Come aveva già lasciato intendere la scorsa settimana, riferendo al Consiglio di Sicurezza dell’Onu a New York sullo stato delle indagini sui presunti crimini commessi in Libia, il Procuratore della Corte Penale Internazionale (CPI) ha oggi formalmente
richiesto l’emissione di un mandato di arresto per Mu’ammar Gheddafi e per altri due soggetti di vertice del regime libico: si tratta in particolare di uno dei figli del raís,
Saif al Islam, considerato il primo ministro
de facto, e
Abdullah al Sanusi, capo della
intelligence militare, mano destra, nonché cognato, di Gheddafi.
I mandati di arresto in questione sono stati richiesti dal Procuratore sulla base della presunta personale responsabilità di tali soggetti nella commissione di crimini estesi e sistematici, tra cui omicidi, torture e attacchi indiscriminati, nei confronti della popolazione civile libica, ed in particolare dei manifestanti contro il regime.
Gheddafi stesso avrebbe ordinato gli attacchi contro i civili disarmati, tanto nelle pubbliche piazze quanto nelle private dimore, la repressione delle dimostrazioni anti-regime con il ricorso al fuoco, l’uso dell’artiglieria pesante contro persone che stavano prendendo parte ad un funerale e l’impiego di cecchini fuori dalle moschee.
Il Procuratore ha anche reso noto di essere in possesso di prove che dimostrano la responsabilità diretta del figlio Saif nell’organizzare il reclutamento di mercenari e la partecipazione di al Sanousi negli attacchi contro i manifestanti. I tre avrebbero inoltre congiuntamente pianificato le operazioni di repressione.
La persecuzione dei civili/dissidenti del regime è peraltro attualmente ancora in corso, come sottolineato dal Procuratore. Le denunce provenienti da parte dei centri per la difesa dei diritti umani segnalano che i ribelli vengono arrestati, torturati e fatti sparire. I crimini sarebbero commessi con il chiaro scopo di preservare l’assoluta autorità di Gheddafi e sopprimere ogni possibile minaccia al suo potere, nel più ampio ambito delle rivoluzioni esplose nel mondo arabo dalle prime settimane del 2011.
Spetta ora alla Camera preliminare, composta da tre magistrati, decidere se, sulla base delle prove presentate dal Procuratore a corredo della richiesta di arresto, vi siano “motivi ragionevoli” per ritenere che le persone indicate abbiano commesso un crimine di competenza della Corte.
Ai sensi dello Statuto della Corte, i giudici hanno la possibilità di accogliere o respingere la richiesta di arresto, ovvero di richiedere al Procuratore di fornire ulteriori prove a supporto. Non vi è un termine entro il quale i giudici devono pronunciarsi. Si può tuttavia notare che fino a questo momento le indagini relative alla Libia sembrano avere goduto di un canale preferenziale alla Corte: la tempistica con cui il Procuratore ha deciso l’apertura delle indagini (5 giorni dopo il deferimento da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu) e con cui ha chiesto l’emissione dei primi mandati di arresto (meno di tre mesi dall’apertura delle indagini) è sorprendente, e per certi versi inusuale rispetto agli standard della CPI e della giustizia internazionale in generale.
Qualora i mandati di arresto venissero emessi, si porrebbe l’ulteriore problema della loro esecuzione. Come sottolineato dal Procuratore, è responsabilità in primo luogo della Libia di eseguire i mandati. La Libia peraltro è parte delle Nazioni Unite e quindi, pur non essendo tra i membri della CPI, è giuridicamente obbligata a cooperare ai sensi della risoluzione 1970/2011 che ha deferito la questione alla CPI. Solo nel caso in cui le autorità nazionali non dovessero cooperare (scenario senz’altro alquanto probabile), la responsabilità dell’esecuzione dell’arresto passerebbe in mano alla comunità internazionale. Per il momento è prematuro scendere nei dettagli di una possibile operazione in tal senso, ma certamente lo scenario appare assai complicato e comporterà con ogni probabilità l’intervento di forze internazionali (peraltro già impegnate nell’intervento militare NATO a difesa dei civili libici), previa valutazione da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
La richiesta di emissione dei tre mandati di arresto non segna la chiusura delle indagini; al contrario, la Procura della Corte ha chiarito che le indagini sono ancora in corso. Particolare attenzione sarà in primo luogo ora dedicata – come annunciato dal Procuratore - alle denunce relative a stupri e altri presunti crimini di natura sessuale commessi nel corso delle repressioni. Peraltro, sebbene le indagini si siano concentrate in questa prima fase sugli episodi criminosi commessi da parte delle forze di Gheddafi, il Procuratore ha più volte affermato che anche possibili crimini di guerra commessi dalle forze ribelli saranno investigati.
Le indagini condotte da parte della CPI si stanno svolgendo in coordinamento con la Commissione Internazionale di Indagine istituita dal Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu, che presenterà il suo rapporto a Ginevra all’inizio del prossimo giugno.
Come affermato dai rappresentati della maggiori organizzazioni per i diritti umani, come Human Rights Watch, che stanno lavorando a fianco del Procuratore fornendo documentazione e possibili prove della commissione di gravi crimini, l’importanza della richiesta di tali mandati di arresto trascende lo specifico caso libico; essa dovrebbe valere come monito e campanello di allarme per tutti coloro – compresi vertici politici o militari – che si sono resi responsabili della commissioni di gravi violazioni dei diritti umani o del diritto internazionale, integranti crimini di guerra o crimini contro l’umanità, e quindi di interesse per l’intera comunità internazionale.
Non è la prima volta che la Corte richiede l’arresto di un capo di Stato in carica: nell’ambito delle indagini per i presunti crimini commessi in Darfur il Procuratore ha ottenuto nel 2008 l’emissione di un mandato di arresto per il Presidente sudanese Omar al Bashir (rimasto finora non eseguito). Le immunità, personali o funzionali, non hanno infatti alcun valore ai sensi dello Statuto della Corte.