ISSN 2039-1676


10 luglio 2018 |

Acquisizione di intercettazioni illegali: giornalisti condannati per ricettazione (caso Coop)

Corte d'app. Milano, Sez. V, 9 aprile 2018 (dep. 20 aprile 2018), n. 2528, Pres. Caputo, Est. Matacchioni, imp. Nuzzi e altri

Contributo pubblicato nel Fascicolo 7-8/2018

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1. Nella sentenza qui commentata, la Corte d’appello di Milano, ribaltando il giudizio di primo grado (svoltosi con rito abbreviato), ha condannato i giornalisti Maurizio Belpietro e Gianluigi Nuzzi per il reato di ricettazione, in relazione all’acquisizione di alcuni file audio e video prodotto dei reati di cui agli artt. 615-bis e 617 c.p.

Tale pronuncia merita di essere segnalata sia per alcuni interessanti spunti offerti in tema di dolo di ricettazione, sia perché si tratta di un nuovo caso in cui si affronta il problematico rapporto tra libertà di stampa e diritto penale.

 

2. In sintesi, i fatti, come accertati dalla Corte d’appello.

Nel mese di maggio del 2004, il responsabile della sicurezza di Coop Lombardia incaricava in via ufficiosa il titolare di una società di investigazioni private di svolgere segretamente un’attività di intercettazione, per la durata di circa un mese, dell’utenza telefonica in uso all’allora direttore della filiale sita in Vigevano, nonché di quelle utilizzate da altri dipendenti della medesima sede.

All’esito dell’attività di intercettazione – alla quale prendevano parte anche gli amministratori della società appaltatrice dei servizi di sicurezza all’interno di diversi punti vendita lombardi della nota catena di supermercati – risultava registrato il contenuto di più di ottocento telefonate.

Tale attività di intercettazione telefonica – di cui il giudice in seguito accerterà l’illegalità[1] e conseguentemente disporrà, ai sensi dell’art. 240 c.p.p., la distruzione del cd-rom contenente le telefonate illegittimamente carpite – rimaneva ignota sino al gennaio 2010, allorquando il quotidiano “Libero” intraprendeva una campagna di denuncia dell’attività illecita svoltasi nell’ambito di Coop Lombardia.

Secondo la ricostruzione dei giudici di merito – g.u.p. e Corte d’appello – i fatti si sarebbero svolti nel modo che segue.

Nel giugno 2009, dopo che Coop Lombardia aveva comunicato alla società di servizi di sicurezza la decisione di non volersi ulteriormente avvalere delle sue prestazioni, uno degli amministratori dell’anzidetta impresa si rivolgeva all’allora direttore del settimanale “Panorama” Maurizio Belpietro, offrendogli la propria disponibilità a consegnare tutto il materiale frutto dell’attività di intercettazione appena sopra descritta.

Incaricato da Belpietro di verificare la fonte, nel successivo mese di luglio il giornalista Gianluigi Nuzzi avrebbe incontrato gli amministratori della società di servizi di sicurezza presso la sede del periodico, e preso cognizione del contenuto illecito dei dischetti.

Accertata, pertanto, l’attendibilità della fonte – nel senso che gli amministratori della società di investigazione erano effettivamente in possesso di materiale “scottante” coinvolgente Coop Lombardia – il direttore di “Panorama” contattava immediatamente il patron di Esselunga Bernardo Caprotti. Dopo avergli comunicato di essere venuto a conoscenza di informazioni pregiudizievoli per la “rivale” Coop, Belpietro, secondo la ricostruzione univoca dei giudici di merito, suggeriva a Caprotti di conferire incarichi lavorativi alla società di vigilanza privata detentrice dei cd-rom presso alcune succursali di Esselunga, sì da poter ottenere, in cambio, il materiale necessario per avviare una campagna giornalistica.

