ISSN 2039-1676


12 dicembre 2018 |

Gaetano Carlizzi, Libero convincimento e ragionevole dubbio nel processo penale. Storia prassi teoria, Bonomo Editore, 2018

Recensione

 

1. Nato nel diciottesimo secolo come reazione a un sistema di valutazione della prova penale che poggiava su premesse sostanzialmente irrazionalistiche – quel sistema delle “prove legali” che aveva finito per alimentare la ferocia inquisitoria ad eruendam veritatem, senza mai autenticamente affrancarsi, come notava Cesare Beccaria, dalla logica superstiziosa che animava gli antichi riti ordalici –, il principio del libero convincimento ha finito paradossalmente per consegnare anch’esso esiti irrazionalistici e anticognitivi.

Da un lato esso è presto degenerato, insieme con il principio di ricerca della “verità materiale”, in un più generale canone di insofferenza della prova penale a limiti legali in tutte le fasi del procedimento probatorio, ammissione ed acquisizione incluse. «Inatteso e clamoroso capovolgimento semantico», scriveva magistralmente Massimo Nobili: «tipico contrassegno del processo accusatorio», il principio del libero convincimento finì per trasformarsi «in un equivalente della massima che postula un potere tendenzialmente illimitato del giudice nell’accertamento del fatto e secondo la quale nessun prezzo è troppo alto, quando lo scopo è la ricerca della “verità materiale” e la repressione della criminalità».

D’altro lato, il convincimento libero ha progressivamente assunto la connotazione “romantica” dell’intime conviction, del giudicare “per sentimento” anziché per ragione. Affrancare il giudice da vincoli legali nella valutazione della prova significa soltanto tracciare limiti negativi alle dinamiche di formazione del convincimento giudiziale: significa soltanto dire come non si deve pervenire al verdetto di colpevolezza o di innocenza. Ma rimane interamente aperto il problema di come quel convincimento debba formarsi in positivo, di quali siano le condizioni probatorie che lo giustificano. Per molto tempo ha appunto prevalso l’idea che convincimento “libero”, “intimo”, significasse convincimento affidato a intuizioni non razionali, governato da illuminazioni emotive: libertà e razionalità del decidere erano concepiti come i termini di un’antitesi. Solo sul finire del diciannovesimo secolo – grazie al pensiero di giuristi come Giandomenico Romagnosi o Emanuele Carnevale – si è fatta strada l’opinione contraria, ossia l’idea che la valutazione libera delle prove conservasse i caratteri dell’atto razionale, suscettibile, come scriveva ancora Nobili, di essere «analizzato e vincolato a un complesso di regole, anche se non di carattere normativo».

Sul terreno dei giudizi di fatto noi ormai coltiviamo apertamente la pretesa di imbrigliare la funzione giudicante all’interno di canoni oggettivi e verificabili di giustificazione razionale del convincimento. Lo dimostra l’art. 606 lett. e c.p.p., che sottopone la motivazione della sentenza a un vaglio di logicità, dando per scontato che esistano criteri razionali per distinguere i ragionamenti oggettivamente “buoni” da quelli “cattivi”, i giudizi attendibili da quelli arbitrari.

Un tentativo di ricondurre le dinamiche decisionali entro i confini della razionalità è rappresentato dalla consacrazione normativa dell’“oltre ogni ragionevole dubbio” come canone di valutazione delle prove penali (o, secondo alcuni, come regola di giudizio affidata al giudice). Tanto più se il principio che oggi figura nell’art. 533 c.p.p. viene inteso in chiave di probabilità “logica” o baconiana (id est, come riferito al grado oggettivo di conferma che le prove forniscono all’ipotesi d’accusa) anziché nel senso della probabilità “quantitativa” o pascaliana (id est, come riferito al grado soggettivo di convincimento razionale del giudice in ordine alla circostanza che un determinato fatto si sia verificato o possa verificarsi).

 

2. Questo legame indissolubile che avvince libero convincimento e ragionevole dubbio è al centro della riflessione condotta da Gaetano Carlizzi in un pregevolissimo volume di recente pubblicazione (Libero convinci­mento e ragionevole dubbio nel processo penale. Storia prassi teoria, Bonomo Editore, 2018). Come si legge nella prefazione, «il rapporto tra libero convincimento e ragionevole dubbio è qui concepito come il legame essenziale tra l’autonomia valutativa del giudice penale e le direttive prescritte per la ricostruzione del caso in giudizio. Ed è proprio ciò a garantire la giustizia della decisione penale, cioè la sua aderenza sia alle particolarità del caso sia alle aspettative di garanzia dell’imputato» (p. 5).

