa trovare applicazione dovrà essere vagliata la riconducibilità del caso di specie all’art. 131 bis c.p.[10].

Invero, varie possono essere le ragioni di ostacolo al giudice per il riconoscimento della causa di improcedibilità: vuoi il difetto del requisito di occasionalità della condotta (più stringente rispetto a quello della non abitualità prescritto dall’art. 131 bis c.p.)[11], vuoi per l’insussistenza di un potenziale pregiudizio alle esigenze di vita dell’imputato (requisito del tutto assente nell’art. 131 bis), vuoi – e sarà questa l’ipotesi più significativa – per il veto espresso dalla persona offesa.

In tal senso, dunque, il principio di prevalenza della legge speciale su quella generale continuerà ad operare per quei casi in cui il fatto concreto soddisfi tutti i requisiti dell'art. 34 d.lgs. 274/2000, che troverà quindi applicazione in luogo dell'art. 131 bis c.p. Per le ipotesi residuali non potrà ragionevolmente essere preclusa l’eventuale assoluzione per particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 131 bis c.p., con tutto ciò che ne deriva in termini lato sensu sanzionatori. È infatti evidente come la declaratoria di non punibilità in parola comporti conseguenze più gravose rispetto a quella di improcedibilità di cui all’art. 34 d.lgs. 274/2000: ci riferiamo, in particolare, all’efficacia di giudicato nei giudizi civili e amministrativi di danno[12] e all’iscrizione nel casellario giudiziale, che, in definitiva, rappresentano pur sempre effetti pregiudizievoli che fanno seguito alla declaratoria di non punibilità ex art. 131 bis c.p.[13].

Proprio in ragione del fatto che con l’applicazione dell’art. 131 bis residuano tali conseguenze pregiudizievoli, si deve riconoscere come non venga meno il ruolo di primo piano attribuito alla persona offesa nell’ambito del procedimento dinanzi al giudice di pace, in ossequio a quella finalità conciliativa che indubbiamente – e sul punto non possono che avallarsi le considerazioni svolte dalle Sezioni Unite nella pronuncia in commento – muove l’intero giudizio in esame[14].

In altre parole, riconoscere la residuale operatività dell’art. 131 bis c.p. per le ipotesi di particolare tenuità che non rientrino nei confini dell’art. 34 d.lgs. 274/2000, di per sé non svuota di contenuto la portata del potere di veto attribuito alla persona offesa, il cui esercizio continuerà a produrre un effetto non poco pregiudizievole per l’imputato: vale a dire l’impossibilità per il giudice di riconoscere la causa di non procedibilità, la cui declaratoria, a differenza di quella che segue all’art. 131 bis c.p., non comporta alcun effetto negativo per il soggetto prosciolto. Né, tuttavia, la rilevanza che nel procedimento dinanzi al giudice di pace è riconosciuta alla persona offesa può spingersi fino al punto di precludere l’operatività del diverso e, in definitiva, meno favorevole istituto generale di cui all’art. 131 bis c.p.

 


[1] M.C. Celotto, Art. 131-bis c.p. e art. 34 d.lgs. 274/2000 a confronto: un rapporto di necessaria compatibilità, in questa Rivista, fasc. 5/2017, p. 111 ss.

[2] S.U. 25 febbraio 2016, n. 13681, Tushaj, Rv. 266593.

[3] Corte Cost., ord. 50/2016.

[4] Corte Cost., sent. 47/2014

[5] Sul punto, merita segnalare che proprio la pronuncia delle Sezioni Unite in commento è stata di recente posta a fondamento di una questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di Catania, dell’art. 131 bis c.p., “nella misura in cui esso non è applicabile ai reati rientranti nella competenza del Giudice di Pace, per violazione dell’articolo 3 della Costituzione”[5]. Non essendo certo questa la sede per un commento analitico di tale ordinanza ­– riservato a un più puntuale prossimo contributo ­– basti qui osservare come i giudici di merito ritengano che l’interpretazione data dalla Sezioni Unite comporti un vulnus proprio al principio di eguaglianza laddove viene esclusa l’applicabilità dell’art. 131 bis per fatti di reato già di per sé connotati da un minor disvalore, quali sono quelli di competenza del giudice di pace.

[6] Sul punto già C. De Gasperis, La presunta incompatibilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto nel procedimento dinanzi al giudice di pace, Nota a Cass. sez. V pen. 2 novembre 2016, n. 45996, in Cassazione penale, 2017, fasc. 5, pp. 1920-1925.

[7] Nel puntuale commento all’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, parla nel senso dell’insussistenza di un’antinomia tra le due norme in questione, alla luce del rapporto di mera interferenza che le contraddistingue, M.C. Celotto, Art. 131-bis c.p. e art. 34 d.lgs. 274/2000 a confronto: un rapporto di necessaria compatibilità, cit.