Fuor di metafora, a parere dei giudici, il direttore di “Panorama” stava chiedendo al fondatore di Esselunga di “comprare”, in favore del settimanale, le informazioni offerte dalle sue fonti.

Caprotti accettava la proposta di Belpietro e, nell’estate del 2009, stipulava diversi contratti con la società di vigilanza privata, disponendo subito il pagamento di un acconto di oltre duecento mila euro.

Nell’ottobre 2009 i file audio venivano consegnati al giornalista Nuzzi il quale, dal gennaio 2010, pubblicava diversi articoli in cui si dava conto dell’illecita attività di intercettazione posta in essere da Coop ai danni dei propri dipendenti, attribuendo esplicitamente la responsabilità di tale scelta ai vertici di Coop Lombardia.

Le complesse vicende, che qui si è cercato di riassumere in massimo grado al mero fine di comprendere la decisione della Corte d’appello, hanno dato luogo a numerosi procedimenti civili e penali.

In questa sede ci si appresta ad annotare la decisione della Corte d’appello che, per la ricezione dei file contenenti le intercettazioni telefoniche illecitamente registrate sulla linea dell’ufficio dell’allora direttore della filiale di Vigevano, ha condannato Nuzzi e Belpietro per ricettazione, mentre ha dichiarato non doversi procedere per Caprotti, per intervenuta estinzione del reato per morte del reo[2].

 

3. Il giudice di primo grado aveva assolto tutti gli imputati dall’accusa di ricettazione per mancanza dell’elemento soggettivo.

In particolare, secondo il g.u.p. di Milano non sussistevano dubbi in merito alla sussumibilità della condotta degli imputati entro il delitto previsto dall’art. 648 c.p.

Per quanto riguarda i giornalisti Nuzzi e Belpietro, costoro avevano in effetti ricevuto i file audio e video provenienti dai delitti di cui agli artt. 615-bis e 617 c.p. commessi dagli amministratori delle società di vigilanza e investigazione.

Né avrebbe potuto assumere pregio l’argomento difensivo secondo cui il materiale informatico non potrebbe costituire oggetto materiale di ricettazione[3]. In effetti, la Corte di Cassazione è ormai ferma nel ritenere la configurabilità di diversi delitti contro il patrimonio anche quando il bene immateriale, di per sé insuscettibile di fisica apprensione, sia trasfuso su supporti materiali, i quali ben possono essere appropriati, sottratti, detenuti, ricevuti, ecc.[4]. Inoltre, in un recente caso i giudici di legittimità hanno ammesso che possono costituire oggetto materiale di ricettazione anche i dati, le notizie o le informazioni, allorquando il bene acquistato o ricevuto sia costituito dal dato immateriale illecitamente acquisito[5].

Anche per quanto attiene alla condotta di Caprotti, il giudice di primo grado non aveva dubbi circa la sua rilevanza penale ai sensi dell’art. 648 c.p., nella forma della ricettazione per intromissione. Egli, infatti, non si sarebbe affatto limitato ad intervenire dopo l’avvenuta ricezione del dischetto da parte dei giornalisti; al contrario, il patron di Esselunga si sarebbe personalmente impegnato nell’acquisto dei file audiovisivi, mettendo a disposizione la contropartita economica richiesta dagli amministratori della società di vigilanza privata[6]

Ben diverso, invece, è il discorso in tema di elemento soggettivo. Come noto, il dolo di ricettazione consiste nella coscienza e volontà di ricevere, acquistare, occultare un bene di provenienza delittuosa, sorretto dal fine specifico di procurare a sé o ad altri un profitto[7], che non deve necessariamente qualificarsi come “ingiusto”[8] e che può avere anche natura non patrimoniale[9].

Ebbene. Per il g.u.p. di Milano era incontroverso che i tre imputati fossero a conoscenza della provenienza delittuosa delle intercettazioni registrate sul cd-rom. Tuttavia, tanto nei giornalisti quanto nel fondatore di Esselunga sarebbe difettato il fine specifico di conseguire un profitto.

