A poco più di un mese dalla richiesta del Procuratore, il 27 giugno 2011 i giudici Camera preliminare della Corte Penale Internazionale hanno emesso tre mandati di arresto nei confronti, rispettivamente, del rais libico, il colonello Mu’ammar Gheddafi, di suo figlio Saif al Islam e di suo cognato e mano destra Abdullah al Sanusi.
Tali primi arresti sono stati chiesti dalla Corte nell’ambito delle indagini sui presunti gravi crimini commesi e ordinati dal rais libico nei confronti degli oppositori al regime. In particolare i recenti mandati di arresto sono stati spiccati per crimini contro l’umanitá (omicidio e persecuzione) commessi in Libia tra il 15 ed il 28 febbraio 2011 da parte delle forze del regime e dagli apparati di sicurezza.
La Camera preliminare, composta da tre giudici, tra cui anche l’italiano Cuno Tarfusser, ha ritenuto che vi siano motivi ragionevoli per credere che i tre destinatari dei mandati di arresto abbiano commesso i crimini per cui sono sottoposti a indagine da parte della procura della Corte. I giudici hanno infatti ritenuto che, sebbene il numero di vittime civili e la dinamica degli attacchi siano allo stato "non conosciuti“ a causa della campagna di insabbiamento delle informazioni portata avanti dallo stesso regime, vi sono ragionevoli motivi per credere che in meno di due settimane nel corso del febbraio 2011 centinaia di civili siano stati uccisi dalle forze di sicurezza libiche, e altrettanti siano stati feriti arrestati e imprigionati.
Tale situazione complessiva integrerebbe dunque, ai parere dei giudici, quel contesto di "attacco esteso o sistematico contro la popolazione civile“, presupposto per la sussistenza di crimini contro l’umanitá ai sensi dell’articolo 7(1) dello Statuto della Corte.
Le esigenze cautelari sarebbero motivate, ai sensi dell’articolo 58(1)(b) dello Statuto della Corte, da un triplice ordine di ragioni:
(i) per assicurare la presenza della persona al processo;
(ii) per assicurare che l’indagato non ostruisca o mettano a rischio le indagini;
(iii) per impedire la continuazione dei crimini. Sebbene ai fini dell’emissione di un mandato di arresto sia sufficiente la presenza di una delle suddette circostanze, i giudici hanno ritenuto che, nei casi di specie, siano tutte e tre contemporaneamente presenti.
Le indagini in Libia sono state aperte con sorprendente tempestività dal Procuratore il 3 marzo scorso, a seguito della adozione da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu della Risoluzione 1970 in data 26 febbraio 2011. É opportuno ricordare che la Libia non é uno Stato parte della Corte Penale Internazionale non avendo ratificato il suo trattato istitutivo, lo Statuto di Roma. Tuttavia la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu é vincolante per tutti gli Stati dell’Onu, che sono pertanto ora tenuti a collaborare con la Corte per assicurare l’arresto dei sospetti.
La Corte non ammette processi in absentia: l’arresto dei sospetti appare dunque necessario al fine di procedere. Tuttavia, come mostra il caso del Darfur, ai fini della comparizione della persona sottoposta ad indagine davanti alla Corte, talvolta è piú funzionale l’emissione di un mandato di comparizione che un mandato di arresto.
Se, in generale, tutte le indagini davanti alla Corte Penale Internazionale sono particolarmente complesse per via della natura dei crimini che hanno ad oggetto, la situazione libica appare particolarmente complicata per
l’alto tasso di politicizzazione del caso, riscontrabile, ad esempio, nella rapidissima scelta del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, presa all’unanimità, di deferire la questione alla Corte Penale Internazionale e nelle altrettanto rapide apertura delle indagini da parte del Procuratore ed emissione dei mandati di arresto da parte dei giudici. Se, da un lato, tale repentino intervento aveva acceso qualche speranza nei sostenitori della giustizia penale internazionale (tra cui la sottoscritta, ancora ottimista nel primo commento di febbraio 2011, in
questa Rivista), che si potesse trovare una via alternativa all’intervento militare, vi è oggi chi sostiene che il deferimento della questione alla Corte sarebbe solo servito a creare i presupposti per meglio giustificare l’intervento armato in Libia.
Certamente lascia perplessi il confronto – e l’inazione del Consiglio di Sicurezza – con altre situazioni altrettanto gravi createsi nell’ambito delle rivolte arabe del 2011, quali ad esempio in Siria o anche in Egitto.
La parallela esistenza di un intervento da parte delle forze della Nato e di una indagine da parte della Corte Penale Internazionale non è ideale. L’intreccio di giustizia internazionale, forza armata e interessi politico-economici rischia di creare una impasse di non facile gestione, di cui sono i civili libici a fare le spese. Quel che è chiaro è che da questo momento, con l’emissione dei mandati di arresto per Gheddafi e i suoi piú stretti collaboratori, qualsiasi soluzione politica al conflitto, quale una possibile via di fuga (anche chiamata esilio) offerta al rais – come adombrato recentemente tra l’altro dal nostro Ministro degli esteri Frattini – é esclusa.
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