Nella ricostruzione offerta dall’Autore, libero convincimento e ragionevole dubbio sono «due idee capitali del sistema di giustizia penale» (pag. 10) che – pur diverse per genesi e contenuto – si saldano nel confermare e portare alle estreme conseguenze una medesima pretesa di razionalità delle decisioni giudiziarie penali, obbligando il giudice a decidere in fatto perseguendo non già la (inattingibile) certezza assoluta, ma la «certezza ottimale della prova» che si impone nei giudizi penali, nel cui ambito non «può tollerarsi il ricorso a una qualunque delle tante forme di razionalità correnti», ma solo «la più rigorosa», che impone che la colpevolezza dell’imputato sia provata «in maniera massimamente certa» (p. 104).

In questa comune proiezione funzionale, il principio del libero convincimento viene ad essere «completato» dal principio del ragionevole dubbio (anziché esserne «limitato», come molti, anche autorevolmente, ritengono): i due principi «non sono in conflitto tra di loro, né sono legati da un rapporto di limitazione unilaterale. Visioni così riduttive, legate all’esperienza degli abusi di discrezionalità della giurisprudenza del passato, ne mortificano la carica propulsiva garantista» (p. 104 s.).

 

3. A queste conclusioni, l’Autore perviene all’esito di una capillare analisi dei due principi, che muove dalla ricostruzione della loro genesi ed evoluzione storica («fonti storiche»: pp. 11-24, 51-65) per poi svilupparsi in un’attenta ricognizione di come libero convincimento e ragionevole dubbio vivono nella prassi applicativa («applicazioni contemporanee»: pp. 25-30, 67-78) e nella riflessione dottrinale («determinazioni teoriche»: pp. 25-46, 79-99).

Snodo fondamentale dell’analisi critica è quello che nella prefazione al volume viene definito «un interrogativo capitale: che il nostro regime della prova penale sia ispirato alle idee del libero convincimento e del ragionevole dubbio, è una tesi che registra semplicemente le tendenze codicistiche della materia, oppure ne individua le regole o, addirittura, i principi fondamentali?» (p.6). Nel rispondere a queste domande, l’Autore perviene agli approdi più originali della sua ricerca. Pur dando conto di autorevoli opinioni contrarie, rigorosamente esposte e messe in discussione, Carlizzi sostiene che libero convincimento e ragionevole dubbio costituiscono principi fondamentali e costituzionalmente indefettibili del nostro ordinamento processuale.

Il principio del libero convincimento, si sostiene, va indubbiamente riletto, alla luce della moderna epistemologia giudiziaria, come espressione di un’esigenza di valutazione razionale della prova. L’accertamento fattuale va orientato razionalmente: ma la razionalità del sistema giudiziario (e quindi anche della decisione) assume un rilievo fondamentale anche nella Carta Costituzionale (in particolare negli artt. 3 comma 2, 27 comma 3, 111 comma 6 Cost.; non invece nell’art. 101 comma 2, non incompatibile con un sistema di prova legale). Dunque il libero convincimento non è un mero principio legislativo, liberamente derogabile da norme di pari rango, ma – nella misura in cui impone la razionalità delle decisioni giudiziarie penali – un vero e proprio principio costituzionale. Come tale, esso è comprimibile per altre esigenze, ma non eliminabile, ed è destinato a rivolgersi tanto al giudice come criterio ermeneutico (utile a colmare lacune normative e conformare in via interpretativa norme espresse) quanto al legislatore, in forma di obbligo negativo (ripudiare il sistema delle prove legali) e positivo (assicurare la razionalità delle decisioni penali) (p. 35-50).

A garantire quest’ultimo risultato contribuisce, come accennato, il principio della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, che sarebbe da ritenersi anch’esso di rango costituzionale. Il percorso argomentativo seguito dall’Autore per giungere a questa conclusione trae ispirazione dalla sentenza della Corte Suprema statunitense in re Winship del 1970, in cui si afferma che la Bard Rule assume valenza costituzionale in quanto funzionale non solo alla tutela di fondamentali diritti individuali, ma anche dell’efficienza del sistema giudiziario, perché consente di minimizzare l’errore e di aumentare conseguentemente la fiducia nella giustizia. Di queste esigenze si farebbe carico anche l’art. 111 Cost., che evoca un’idea di giustizia (il “giusto processo”) che a sua volta contempla, tra l’altro, la proporzionalità (una decisione è giusta se rispettosa del principio di proporzionalità). Nel modello quadripartito del giudizio di proporzionalità prospettato da Barak e ripreso da Cartabia e Pino, una decisione è giusta se persegue un obiettivo meritevole di tutela (legittimità), se è concretamente in grado di raggiungere tale obiettivo (idoneità), se comporta un minimo sacrificio di altre esigenze di pari o inferiore valore nella misura minima necessaria a raggiungere l’obiettivo (necessità), e se consegue vantaggi di consistenza tendenzialmente superiore a quella di tali sacrifici (proporzionalità in senso stretto).

