ISSN 2039-1676


28 settembre 2018 |

Procedibilità d’ufficio e "connessione": una nuova pronuncia della Corte di cassazione

Cass., Sez. III, sent. 6 marzo 2018 (dep. 4 luglio 2018), n. 30045, Pres. Sarno, Est. Rosi

Contributo pubblicato nel Fascicolo 9/2018

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1. Può dirsi ormai principio consolidato quello ribadito, in tema di procedibilità “per connessione”, dalla sentenza n. 30045/18 della Corte di Cassazione. L’occasione per ribadire l’orientamento assolutamente prevalente è fornita alla Corte dal ricorso proposto dalla Procura di Bari contro un’ordinanza del locale Tribunale del riesame il quale aveva annullato in parte qua un’ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere. L’ordinanza cautelare applicava la misura sia in relazione al reato di cui all’art. 609-bis c.p. sia al reato di cui all’art. 612-bis c.p., entrambi in ipotesi commessi dal medesimo imputato in danno della medesima persona offesa. Il tribunale della libertà aveva ritenuto l’improcedibilità del reato di cui all’art. 609-bis c.p. in ragione della tardività della querela ed aveva confermato la misura per il solo reato di atti persecutori.

  

2. L’argomentare della suprema Corte, a fronte del ricorso del Pubblico Ministero, ruota inevitabilmente attorno alla corretta interpretazione della disposizione di cui all’art. 612-bis co. 4 c.p.

Com’è noto, il reato di cui all’art. 612-bis c.p., di per sé procedibile a querela, diviene procedibile d’ufficio, oltre che nell’ipotesi in cui il fatto sia stato commesso nei confronti di minore o di una persona con disabilità, o da soggetto ammonito ai sensi dell’art. 8 d.l. n. 11 del 2009, anche «quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio». Diventa dunque essenziale stabilire che cosa significhi, nel contesto dell’art. 612-bis co. 4 c.p.p., «connessione»; problema peraltro del tutto analogo a quello che si era già più volte posto in giurisprudenza con riferimento alla disposizione “gemella” di cui all’art. 609-septies co. 4 n. 4 c.p. e, ancora prima, all’art. già bis co. 3 c.p.

Secondo la sentenza in commento, si ha connessione tale da determinare la procedibilità d’ufficio «sia quando vi è connessione in senso processuale (art. 12 c.p.p.), sia quando v’è connessione in senso materiale»,  cioè ogni qualvolta «l’indagine sul reato perseguibile di ufficio comporti necessariamente l’accertamento di quello punibile a querela, in quanto siano investigati fatti commessi l’uno in occasione dell’altro, oppure l’uno per occultare l’altro oppure ancora in uno degli altri collegamenti investigativi indicati nell’art. 371 c.p.p. e purché le indagini in ordine ai reato perseguibile di ufficio siano state effettivamente avviate». Questa più estensiva ricostruzione è stata più volte ribadita dalla Suprema Corte, già con riferimento all’art. 609-septies co. 4 n. 4 c.p. Si era infatti sostenuto che la connessione ivi prevista «non è limitata alle ipotesi di connessione processuale di cui all’art. 12 c.p.p., ma va estesa altresì alla connessione meramente investigativa di cui all’art. 371 co. 2 c.p.p., ovvero alla presenza di reati commessi in occasione di altri reati, per eseguirne altri o allorché la prova di un reato o di una circostanza influisca sulla prova di un altro reato o di un’altra circostanza» (Cass., Rv. 232185). Così che, ad esempio, si è ritenuto procedibile d’ufficio il reato di violenza sessuale quando si accerti che l’esistenza di una associazione di stampo mafioso abbia agevolato la consumazione del reato sessuale, nel senso che le vittime hanno accettato di soggiacere alle violenze «esclusivamente per la forza intimidatoria del gruppo e per il timore di gravi conseguenze sui propri familiari»; ciò, si badi, anche se «il reato connesso non sia stato contestato all’autore della violenza oppure questi sia stato assolto ovvero non vi sia stata contestualità di indagini o procedimenti» (Cass., Rv. 218475). Unica condizione è che vi sia stato, ai fini della configurazione della connessione “investigativa”, l’avvio effettivo, da parte dell’Ufficio di Procura, delle indagini in ordine al reato perseguibile di ufficio. Nella medesima impostazione, è altresì irrilevante ai fini della perseguibilità d’ufficio dei delitti contro la libertà sessuale l’eventuale estinzione per prescrizione o la successiva abrogazione del connesso reato procedibile d’ufficio, purché quest’ultimo sia stato oggetto di indagini preliminari, essendo «venuta meno la soglia di riservatezza posta a base della perseguibilità a querela dei reati sessuali» (cfr. Cass., RV 251908). In particolare, la Cassazione ha rilevato connessione rilevante ex art. 609 septies c.p. nel caso di un imputato accusato di aver ripetutamente violentato una bracciante agricola, sfruttando la condizione di subalternità della stessa, dovuta, tra l’altro, alla violazione da parte del reo delle norme sul collocamento dei lavoratori agricoli; a  nulla rilevando il fatto che, nelle more del processo, il reato di mediazione di manodopera agricola fosse stato abrogato.