Secondo il giudice di prime cure, infatti, sia l’obiettivo perseguito da Nuzzi e Belpietro – l’intenzione di pubblicare lo scoop giornalistico, con auspicato incremento del prestigio professionale e delle vendite – sia quello mirato da Caprotti – la volontà di colpire mediaticamente il concorrente commerciale, così aumentando il proprio fatturato ai danni della rivale Coop – avrebbero tutt’al più rappresentato un mero movente, il quale «deve però essere tenuto distinto dal dolo, che riguarda invece la sfera della rappresentazione e delle volizione dell’evento».

Per tale ragione, il g.u.p. assolveva i tre imputati dal reato di ricettazione perché il fatto non costituisce reato.

 

4. La Corte d’appello di Milano ha ribaltato il giudizio di primo grado, ritenendo integrato il reato di ricettazione in tutti i suoi elementi oggettivi e soggettivi.

Dopo aver integralmente richiamato e condiviso gli argomenti spesi dal giudice di prime cure nel senso della ritenuta integrazione del fatto tipico di ricettazione da parte degli imputati, la Corte d’appello prende le distanze dalla sentenza di primo grado rispetto alla configurazione del dolo.

Secondo i giudici d’appello, non è dubitabile che negli imputati vi fosse «perfetta consapevolezza» della provenienza delittuosa dei file audio. Inoltre, anche il fine di profitto «certamente sussiste», sia sotto il profilo non patrimoniale, sia sotto quello strettamente patrimoniale: se, infatti, per Nuzzi e Belpietro il fine di profitto ha coinciso con la volontà di realizzare un importante scoop giornalistico, con conseguente ritorno di notorietà e diffusione del quotidiano, per Caprotti il dolo specifico deve essere rintracciato nella sua propria convinzione che «quella “bomba mediatica” offertagli da Belpietro fosse l’occasione per “mettere al tappeto”, sotto il profilo “patrimoniale” e “morale”, la catena di distribuzione concorrente, da lui temuta, e che si chiamava “Coop Lombardia”».

Per la Corte, una tale soluzione non si pone in rotta di collisione con la libertà di stampa, in quanto «non è in gioco, in questo caso, “l’interesse pubblico” alla notizia, ma la necessità di preservare, comunque, l’ordinamento rispetto al compimento di una vera e propria opera di “ricettazione”, rivelatasi, invero, alquanto “complessa” e “variegata” (…), posta in essere da due pur illustri esponenti del mondo giornalistico, che non hanno, tuttavia, evitato di commettere, nella occasione, una violazione al codice di comportamento professionale, che certamente non consente la commissione di reati nell’ambito della fondamentale, in un ordinamento “libero” quale quello a cui appartiene l’Italia, attività di “informazione” al pubblico».

 

***

 

5. Tralasciando ogni considerazione in merito all’elemento oggettivo del reato, ritenuto provato in entrambi i gradi di giudizio, occorre soffermarsi sul tema del dolo specifico di ricettazione, che ha dato luogo a decisioni divergenti in primo grado e in appello.

Preliminarmente, però, occorre chiarire cosa debba intendersi per “profitto” ai sensi dell’art. 648 c.p.

In proposito, merita sicuro apprezzamento l’opinione giurisprudenziale e dottrinale secondo la quale, stando anche al dato letterale della norma, non occorre che il profitto si colori del carattere dell’“ingiustizia”, ben potendo l’agente perseguire un profitto giusto[10]. In effetti, aderendo all’opposto orientamento[11], si arriverebbe al paradossale risultato di escludere la punibilità di chi, ad es., è creditore di soggetto insolvente e, pur di ottenere il pagamento della somma che gli spetta, accetta del denaro che sa essere provento di una rapina in banca.