[8] Anche se, per vero, alcuni autori hanno ricondotto l’art. 34 d.lgs. 274/2000 all’ambito delle cause di esclusione della punibilità, facendo principalmente leva ­– al di là del dato testuale – sui criteri alla stregua dei quali il giudice è chiamato ad operare la valutazione di operatività o meno dell’istituto in esame: la norma prevede infatti parametri di natura sostanziale, facenti perno in particolare sull'autore e sul fatto (cfr. S. Turchetti, commento all'art. 34 del d.lgs. 274/2000, in G. Marinucci – E. Dolcini, (a cura di), Codice penale commentato, Milanofiori, Assago, 2015, p. 2935; F. Caprioli – G. Melillo – F. Ruggieri – G. Santalucia, Sulla possibilità di introdurre nel processo penale ordinario l'istituto della declaratoria di particolare tenuità del fatto, in Cass. pen., 2006, p. 3496 e ss.; ritiene invece che l'irrilevanza del fatto costituisca “un elemento negativo della illiceità penale del fatto”, G. Riccio, voce Irrilevanza penale del fatto, (dir. Proc. Pen.) in Enc. Giur., vol. XIX, 199, p. 11. Contra, a sostegno dunque della natura di causa di improcedibilità, si vedano ex multis A. Pagliano – M. Stanziola, La particolare tenuità del fatto nel processo davanti al giudice di pace: un bilancio sulla funzionalità dell'istituto, in Dir. pen. e proc., 2010, p. 610 e ss; R. Bartoli, L'irrilevanza penale del fatto. Alla ricerca di strumenti di depenalizzazione in concreto contro la ipertrofia c.d. “verticale” del diritto penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2000, p. 1477 e ss.; I. Calamandrei, L'irrilevanza penale del fatto nella prospettiva processuale, in Giur. it., 2000, p. 2212 e ss; parla espressamente di “causa di improcedibilità” la stessa Relazione di accompagnamento al d.lgs. 274/2000.

[9] Corte Cost, sent. 47/2014 cit.

[10] Ciò che, del resto, rispecchia il normale ordine da seguire per affrontare le questioni: procedibilità, prima, eventuali cause di non punibilità attinenti all’aspetto sostanziale, poi (come per altro confermato dall’art. 529 c.p.p., che impone il proscioglimento immediato laddove il giudice riscontri che l’azione penale non poteva essere iniziata o non possa proseguire).

[11] Come per altro confermato nella Relazione illustrativa del d.lgs. 28/2015 che ha introdotto l’art. 131 bis, laddove con riferimento al requisito della non abitualità si legge: “in questo caso il legislatore delegato ha scrupolosamente osservato l'indicazione della delega, che in effetti ha utilizzato un concetto in certa misura diverso da quello più usuale di “occasionalità” del fatto […] si può ipotizzare che il concetto di “non abitualità” del comportamento implichi che la presenza di un “precedente” giudiziario non sia di per sé sola ostativa al riconoscimento della particolare tenuità del fatto, in presenza ovviamente degli altri presupposti”. Si può in tal senso pensare ad un’ipotesi di furto lieve per bisogno (che, a norma dell'art. 4, comma 1, lettera a) del d.lgs. 274/2000, risulta di competenza del giudice di pace, salvo che non ricorrano le aggravanti previste dai numeri 2, 3 e 4 dell'art. 625 c.p.) il cui autore sia stato in passato dichiarato recidivo: ebbene, stante la rigorosa condizione dell'occasionalità richiesta dall'art. 34 d.lgs. 274/2000, l'autore del furto in esempio non potrebbe, con buona probabilità, beneficiare della declaratoria di improcedibilità in esame, laddove invece la mera dichiarazione di recidiva non osta all’operatività dell’art. 131 bis c.p.

[12] Anche se, ai sensi dell’art. 651 bis c.p.p., tale disciplina vale per le sole sentenze emesse all’esito del dibattimento e del giudizio abbreviato, il quale però non trova applicazione nel procedimento del giudice di pace (come disposto dall’art. 2 d.lgs. 274/2000).

[13] Tanto che sin dalle prime battute è stata descritta in dottrina come una “cripto condanna” (F. Piccioni, Per gli avvocati "armi spuntate" nella strategia, in Guida dir., 2015, n. 15, p. 41 e ss.). Del resto, gli effetti pregiudizievoli derivanti dalla sentenza di proscioglimento per tenuità del fatto sono stati riconosciuti anche dalla relazione dell'Ufficio del massimario della Corte di Cassazione penale in materia di art. 131 bis (A. Corbo - G. Fidelbo, Problematiche processuali riguardanti l'immediata applicazione della "particolare tenuità del fatto", 23 aprile 2015).

[14] Si veda, a tal proposito, la Relazione di accompagnamento al d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274: “[…]si è ritenuto di dover salvaguardare l'interesse del privato alla prosecuzione del procedimento: scelta, questa, che, a ben vedere, valorizza appieno lo stesso microcosmo conciliativo-punitivo del giudice di pace, istituzionalmente destinatario delle domande di giustizia dei privati in qualità di organo di mediazione, di composizione e di risoluzione dei microconflitti sociali” (per vero, la stessa Relazione precisa come l’attribuzione alla persona offesa di un potere di veto per l’operatività dell’art. 34 era stata fortemente ostacolata dalla Commissione Senato, che aveva tentato di limitarne la portata proponendo una riformulazione della norma sul punto).