Di particolare interesse, in questo quadro, il fatto che la Corte di cassazione abbia individuato la ratio della procedibilità a querela del reato di violenza sessuale nella «tutela della riservatezza», così che, nel caso in cui vi siano state indagini doverosamente iniziate in ragione della sussistenza di un connesso reato procedibile d’ufficio, tale esigenza verrebbe meno, ormai “pubblica” la notizia della violenza. Si tratta, a ben vedere, di motivazione arcaica; e tuttavia, pur in un mutato contesto sociale e normativo, l’ampiezza della interpretazione della «connessione» rilevante ai fini della procedibilità non è venuta meno.

 

3. In sostanza, l’impostazione assolutamente prevalente nella giurisprudenza di legittimità è che la connessione che rende procedibile d’ufficio un reato ordinariamente procedibile a querela, nei casi previsti dalla legge, è non solo quella processuale, di cui all’art. 12 c.p.p., ma anche quella «materiale», che si concretizza ogniqualvolta l’indagine sul reato procedibile d’ufficio comporti necessariamente l’accertamento di quello punibile a querela, in presenza delle condizioni di collegamento probatorio di cui all’art. 371 c.p.p., purché le indagini sul reato procedibile d’ufficio siano state effettivamente avviate e sebbene all’esito del giudizio i relativi fatti siano stati diversamente qualificati.

Del tutto minoritario l’opposto orientamento, secondo il quale la procedibilità d’ufficio dei reati di violenza sessuale per connessione con altro reato a sua volta procedibile d’ufficio, presuppone l’esistenza di un collegamento «reale» secondo la previsione di cui all’art. 12 c.p.p., non bastando un collegamento meramente processuale, come quello che si ha quando in un medesimo contesto investigativo si abbia la scoperta di altro reato. Secondo tale impostazione, il riferimento ad ogni forma “atipica” di connessione si risolverebbe in una interpretazione in malam partem, esclusa in campo penale (cfr. Cass., Rv.  250894).

Tra gli argomenti portati a critica di questa impostazione minoritaria, vi è quello letterale. La Cassazione, infatti, ha avuto occasione di sottolineare, proprio con riferimento al co. 4 dell’art. 612-bis c.p., che la legge non richiama «alcuna norma sostanziale o processuale esplicativa del concetto di connessione» (cfr. Cass., Rv. 270901). Nella medesima occasione, la Corte aveva anche sottolineato come il comportamento persecutorio proprio del reato di stalking deve essere «valutato nella sua articolazione pluralistica, ma nel contempo complessiva, e che anche comportamenti che in sé potrebbero essere non punibili si presentano, in una considerazione complessiva, rilevanti ai fini di integrare il reato», così che il termine connesso di cui al co. 4 dell’art. 612-bis c.p. non può che assumere il significato di «necessaria interferenza fattuale ed investigativa tra la condotta già di per sé integrante reato ed il delitto di atti persecutori», con le conseguenti ricadute in tema di procedibilità. Se questa è l’impostazione del tutto prevalente, occorre sottolineare come non sia affatto infrequente che a comporre il mosaico degli atti persecutori siano fatti che, già di per sé considerati, integrano reati perseguibili d’ufficio: si pensi alla frequentissima violazione di domicilio punita dall’art. 614 c.p., oppure alla violenza privata di cui all’art. 610 c.p., ovvero ancora le minacce gravi ex art. 612 co. 2 c.p., non a caso considerate specificamente dall’art. 612 bis co. 4 c.p. Questa complessiva ricostruzione, abbandonata la più risalente impostazione ispirata alla tutela della riservatezza della persona offesa, aggancia la procedibilità d’ufficio alla sussistenza di condotte che, individualmente considerate, sono tali da integrare reati procedibili d’ufficio e, dunque, tali da ledere interessi non meramente individuali, così che, nel momento in cui il reato procedibile a querela “ingloba” in sé singole condotte punibili d’ufficio, non può che divenire a sua volta procedibile d’ufficio.