Meno pacifico potrebbe forse apparire l’orientamento prevalente in giurisprudenza, secondo cui il profitto perseguito può avere sia natura patrimoniale, sia natura non patrimoniale: in senso contrario, è stato sostenuto in dottrina che, essendo la ricettazione un delitto contro il patrimonio, il profitto deve assumere un connotato patrimoniale e deve derivare dalla res[12]. In realtà, al di là della collocazione topografica della norma, se si considera che la ratio della fattispecie incriminatrice in parola consiste nell’evitare la (ulteriore) circolazione della cosa proveniente da delitto, e che la previsione del dolo specifico ha la funzione di mutare il titolo del reato rispetto alle ipotesi di favoreggiamento reale e di incauto acquisto – con una punizione più severa per chi mira a lucrare un vantaggio ulteriore rispetto a quello derivante direttamente dal reato presupposto – non appare affatto irragionevole il sopra richiamato orientamento giurisprudenziale che accoglie una nozione ampia di “profitto”, comprensiva anche di utilità non patrimoniali. In altri termini, il particolare disvalore della condotta incriminata non starebbe tanto nella natura del profitto perseguito, quanto piuttosto nel fatto che la spinta ad agire è sostenuta dall’obiettivo di ricavare, dal contesto illecito, un vantaggio personale.

 

6. Svolte queste premesse, chi scrive ritiene che la sentenza della Corte d’appello qui annotata, seppure non sempre impeccabile in ogni suo snodo argomentativo, abbia correttamente tratteggiato i contenuti del dolo di ricettazione.

Contrariamente a quanto sostenuto nella decisione di primo grado – nella quale si è escluso l’elemento soggettivo sulla base della distinzione tra movente e dolo – i giudici di appello rilevano che la finalità di profitto era presente nell’azione tanto dei giornalisti quanto del patron di Esselunga: i primi avrebbero agito al fine di realizzare lo scoop giornalistico, con positive ricadute sull’immagine professionale e sulle vendite del quotidiano; il secondo avrebbe avuto di mira il vantaggio competitivo derivante dal discredito di una diretta concorrente, con un auspicato aumento di introiti.

L’argomento che la Corte d’appello non richiama esplicitamente, ma che certamente è stato alla base del ribaltamento del giudizio di primo grado, consiste nella considerazione per cui, se è vero che in generale movente e finalità perseguita dall’agente nei reati a dolo specifico sono concetti distinti, essi possono, in certi casi, coincidere.

Si considerino questi esempi, dove senza dubbio il movente coincide con il dolo specifico.

Tizio desidera possedere una motocicletta e, non disponendo della somma necessaria, ne sottrae nottetempo un esemplare da un concessionario: egli commette senz’altro un furto, delitto che richiede una condotta sorretta dal fine specifico di trarre un profitto per sé o per altri, e detto fine coincide con il motivo che ha spinto il reo ad agire.

Ancora. Commette un sequestro di persona a scopo di estorsione Caio, il quale, a corto di denaro, priva della libertà una persona abbiente, al fine di farsi pagare un cospicuo riscatto e, in tal modo, di guadagnarsi da vivere: anche in questo caso il fine specifico di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto come prezzo della liberazione, richiesto dall’art. 630 c.p., coincide con la spinta motivazionale dell’agente.

Possono poi darsi delle ipotesi in cui, oltre alla finalità che assume rilievo ai fini del dolo specifico, l’agente sia mosso, magari in maniera preponderante, anche da altre motivazioni: tale circostanza, tuttavia, non esclude affatto la penale responsabilità del soggetto.

Così se Tizio, tra le diverse motociclette di cui può impossessarsi, sceglie proprio quella dell’acerrimo nemico, essendo a conoscenza della particolare importanza, anche a livello affettivo, che il mezzo riveste per il proprietario, egli risponderà comunque di furto.

