28 giugno 2018 |
Brevi riflessioni su corruzione e attività di lobbying intorno alle osservazioni di Paola Severino
L’intervento della Prof.ssa Paola Severino, che abbiamo avuto l’onore di ospitare in DPC, mette sul tavolo, pur nella stringata forma, inevitabile per uno scritto originariamente destinato alla pubblicazione su un periodico, problemi che meritano straordinaria attenzione.
Svolgerò due sole brevissime considerazioni, anch’io in forma fin troppo succinta.
1. La prima considerazione riguarda l’opportunità, fortemente caldeggiata dall’ex Guardasigilli, di regolare anche in Italia l’attività di lobbying, che, per usare le parole di Severino, “non è un fenomeno illecito di per sé”, perché, almeno qualche volta, costituisce “lecita promozione di attività imprenditoriale”. La Prof.ssa Severino crede che una disciplina del lobbying aiuterebbe a diminuire i delitti. Come, però?
La mia congettura è che secondo Severino solo con una legge ad hoc l’attività di lobbying “buona” potrà essere differenziata dall’attività di lobbying “cattiva”, quella cioè che costituisce “traffico di influenze illecite o vera e propria corruzione”.
Il problema, però, almeno per quanto possa capire io, è che non è facile tracciare la linea di demarcazione tra l’una e l’altra.
Secondo quali criteri decideremo che una lobby è buona e un’altra cattiva?
È impossibile non farsi venire cattivi pensieri.
C’è da temere, infatti, che la legge, qualunque legge pensabile, non finirebbe – come invece auspica Severino – col ridurre “la pericolosa commistione tra mondo della politica, mondo dei decisori e mondo delle lobby” (che, dunque già esistono!), ma potrebbe all’opposto farne crescere la dimensione, perché renderà tutta o quasi tutta questa commistione – che pure Severino giudica pericolosa – lecita e tale sarà solo perché disciplinata dalla legge.
Un gioco di prestigio, un cambio di etichetta.
Si dirà “già oggi è così, e tanto vale portare alla luce quel che è al buio”.
Nessun dubbio che sia preferibile un’attività di lobbying visibile perché trasparente rispetto a un’attività di lobbying – come è oggi – invisibile perché opaca, ma non per questo la lobby e la cultura che essa incarna saranno una buona cosa.
Alla fine la conquistata liceità dell’intreccio tra Potere economico e Democrazia starà, però, solo nella trasparenza delle mosse dei due giocatori? O c’è dell’altro?
C’è molto in gioco.
A mio parere c’è contraddizione tra cultura del lobbying e cultura della legalità democratica.
Temo che, l’attività lobbying chiara od oscura che sia, lasciata operare dentro i meccanismi delle decisioni pubbliche dello Stato, lentamente renderà pubblicamente evidente che lo Stato, nelle persone dei suoi funzionari anche di più alto rango, fino ai parlamentari e ai ministri, ma non solo, può essere dolcemente e soavemente piegato – in modo addirittura trasparente – all’interesse dell’Impresa, cioè al profitto.
Tutti sanno, e per prima lo sa la Prof.ssa Severino, che negli USA il lobbying è regolato da decenni, ma quale sia il bilancio reale di questo fenomeno nella democrazia americana va studiato attentamente. Non è affatto scontato che la sistematica e pervasiva attività di lobbying così come regolata negli USA, sia un farmaco che abbia giovato alla democrazia di quel paese. Già oggi c’è piuttosto da temere che, tutto all’opposto, la cultura del lobbying, sia diventata un veleno che corrompe la democrazia dall’interno, volgendola in qualcosa d’altro, in un’elitaria forma di plutocrazia (o almeno così pensano negli USA, molti osservatori liberi, tra tutti Noam Chomsky).
È ovvio che l’interesse dell’Impresa sia il profitto, ed è altrettanto ovvio che esso sarà perseguito dall’Impresa tramite il lobbysta anche se – anzi soprattutto se – quell’interesse sia in conflitto con concorrenti interessi che lo Stato dovrebbe tutelare o tra i quali dovrebbe mediare.
Forse la Prof.ssa Severino pensa ad un lobbying virtuoso da distinguere da un lobbying vizioso, perché solo nel secondo caso c’è passaggio di denaro od altra utilità tra privato e pubblico?