       

4. Proprio con particolare riferimento alle minacce gravi, la sentenza in commento coglie l’occasione per ribadire come debba considerarsi irrevocabile la querela presentata per il reato di atti persecutori quando la condotta sia stata realizzata con minacce «reiterate e gravi» (così già Cass., Rv. 266043). Sotto tale profilo, la Corte ha precisato che il rinvio alla disposizione di cui all’art. 612 co. 2 c.p. operato dall’art. 612-bis co. 4 c.p. deve essere inteso come onnicomprensivo, tale cioè da includere anche le condotte che, pur non connotandosi per essere state commesse «in uno dei modi di cui all’art. 339 c.p.», siano comunque tali da poter essere definite come «gravi». Si tratta, in sostanza, di situazioni nelle quali la particolare incidenza intimidatoria della condotta rende inopportuno, nell’ottica dell’ordinamento, affidare totalmente alla libera determinazione della persona offesa la decisione in ordine alla perseguibilità del reato, a prescindere dal ricorso alle armi, al travisamento o alla presenza di più persone riunite o alle altre situazioni di cui all’art. 339 c.p.  Senza trascurare il rischio che la intervenuta remissione di querela possa non essere totalmente libera e volontaria, a fronte di minacce qualificabili quali «gravi». Del resto, se il legislatore avesse voluto limitare le ipotesi di irrevocabilità della querela alle sole minacce attuate «nei modi di cui all’art. 339 c.p.», avrebbe potuto farlo esplicitamente, invece di utilizzare (come ha fatto, evidentemente non a caso) il riferimento all’art. 612 co. 2 c.p. Peraltro, va sottolineato come, se è vero che le minacce reiterare «nei modi di cui all’art. 612 co. 2 c.p.» rendono irrevocabile la querela eventualmente presentata, è pure vero che le stesse non valgono a rendere procedibile d’ufficio tale delitto, rimanendo in tal caso affidata alla volontà individuale la scelta di procedere o meno.

       

5. Quasi a completare un affresco delle questioni inerenti la procedibilità del reato di atti persecutori, la Corte ha altresì ribadito il costante orientamento secondo il quale, data la natura pacificamente abituale del reato di cui all’art. 612-bis c.p., nell’ipotesi in cui il presupposto della reiterazione venga integrato da condotte poste in essere anche dopo la proposizione della querela, la condizione di procedibilità già avanzata si estende anche a queste ultime, poiché, unitariamente considerate con le precedenti, integrano l’elemento oggettivo del reato; inoltre, nell’ipotesi in cui il presupposto della reiterazione venga integrato da condotte poste in essere oltre i sei mesi previsti dalla norma rispetto alla prima o alle precedenti condotte, la querela estende la sua efficacia anche a tali pregresse condotte, indipendentemente dal decorso del termine di sei mesi per la sua proposizione, previsto dal quarto comma dell’art. 612-bis c. p. (cfr. Cass., Rv. 268163; nonché Cass., Rv. 263552). D’altro canto, è stato anche affermato che la querela estende i suoi effetti anche alle condotte poste in essere dopo la presentazione della stessa, proprio perché tali successivi comportamenti, considerati unitariamente con i precedenti, integrano l’elemento oggettivo del reato (in tal senso Cass., Rv. 267868).

Infine, la Cassazione rileva come l’estensione del regime di procedibilità per effetto dell’istituto della connessione tra procedimenti possa comportare una sorta di "circolarità" tra regimi, allorché, ad esempio, un reato connesso sia procedibile d’ufficio proprio perché commesso da soggetto autore anche del reato di stalking, come ad esempio nel caso di connessione del delitto di stalking con quello di lesioni aggravate dall’art. 576, e 1, n. 5.1 c.p. (così Cass., Rv. 266341). In tal caso le lesioni diventano procedibili d’ufficio perché commesse dallo stalker, e il delitto di cui all’art. 612 bis c.p. è procedibile anch’esso d’ufficio perché connesso a quello di lesioni aggravate.

 

6. Nel complesso, dunque, la decisione 30045/18 si inserisce nel solco tracciato da una giurisprudenza consolidata che appare, tanto più in un settore assolutamente delicato come quello dei reati con violenza alla persona, in linea di massima condivisibile. Nel momento in cui un reato la cui procedibilità è affidata alla scelta della persona offesa risulta collegato ad un reato tale da coinvolgere, invece, un interesse ulteriore, di rilievo “pubblico” e tale da essere sottratto alla libera disponibilità del singolo, ben si comprende come l’ordinamento non possa che farsi carico della procedibilità dell’intera vicenda. Ciò è tanto più vero ove si consideri che, come si è detto, se il legislatore avesse voluto limitare il rilievo della connessione ai soli casi di cui all’art. 12 c.p.p., ben avrebbe potuto farlo, come accade, ad esempio, nell’art. 371 co. 2 lett. a) c.p.p., ovvero nell’art. 210 co. 1 c.p. ovvero ancora nell’art. 197-bis co. 1 c.p.p. Le uniche perplessità riguardano l’ipotesi di connessione meramente «probatoria» di cui all’art. 371 co. 2 n. 3 c.p. In tale caso, infatti, la procedibilità d’ufficio del reato di stalking o di violenza sessuale, lungi dall’essere frutto di caratteristiche intrinseche della condotta di rilievo penale, sarebbe il risultato meramente “casuale” di un fatto processuale, quale quello della sussistenza di una fonte di prova comune. Considerate le gravi conseguenza sulla punibilità dell’autore del fatto della impostazione maggioritaria, sarebbe dunque certamente auspicabile l’adozione, nel caso di connessione meramente probatoria, di un atteggiamento di maggiore rigore.