ISSN 2039-1676


25 novembre 2010 |

Il processo penale fra verità e dubbio

Intervento al Corso di aggiornamento organizzato dalla Camera Penale di Firenze su "Il giudizio di cassazione nel sistema processuale penale" (27 novembre 2009).

1.- Innanzi tutto, premono alcune considerazioni pregiudiziali, per così dire ideologiche, sulle coordinate del rito penale di stampo accusatorio ed a motivazione costituzionalmente obbligata: a questo modello di processo, soprattutto dopo le novelle interpolative dell’art. 111 Cost. e degli artt. 606, comma 1 lettera e) e 533, comma 1 cod. proc. pen., va riconosciuta la funzione cognitiva e lo scopo di accertare la verità in merito ai fatti oggetto dell’imputazione.

 

Parlare di contraddittorio, connessioni probatorie, criteri inferenziali, relazioni fra prove e ragionamento giudiziale o fra prove e decisione, senza riconoscerne il rilievo epistemico e cognitivo per l’accertamento dei fatti, non avrebbe, infatti, alcun senso.

 

E tale funzione permea e ispira ogni atto del processo: dalla formulazione dell’accusa, all’esito di un percorso abduttivo diretto a selezionare la migliore e la più verosimile fra le ipotesi ricostruttive del fatto, al contraddittorio per la prova e sulla prova, alla conferma o alla falsificazione dell’enunciato di accusa, oltre la soglia del ragionevole dubbio, sì da giustificare la dichiarazione di colpevolezza e la condanna dell’imputato.

 

2.- “Verità”, una parola messa al bando – almeno sembra - dalla grammatica delle leggi, che gli antichi greci definivano in termini non affermativi bensì di negazione: “a-letheia” è ciò che “non” si nasconde, si svela. Così come in termini di negazione pure si definiva il “dubbio”: “a-poria” è la strada che “non” è tracciata in modo chiaro e visibile.

 

Il processo penale di tipo accusatorio tende ad assolvere una funzione aletica, e però l’incertezza degli esiti cognitivi e decisori ne connota lo statuto epistemologico: un ossimoro e una contraddizione insuperabile? A ben vedere, tuttavia, le cose non stanno così.

Occorre chiedersi: qual è la verità di cui stiamo parlando, qual è il dubbio idoneo a mettere in crisi l’ipotesi ricostruttiva del fatto, prospettata dall’accusa, che pretende invece di essere convalidata e garantita dalla valutazione conclusiva del giudice?

 

Francesco Mario Pagano, giurista napoletano del primo ’800, intitolava il saggio del 1819 sulla procedura penale (ristampa anastatica del 1997 a cura dell’Unione delle Camere Penali Italiane) “Logica de’ probabili”, citando in epigrafe un passo della Retorica di Aristotele: “non deve il giudice sentenziar sempre dalle cose necessarie, ma dalle verisimili ancora”. Aggiungeva inoltre Aristotele, nello stesso passo, che è questo il miglior modo di decidere le controversie e che “non basta confutare un argomento perché non è necessario ma si deve confutarlo perché non è verosimile”.

 

3.- S’intende dire, scartando lo scetticismo radicale del giurista che, evocando il caos e l’indistinzione del caso, nega la funzione cognitiva e il fine di verità del processo penale, che entrambi, funzione cognitiva e fine di verità, (hanno sempre fatto e) debbono fare necessariamente i conti con il carattere probabilistico dell’accertamento probatorio e con la logica inferenziale di tipo induttivo-probabilistico che fonda la decisione giudiziale.

 

Il tessuto connettivo di ogni valutazione decisoria consiste in un giudizio probabilistico, scandito per peso e qualità secondo le diverse fasi e le diverse funzioni proprie di ciascuna fase del processo, essendo la valutazione probabilistica conclusiva circa l’attendibilità e la credibilità dell’ipotesi di accusa sicuramente più pregnante e diversa di quella a fondamento di una misura cautelare, personale o reale, o di quella giustificativa del rinvio a giudizio dell’imputato.