Allo stesso modo, Caio sarà comunque responsabile del reato di cui all’art. 630 c.p., se la spinta motivazionale nel compiere il reato risiede principalmente nel desiderio di farsi notare ed apprezzare dalla locale cosca malavitosa.

Ebbene. Sulla scorta di tali considerazioni appare verosimile ritenere che l’obiettivo di realizzare uno scoop giornalistico e quello di screditare un concorrente commerciale possano coincidere con il fine di profitto richiesto dall’art. 648 c.p.

L’eventuale obiezione che il contegno tenuto dagli agenti non sarebbe stato comunque idoneo alla concretizzazione del fine perseguito non assumerebbe qui alcun significato, dal momento che, come osservato dalla dottrina, nei reati a dolo specifico caratterizzati dal perseguimento di un evento di per sé lecito – come, nel caso di specie, il fine di procurare un profitto a sé o ad altri – non è richiesta, per la realizzazione del reato, l’idoneità della condotta rispetto allo scopo perseguito[13].

 

7. Un’ultima breve riflessione deve essere dedicata ai problematici rapporti tra libertà di stampa e responsabilità penale del giornalista[14].

Se da un lato, infatti, lo stato di salute di una democrazia si misura (anche) sulla base della libertà di pubblicare notizie e di sollecitare il dibattito pubblico, dall’altro lato non bisogna trascurare tutti gli altri interessi, egualmente meritevoli di tutela, che possono entrare in conflitto con il diritto di cronaca: così, come è stato correttamente osservato, il problema di fondo consiste nella «individuazione di un ragionevole punto di equilibrio tra gli interessi contrapposti alla libertà di stampa e alla tutela della reputazione e della riservatezza dei soggetti coinvolti – e spesso travolti – dal procedimento penale»[15].

Nel caso qui commentato viene in gioco non tanto il problema della sacrificabilità del bene “reputazione” rispetto al diritto di informazionei fatti raccontati dai giornalisti di “Libero” sono, nella loro sostanza, veri e hanno indubbiamente rilievo pubblicoquanto piuttosto la questione relativa all’esistenza di limiti all’attività di reperimento delle fonti, quando questa presenti profili di rilevanza penale.

Attribuendo preminente valore alla libertà di stampa, il giudice di primo grado aveva valorizzato il richiamo delle difese alle «pronunce con cui la Corte EDU ha stigmatizzato l’impropria contestazione del reato di ricettazione al fine di limitare la libertà di stampa, sottolineando come anche alla preliminare attività di raccolta delle informazioni debba essere estesa la tutela garantita dall’art. 10 CEDU al fine di non svuotarla di significato».

In effetti, in un’occasione la Corte europea ha condannato la Francia per violazione dell’art. 10 Cedu, in ragione della condanna per ricettazione inflitta a due giornalisti[16]. In quel caso, i due reporter del settimanale satirico “Le Canard Enchainé” avevano pubblicato un articolo all’interno del quale erano inseriti estratti di una dichiarazione dei redditi dell’ex presidente di una nota casa automobilistica: da tali documenti risultava che, mentre gli operai scendevano in piazza per ottenere un aumento di stipendio dell’1,5%, l’allora presidente si attribuiva un aumento di stipendio pari al 45,9%. Va precisato che la documentazione inerente ai menzionati dati fiscali era accessibile ai cittadini francesi, ma non era pubblicabile.

Imputati di ricettazione di documenti provenienti dalla commissione di altro reato (rivelazione di segreto d’ufficio), i giornalisti venivano dapprima assolti, per poi essere condannati in secondo grado e in Cassazione.

In quel caso, la Corte di Strasburgo ha riscontrato una violazione del diritto di cronaca tutelato dalla Convenzione dal momento che la condanna è seguita alla pubblicazione di dati corretti e comunque legittimamente accessibili, anche se non pubblicabili: non si è ravvisata, dunque, «una ragionevole relazione di proporzionalità tra il legittimo scopo perseguito dalla condanna dei giornalisti e i mezzi impiegati per raggiungere detto scopo, in considerazione dell’interesse che ogni società democratica ha nel garantire e proteggere la libertà di stampa».