Le lobby promuovono l’interesse dell’Impresa e difficilmente si può sperare che agiscano confidando solo nella capacità persuasiva che viene da una efficace capacità di argomentazione razionale. Le lobby veicolano in nome e per conto dell’Impresa, denaro, molto denaro, o comunque utilità d’ogni tipo come sinallagma del consenso politico che vogliono comprare.
Un lobbysta che non offra vantaggi, più o meno trasparenti, al suo interlocutore non è un lobbysta, ma qualcosa d’altro.
C’è il pericolo del piano inclinato: una volta che la sfera comincia a rotolare, non si ferma più.
Proviamo a immaginare un lobbysta dell’industria delle armi, o un lobbysta dell’industria edile il cui cliente voglia espandersi nel settore dell’edilizia carceraria. Il primo caldeggerà un ampliamento dei confini della legittima difesa, e dell’uso delle armi, mentre il secondo, avrà interesse all’estensione della criminalizzazione della Società, per massimizzare il numero dei detenuti in funzione delle capacità produttive del suo cliente.
Negli USA l’uno e l’altro pericolo sono già realtà.
I casi possibili in cui la lobby può adulterare il processo delle decisioni democratiche sono ovviamente infiniti, e non è il caso di indugiarvi oltre.
Senza denaro, invece, o promessa di altra utilità, la lobby non funziona, anzi non è proprio lobby, ma, come detto, qualcosa d’altro – la brochure innocente del bene che l’Impresa fa alla Società - che solo qualche anima candida può credere che possa esistere nei corridoi del Potere (perché dovremmo disciplinare l’attività di lobbying se questa fosse solo un simpatico spot pubblicitario?).
Non tutti i portatori di legittimi interessi, possono però permettersi una lobby che li sponsorizzi nello Stato.
Vale allora l’arguto detto di Anatole France per il quale la legge che proibisce di dormire sotto i ponti non ha lo stesso significato per il ricco e per il povero, e, mutatis mutandis, è difficile negare che la legalizzazione della lobby non avrebbe lo stesso significato per chi può permettersela e per chi non può.
Il pericolo fin troppo evidente è che la voce degli stakeholders – compresa l’intera comunità su cui l’Impresa, con l’aiuto della sua lobby, voglia scaricare, esternalizzare, il danno o il pericolo che produce – resterà inascoltata anche se e proprio perché quella voce rivendica interessi opposti a quelli dell’Impresa, e nessuna legge sulle lobby potrà mai cambiare questo stato delle cose, se non peggiorandolo.
È vero che anche interessi diffusi talvolta hanno i loro lobbysti. Si può temere, però, che il loro potere di pressione sia il più delle volte assai più blando di quello di altri ben più forti poteri che ad essi si contrappongono.
I più deboli della Società, però, non hanno lobby, e questo è sicuro.
Quale è la conclusione?
La Prof.ssa Severino ha opportunamente gettato un sasso nello stagno.
Il punto su cui dovrebbe accendersi il libero e aperto dibattito delle ragioni di tutti, ammesso e non concesso che questa volontà di dialettica esista ancora in Italia, è se sia cosa buona e giusta legalizzare la attività di lobbying, oppure se non sia preferibile fare tutto il contrario, cioè aumentare la potenza dei radar della Autorità Nazionale Anticorruzione per permettere che l’opaco diventi visibile, che il sommerso emerga, che cioè la commistione tra lobby e Parlamento e Governo (già oggi attiva e selvaggia), ma anche – perché così accade – la liaison non sempre trasparente tra avvocati di grande Imprese, Potere Politico e Potere Giudiziario, dentro e fuori i processi, sia stigmatizzata e saggiamente sanzionata – anche se non necessariamente col diritto penale! –.
È in gioco molto se non tutto, come ho provato ad accennare.
La democrazia, infatti, dovrebbe essere qualcosa d’altro che un grande mercato. Dovrebbe essere lo spazio pubblico delle ragioni di tutti, indipendentemente dal peso economico che quelle ragioni mettano sul tavolo, o almeno così sperava De Tocqueville (che però già intuiva il pericolo che il denaro condizionasse la cultura della democrazia, avvelenandola) e gli altri grandi teorici del pensiero liberale.