 

4.- Tutto ciò, infine, all’interno di una diffusa rete di regole epistemologiche che disegnano il ragionamento probatorio del giudice alla base dei distinti giudizi probabilistici.

 

Il giudice dev’essere libero nel suo convincimento e nella decisione: il che significa, tuttavia, libertà da condizionamenti, pressioni e dipendenze esterni, non però discrezionalità pura e arbitraria che si muove al di fuori dei binari e dei “percorsi di verità” delineati dalle regole epistemologiche del codice di rito.

 

Il veicolo per l’accertamento della verità nel processo penale è offerto dal ragionamento probatorio nel giudizio di accertamento del fatto: la reale partita si gioca fra le parti tutta all’interno del perimetro della determinazione del fatto in un giudizio per sua natura incerto.

 

Le scelte di fondo sono racchiuse nella regole, forti e incisive, degli artt. 192, 546, comma 1 lett. e), 606, comma 1 lett. e) cod. proc. pen., strettamente correlate alla riforma dell’art. 533, comma 1, quanto al criterio dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio”.

 

Non si pretende dal giudice una qualsiasi motivazione sul fatto, ma che egli abbia percorso l’itinerario della ragione scandito dalle citate regole epistemologiche: a partire dall’elemento di prova fino al risultato di prova, secondo criteri di inferenza, quali la massima di esperienza, la legge statistica, la legge scientifica di più o meno alto grado di attendibilità empirica.

 

Pertiene, infatti, al diritto di difesa non soltanto chiedere, assumere, confutare le prove, ma anche la garanzia della risposta razionale del giudice, del rendiconto, del ragionamento e delle connessioni probatorie che il giudice ha individuato e posto a fondamento del suo convincimento e della decisione.

 

Non basta la nuda enunciazione statistica delle prove; occorre argomentare, anche implicitamente ma in un contesto di spiegazione razionale, sui criteri utilizzati per spiegare il perché si sia tratto quel risultato probatorio da quegli elementi di prova.

 

5.- In un processo di stampo accusatorio non può certo essere sufficiente il disposto dell’art. 192. Si pretende dal giudice, nella motivazione in fatto (art. 546, comma 1 lett. e), di prevenire alla conclusione di conferma o falsificazione dell’enunciato di accusa solo dopo che abbia dato conto anche della validità, o meno, delle cosiddette ipotesi antagoniste formulate alla stregua delle prove contrarie: in questo, anzi, si ravvisa la vera caratteristica del processo di stampo accusatorio.

 

E’ stato confutato dalla difesa l’enunciato di accusa? Quali sono state le prove e le argomentazioni contrarie addotte da ciascuna parte? E, se si tratta di criteri inferenziali dettati da leggi scientifiche, esistono comunque nella relativa letteratura plurime e ulteriori spiegazioni alternative dell’evento?

 

La lettera e) dell’art. 546 esige che il giudice, rispondendo a queste domande, non si limiti a registrare contabilmente le eventuali alternative, bensì spieghi perché le ha ritenute non attendibili, non idonee cioè a confutare razionalmente l’enunciato di accusa.

 

A coronamento di questo lungo e complesso itinerario, che costituisce il cuore del processo penale di stampo accusatorio, è posto infine il controllo di legittimità affidato alla Corte di Cassazione, nel crisma della logicità del ragionamento probatorio del giudice di merito quanto all’accertamento del fatto: così riconoscendosi, senza riserva alcuna, il fine cognitivo e di verità che il processo persegue alla stregua – anche - di regole epistemologiche e logiche.

 

6.- L’invito ai protagonisti – giudice, pubblico ministero, avvocati – a “ragionare”, ad esprimere le “ragioni” delle proprie opzioni, che è ripetuto in ogni snodo significativo del processo, si fa via via più rigoroso nell’incedere dei diversi gradi dello stesso, laddove, a fronte del ragionamento probatorio che giustifica la decisione giudiziale, la parte interessata è chiamata a confutare gli argomenti dell’apprezzamento probabilistico espresso dal giudice.