A ben vedere, nel caso appena ricordato, la Corte europea non ha affatto sancito una radicale incompatibilità tra attività giornalistica e imputazione del reato di ricettazione: piuttosto, ha criticato la contestazione strumentale, da parte degli Stati, di figure delittuose diverse dalla diffamazione per limitare indirettamente la libertà di manifestazione del pensiero. Ciò che la Corte contesta, in altre parole, è l’abuso del diritto posto in essere dallo Stato per punire con pene severe il giornalista per un comportamento rispetto al quale non vi sono gli estremi per una condanna per diffamazione.

Inoltre, se è certamente vero che la Corte edu ha ripetutamente criticato le legislazioni statali che prevedono illeciti e sanzioni potenzialmente idonei a scoraggiare una libera attività giornalistica[17], è altrettanto necessario ricordare che tale libertà non viene considerata assoluta dalla giurisprudenza europea, dovendosi in ogni caso procedere ad un bilanciamento dei diversi interessi in gioco.

In tal senso, la Grande Camera di Strasburgo, nell’enucleare alcuni criteri in base ai quali operare l’anzidetto bilanciamento di interessi, ha dato rilievo proprio alle modalità (lecite o illecite) con le quali il materiale fotografico o le informazioni sono stati acquisiti[18].

 

8. Prima di concludere, sia consentita un’ultima considerazione. In casi come quello esposto in questa sede, a parere di chi scrive esiste, per il giornalista, una alternativa lecita, che consente la pubblicazione della notizia senza tuttavia il rischio di incorrere in una penale responsabilità per il reato di ricettazione: in siffatti casi, il giornalista potrebbe senz’altro limitarsi a riportare la notizia, magari corredata da interviste dei soggetti direttamente coinvolti, senza tuttavia ricevere o acquistare la cosa proveniente da reato. In questo modo non si potrebbe lamentare nessuna compressione della libertà di informazione e, al contempo, si rimarrebbe entro i confini della legalità.

Nell’eventualità, poi, di una contestazione del reato di diffamazione, opererebbe comunque la scriminante del diritto di cronaca, sempre che l’informazione riportata dal giornalista sia vera e di pubblico interesse, come nel caso di specie.

 


[1] Tribunale di Milano, Ufficio del giudice per le indagini preliminari, ord. 3 aprile 2012, inedita.

[2] Sul punto, come si legge in sentenza, la difesa di Caprotti aveva chiesto il proscioglimento nel merito ai sensi dell’art. 129, co. 2, c.p.p.: la Corte d’appello non l’ha tuttavia accordato, avendo ritenuto che «dagli atti del processo emergono elementi che fanno propendere per la commissione dei reati anziché indirizzarsi verso la sua innocenza», e ciò in quanto il contributo del patron di Esselunga sarebbe stato «essenziale», avendo egli assicurato la copertura economica dell’intera operazione.

[3] Secondo un risalente ed isolato orientamento giurisprudenziale doveva escludersi la configurabilità del delitto di ricettazione nei casi di ricezione di meri dati, notizie o informazioni, per la mancanza di una res suscettibile di materiale apprensione. V. Cass., sez. II, 21 ottobre 2004 (dep. 13 gennaio 2005), n. 308, Buzzoni, in CED Cassazione, richiamata nella sentenza di primo grado. Nello stesso senso, più di recente: Cass., sez. II, 23 aprile (dep. 5 settembre) 2008, n. 34717, Matacena, in CED Cassazione.

[4] In tema di appropriazione indebita: Cass., sez. V, 30 settembre (dep. 13 novembre) 2014, n. 47105, Capuzzimati, in CED Cassazione, richiamata nella sentenza di primo grado. Con specifico riferimento, invece, al delitto di ricettazione: Cass., sez. II, 18 febbraio (24 maggio) 2016, n. 21596, in proc. Tronchetti Provera, in CED Cassazione.