L’unico fronte di lotta alla corruzione è la cultura della Giustizia.
Dovremmo, almeno così io credo, tornare a pensare alla Giustizia, come Bene Comune, dea davvero imparziale se non cieca, e non favorire la pratica della (in)giustizia come variabile e variopinto esito del sistematico mercanteggiamento che accade tra quei soli soggetti che possono permettersi di mercanteggiare.
Resta comunque quanto meno dubbio che una regolazione della lobbying possa aiutare a diminuire i reati.
La tentazione di pensare l’esatto contrario, è infatti troppo forte (una legalizzazione spinta forse depenalizzerebbe la parte meno impresentabile dell’attuale materia che è penalmente illecita, o al limite del penalmente lecito, ma questo ovviamente non significherebbe che i reati sarebbero realmente diminuiti, se non per le statistiche).
2. Mi permetto di proporre un’altra breve osservazione.
In questi tempi, anche per merito dell’attività dell’ANAC, siamo tornati a parlare molto di corruzione.
Si parla, però, pochissimo, di corruzione internazionale e anche Severino non ne fa cenno nel suo pur breve intervento (sicché resta nel non detto se la legge sulla lobby che viene auspicata debba estendersi anche ad essa e se sì in quali modi e in vista di quali effetti).
Confesso che ignoro se tra i poteri e i doveri dell’Autorità ci sia anche la prevenzione della corruzione internazionale. Se così non fosse, ci sarebbe una lacuna nella legge. Se, invece, così fosse, sarebbe molto interessante sapere quali iniziative siano state messe in campo dall’Autorità per prevenire il fenomeno.
La corruzione internazionale è anche, salvo mio errore, campo che la dottrina del diritto penale dovrebbe scavare assai di più, studiandone a fondo cause ed effetti nell’attuale assetto dei poteri del capitalismo globale.
Quale è il bene giuridico protetto dalla corruzione internazionale? Quale è, cioè, la ragione per cui lo Stato punisce la corruzione commessa da un suo cittadino verso un pubblico ufficiale di un altro Stato?
La corruzione – si dice – altera la libera concorrenza globale delle grandi Imprese che competono per assicurarsi le materie prime che si trovano fuori dai confini dello Stato in cui hanno sede.
Il libero mercato globale è l’unico bene giuridico protetto dalle leggi che, quasi ovunque, nel mondo occidentale, puniscono col diritto penale la corruzione internazionale?
Io credo di no.
Mi sia perdonata la visione del mondo che ora forzatamente introduco, che è sì molto semplificata, ma, almeno spero, non così tanto da essere falsa.
Io credo che la corruzione internazionale sia, un po’ più e un po’ meno, la prosecuzione con altri mezzi del colonialismo, che noi occidentali abbiamo praticato in finta buona coscienza – o con il cuore di tenebra – per secoli.
Il colonialismo è finito (e il bilancio di civiltà a consuntivo non rende noi troppo orgogliosi, sebbene in esso vi sia anche qualcosa di buono anche per loro), ma non è finito il nostro bisogno delle materie prime che stanno dove la natura ha voluto che stessero.
Il colonialismo post moderno funziona in modo diverso che nel passato (anche se, a dire il vero, non sono ancora finite le guerre giuste che combattiamo ancora in quei paesi, direttamente o indirettamente, ovunque sia utile ai nostri interessi)
L’Occidente, cioè noi, abbiamo insediato al potere nei Paesi che hanno le risorse che ci interessano – o almeno abbiamo incoraggiato o non impedito l’insediamento al potere di – élites locali poco propense a coltivare il bene dei popoli che dovrebbero governare, ma sensibilissime al denaro con cui le nostre Imprese le persuadono a venderci le materie prime che ci servono.
Le Imprese – cioè anche noi – sappiamo che la concorrenza globale è intrinsecamente alterata dalla corruzione, ma lo status quo va bene anche a noi, perché le possibili alternative – una reale democrazia in quei Paesi che ad esempio promuova giustizia distributiva dei ricavi provenienti dalla cessione dei beni che stanno in quelle terre – potrebbe essere peggiore per le nostre economie dell’apparente male della corruzione.