 

L’articolo 581, lettera c) cod. proc. pen. esige perentoriamente che la parte, la quale intende contestare la decisione giudiziale, nell’enunciare le proprie doglianze nei motivi di impugnazione, indichi specificamente, a sua volta, “le ragioni di diritto e gli elementi di fatto”, alla cui stregua il percorso giudiziale possa definirsi epistemologicamente o logicamente non corretto quanto all’accertamento del fatto e della verità.

 

La stessa norma esige altresì che ciò avvenga con il connotato della “specificità”. La partita decisiva di ogni atto di impugnazione si gioca ormai, innanzi tutto, sul terreno della genericità o della specificità dei relativi motivi di gravame: ne è riprova il novellato tessuto dell’art. 606, comma 1 lett. e), come interpolato dalla legge Pecorella n. 46 del 2006, laddove è inserito, accanto alla mancanza e alla manifesta illogicità, anche la contraddittorietà della motivazione.

 

7.- Contraddittorietà che non attiene invero alla illogicità di cui era già traccia nell’originario impianto dell’art. 606, essendo annoverata fra le regole primarie della logica quella della non contraddittorietà degli enunciati.

 

La contraddittorietà non investe la logica degli enunciati interni della motivazione, bensì la corrispondenza/coerenza, o non, fra quanto affermato in sentenza sulla valutazione della prova, fra il discorso sulla prova, il ragionamento sulla prova, il passaggio inferenziale dall’elemento di prova al risultato probatorio, e il testo che comprovi quanto avvenuto realmente nella storia del processo.

 

Contraddittorietà significa quindi addebito di infedeltà del discorso racchiuso nella motivazione rispetto al dato probatorio che è stato effettivamente acquisito nel processo.

 

Lo si chiami ancora, se si vuole, vizio di legittimità della sentenza, ma non ci si deve scandalizzare se taluno volesse invece definirlo vizio di merito, in quanto il giudizio conclusivo risulta formulato all’esito di una non corretta ricostruzione probatoria del fatto.

 

8.- Ciò che davvero conta e su cui occorre fare perno, per dare dignità alla riforma legislativa del 2006, è la pretesa di specificità del motivo di ricorso, l’onere suppletivo imposto al ricorrente, il quale, al di là di quanto già stabilito dall’art. 581 lett. c), ha il compito di fotografare e di dimostrare – quasi fisicamente - la distorsione palese, evidente, univoca fra il risultato probatorio (“bianco”) utilizzato in motivazione e l’atto probatorio acquisito nel processo (“nero”).

 

Spetta esclusivamente al ricorrente assolvere l’onere di specificità. Se il motivo – di legittimità o di merito, poco importa la definizione formale - è specifico e obiettivamente indiziante di un ragionamento del giudice di merito viziato da “contraddittorietà” nella ricostruzione probatoria del fatto, l’ulteriore gradino di controllo offerto dalla nuova formulazione della lettera e) dell’articolo 606 consente al giudice di legittimità di rilevare il vizio di logicità della motivazione; altrimenti, il ricorso si palesa inammissibile ed è destinato alla sanzione dell’inammissibilità, per difetto di specificità del relativo motivo di gravame.

 

In questi limiti, e solo in questi limiti, oggi può dirsi consentito alla Corte di cassazione di accedere agli atti del processo: in tanto la Suprema Corte è legittimata all’incursione in quanto il ricorrente è in grado, con un alto tasso di specificità delle ragioni della richiesta, di evidenziare la cennata divergenza, tale da sovvertire il costrutto del ragionamento giudiziale.