[5] Cass., sez. II, 15 maggio (dep. 17 giugno) 2015, n. 25363, Belleri, in CED Cassazione, richiamata dal giudice di prime cure.

[6] Secondo un granitico orientamento giurisprudenziale, la ricettazione per intromissione si realizza in tutti i casi in cui l’agente si intromette per far acquistare, ricevere od occultare un bene di provenienza delittuosa, non essendo necessario che l’agente metta in rapporto diretto le parti, né che la refurtiva venga effettivamente acquistata o ricevuta. V., da ultimo, Cass., sez. II, 15 gennaio (25 febbraio) 2016, n. 7683, Alessi, in CED Cassazione.

[7] F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale II. Delitti contro il patrimonio, VI ed., Milano, 2016, pagg. 274 ss; G. Fiancaca, E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, tomo II, volume II, VII ed., Bologna, 2015, pag. 252; R. Acquaroli, La ricettazione, in F. Viganò, C. Piergallini (a cura di), I reati contro la persona e contro il patrimonio, Trattato teorico pratico di diritto penale, diretto da F. Palazzo, C.E. Paliero, Torino, 2011, p. 792.

[8] P. Magri, Art. 648. Ricettazione, in E. Dolcini, G.L. Gatta (a cura di), Codice penale commentato, Milano, 2015, p. 1295; in giurisprudenza, ex plurimis: Cass., sez. II, 18 febbraio (dep. 24 maggio) 2016, n. 21596, in proc. Tronchetti Provera, cit.; Cass., sez. II, 7 aprile (dep. 6 maggio) 2011, n. 17718, Conte, in CED Cassazione.

[9] Tra le molte, v.: Cass., sez. II, 22 marzo (dep. 14 aprile) 2016, n. 15680, in proc. Ceccarelli, in CED Cassazione; Cass., sez. II, 25 novembre (dep. 16 dicembre) 2010, n. 44378, Schiavulli, in CED Cassazione; Cass., sez. II, 12 ottobre (28 ottobre) 2000, n. 11083, Di Re, in CED Cassazione; Cass., sez. II, 9 giugno (7 novembre) 1981, n. 9997, Panza, in CED Cassazione.

[10] Per i relativi riferimenti giurisprudenziali e dottrinali si rinvia alla nota 8.

[11] Si vedano, tra gli altri: F. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale II. Delitti contro il patrimonio, VI ed., Milano, 2016, pag. 276; G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, tomo II, volume II, VII ed., Bologna, 2015, pag. 254.

[12] A. Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte speciale, vol. III, Milano, 2003, pag. 492.

[13] G. Marinucci, E. Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2017, p. 484.

[14] Per un’analisi della tematica, si rinvia a: P. Nuvolone, Cronaca (libertà di), in Enc. dir., vol. XI, 1962, p. 421; Id., Il diritto penale della stampa, Padova, 1971; E. Musco, Stampa (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XLIII, 1990, p. 633; S. Turchetti, Cronaca giudiziaria e responsabilità penale del giornalista, Roma, 2014.

[15] S. Turchetti, Cronaca giudiziaria, cit., p. XXIII.

[16] Corte edu, 21 gennaio 1999, Fressoz e Roire c. Francia.

[17] Basti qui ricordare, per quanto riguarda l’Italia: Corte edu, 8 ottobre 2013, Ricci c. Italia; Corte edu, 24 settembre 2013, Belpietro c. Italia; Corte edu, 17 luglio 2008, Riolo c. Italia.

[18] Cfr. Corte edu, grande camera, 7 febbraio 2012, Von Hannover c. Germania, § 108-113; Corte edu, grande camera, 7 febbraio 2012, Axel Springer AG c. Germania, § 89-95.