Il gioco che ne vien fuori ha un perdente fisso, che è il popolo dello Stato governato con la corruzione, e un vincente fisso che è costituito dalle élites corrotte che governano quello Stato, che usano il denaro per sé e non per il bene comune. Il vincitore, cioè l’una o l’altra Impresa di questo o quel Paese, varia da caso a caso, secondo logiche che, viste da fuori, paiono oscure, ma che, probabilmente, riposano su patti occulti spartitori, cui non sono estranei i nostri stessi Stati, e questi patti globali, alla fine, giovano a tutti, corruttori e corrotti, in un equilibrio forse instabile ma comunque conveniente.
Non c’è dunque alcun libero mercato globale che debba essere tutelato dalla corruzione globale, se non nella vulgata ideologica che ci hanno insegnato a recitare come una litania.
Il vero bene giuridico protetto dalla corruzione internazionale è l’interesse vitale dei popoli a beneficiare delle risorse delle loro terre, che i governi di quei paesi conculcano, perché si arricchiscono a danno dei loro popoli, e fondano il proprio potere proprio sui patti corruttivi che noi abbiamo costruito con loro e noi abbiamo interesse a consolidare.
Il problema è – come sempre quando c’è di mezzo il diritto penale – tutt’altro che facile da addomesticare.
La criminalizzazione della corruzione estera pare infatti fondarsi su un conflitto tra l’interesse delle nostre Imprese (che con la corruzione comprano commesse anche miliardarie che danno lavoro e producono valore per il nostro Stato) e per l’appunto l’interesse dei popoli dello Stato corrotto che perdono sempre e tutto anche a causa nostra.
Il problema è più grave ancora.
È probabile che sia dimostrabile un nesso tra corruzione dei governi dei Paesi in cui le nostre imprese si approvvigionano di quel di cui hanno bisogno, e la crescita globale del divario di ricchezza tra i primi e gli ultimi (e anche i penultimi) della terra, che è uno degli effetti della globalizzazione (si veda l’analisi Branko Milanoviĉ, economista del Fondo Monetario Internazionale, autore di Ingiustizia globale. Migrazioni, disuguaglianze e il futuro della classe media).
Forse non è priva di fondamento – e comunque meritevole di analisi – l’ipotesi che i popoli che vengono depredati a casa loro dai loro governi che abbiamo corrotto, appartengano alla massa di coloro che, impoveriti ingiustamente a casa loro, poi, migrano da noi. A questi uomini e donne, noi vietiamo di attraccare nei nostri porti accettando la possibilità che muoiano in mare o, con pericolosa tendenza all’incremento, apriamo le porte dei nostri carceri, criminalizzandoli perché poveri.
È giusto?
La Giustizia non dovrebbe coincidere con l’Utile, altrimenti non è Giustizia.
Il problema, però, ha mille sfaccettature è sarebbe auspicabile che la cultura penalistica trovasse il coraggio intellettuale di far sentire la propria voce.
3. Due problemi di corruzione – l’uno connesso alla opportunità della legalizzazione della attività di lobbying che rischia di legittimare la cultura della corruzione più grave (quella che altera il processo democratico delle decisioni sul bene di tutti, favorendo i ricchi che possono fare lobby e danneggiando i poveri che non possono avere lobby); l’altro connesso alla (in)giustizia di un assetto di potere economico globale fondato sulla corruzione e sulla disuguaglianza, che la corruzione internazionale promuove e stabilizza su scala planetaria, che noi accettiamo (o non vorremmo combattere troppo, perché combatterlo non conviene alla nostra economia e ai nostri interessi materiali).
L’uno e l’altro fenomeno ci appaiono come due vivide immagini dei conflitti laceranti del nostro tempo.
Che questi conflitti – che interessano milioni di uomini – nascano e crescano e prendano forma nel nostro vecchio diritto penale forse non è buona cosa, ma così è e non possiamo voltare gli occhi dall’altra parte.
In fondo è in gioco chi siamo noi e che cosa è la nostra società, se cioè l’unico indicatore di chi siamo noi e la nostra società può essere solo l’interesse economico o deve esserci dell’altro da qualche parte.
È tempo che la Giustizia pesi più del Diritto?
Merito della Prof.ssa Severino aver innescato la discussione, almeno sul primo punto.
Ora dobbiamo continuare.