Nel caso della prova penale, si afferma, «il regime complessivamente migliore» per il soddisfacimento di questi quattro requisiti è proprio quello che consegue all’adozione del canone della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Esso infatti, contrariamente al criterio civilistico del “più probabile che no”, consente di minimizzare le condanne ingiuste, i cui «enormi inconvenienti (per la vita dell’imputato e per l’efficacia general-preventiva del sistema-Giustizia) non sono affatto compensati dai limitati vantaggi del contenimento delle probabilità di assoluzioni ingiuste» (pag. 96). In altre parole, la bard rule comporta vantaggi nettamente superiori ai sacrifici che pure sono connaturati alla sua adozione. Così concepita, essa assurge a vero e proprio principio di rilievo costituzionale, trattandosi di un’espressione del giusto processo ex art. 111 Cost. (nella specie, del principio di proporzionalità cui rimanda il concetto di giustizia).

 

4. Rettamente intesi, e issati su questi robusti cardini costituzionali, libero convincimento e ragionevole dubbio, in conclusione, «possono costituire un binomio formidabile per l’affermazione di quella razionalità (lato sensu) giudiziaria da cui dipende […] la stessa giustizia del diritto» (p. 105).

Rimane ovviamente sullo sfondo un interrogativo pregiudiziale: siamo realmente in grado di individuare i criteri che rendono una congettura “buona” anziché “cattiva”, una credenza “più giustificata” di un’altra? Siamo in grado di tracciare, sul terreno dell’accerta­men­to giudiziale, le coordinate all’interno delle quali le inferenze probatorie su cui poggia la decisione del giudice possono ritenersi razionalmente fondate?

Le difficoltà nascono dalla constatazione che tali inferenze sono, almeno prevalentemente, di tipo induttivo (rectius, abduzioni, inferenze alla spiegazione migliore): e nell’opinione di molti, l’illusione che esista una qualche connessione logica tra l’evidenza di cui si dispone e l’ipotesi da verificare cadrebbe al cospetto dell’invincibile confutazione humeana del ragionamento per induzione. Ancora una volta si tratta di raccogliere la sfida di Hume: è realmente possibile attribuire un fondamento razionale alle inferenze induttive (e, nello specifico del ragionamento giudiziario, a valutazioni che poggiano in larga misura sul “senso comune” e su generalizzazioni in merito al comportamento umano)?

Inutile nascondere che l’impresa appare ardua. Sfiancata dai paradossi, la logica induttiva sembra incapace di giustificare se stessa: ancora «non disponiamo» – ammettono i filosofi della scienza – «di una definizione del tutto soddisfacente del “concetto qualitativo” di conferma, vale a dire di una soddisfacente caratterizzazione dei casi nei quali una data evidenza E conferma (costituisce una buona evidenza per) un’ipotesi H» (Festa). Suona convincente, tuttavia, la replica di chi, come Strawson, invita a non confondere due diversi piani del discorso. Certamente la logica non garantisce la conclusione – essa stessa induttivamente suffragata, e quindi contingente – che i connotati di uniformità e regolarità riscontrabili nelle leggi di natura o nei comportamenti umani siano tali da rendere universalmente valide le inferenze induttive. Questo però non significa che il ragionamento induttivo, pur autoalimentandosi, non sia razionale: in un mondo governato dal caos sarebbe l’induzione a farci desistere – del tutto razionalmente – dall’aspettativa di qualcosa di diverso dalla più totale irregolarità; altrettanto razionale, nell’universo che conosciamo, è ritenere fondata un’ipotesi in misura proporzionale alla forza dell’evidenza che la sostiene, così come ritenere attendibile una generalizzazione in misura proporzionale al numero dei casi favorevoli e alla varietà delle circostanze in cui sono stati osservati.

In questi termini, l’idea – implicita nell’art. 606 lett. e c.p.p. e nella riflessione di Carlizzi – che esistano criteri razionali per distinguere (anche nelle sentenze penali) i ragionamenti oggettivamente “buoni” da quelli “cattivi”, i giudizi attendibili da quelli arbitrari, appare, fortunatamente, incontestabile.