 

Sembra, pertanto, di intravedere nei canoni di “specificità” e di “decisività” dei singoli motivi di ricorso il tessuto vivente del moderno giudizio di legittimità, soprattutto laddove – come nel nostro Paese – pervengano ogni anno in Cassazione circa 50.000 procedimenti penali e la selezione preventiva dei ricorsi ammissibili/inammissibili costituisca un postulato organizzativo ineludibile.

 

9.- Occorre a questo punto tirare qualche conclusione – provvisoria – del discorso. Il moderno processo penale di stampo accusatorio tende all’accertamento della verità dell’enunciato di accusa ed è imperniato su ragionamenti giudiziali di tipo induttivo-probabilistico (il paradigma indiziario o divinatorio versus il paradigma galileiano o scientifico: Carlo Ginzburg, Spie, in Miti Emblemi Spie, Einaudi, 1986, 158 ss.): un fatto avvenuto nel passato va ricostruito alla luce delle tracce probatorie da esso lasciate e rilevabili nel presente.

 

Ma nel processo penale, accanto alle regole epistemologiche fissate per la corretta ricostruzione probatoria del fatto, vanno osservate altresì le regole costituzionali di rango più elevato, che segnano i confini dei giudizi di tipo induttivo-probabilistico, quali: la presunzione d’innocenza dell’imputato a fronte dell’ipotesi di accusa, che comporta che l’onere della prova gravi esclusivamente a carico del pubblico ministero; ma anche il principio del contraddittorio, il diritto alla confutazione, alla prova contraria, alla  formulazione di ipotesi antagonistiche; e poi, ancora, oltre al già esistente obbligo del giudice di assolvere l’imputato quando non è sufficiente la prova della colpevolezza, il potere di affermarne la responsabilità e di condannarlo solo se ne “risulta” provata la colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio.

 

Le coordinate del processo penale moderno restano in ogni caso le ipotesi, le prove,i fatti e la verità. E in ciò consiste anche l’intreccio del processo col diritto penale sostanziale: solo un processo intessuto di regole forti quanto ai percorsi epistemici e logici è in grado di supportare la verifica degli elementi costitutivi del reato, mediata dalle evidenze probatorie e dal ragionamento giudiziale sulle stesse.

 

10.- Da ultimo, non sembra che il principio dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio” (acronimo anglosassone BARD) sia solo una scontata e insignificante regola sistemica.

 

Nel processo penale nordamericano non è previsto l’obbligo di motivazione, la decisione della giuria resta criptica, una scatola nera; nel processo penale europeo e continentale, per contro,  il giudice ha l’obbligo di giustificare razionalmente la decisione e, soprattutto, di spiegare, attraverso le varie argomentazioni della motivazione di fatto, come e perché dalle evidenze probatorie egli sia pervenuto ai risultati probatori e alle valutazioni conclusive di convalida/conferma o di falsificazione dell’enunciato di accusa.

In un sistema processuale, come quello italiano, che, invocando la prospettazione e l’esame delle “ragioni” di tutti i protagonisti, fa perno sul ragionamento probatorio e pretende decisioni che siano fondate sulla logica e non presentino vistose e decisive contraddizioni, il dubbio che non autorizza la condanna dell’imputato dev’essere, pur esso, “ragionevole”.

 

Ci si deve chiedere a questo punto: nella logica del giudizio probabilistico fin dove deve giungere il grado di conferma dell’ipotesi di accusa per potersi dire acquisita la verità processuale?

 

Orbene, se il grado di conferma va letto in chiave di relazione tra l’accertamento del fatto alla luce dell’evidenza probatoria e la probabilità che l’ipotesi racchiusa nell’enunciato di accusa si sia effettivamente verificata, occorre che siffatta probabilità sia argomentata con un “alto grado di credibilità razionale”.

 

Il giudice, solo dopo che sia riuscito a sgombrare il terreno da ogni ipotesi antagonista e falsificatoria, può giudicare effettivamente confermata l’ipotesi di accusa.

 

Si assume “ragionevole”, quindi, non ogni e qualsiasi dubbio, non il dubbio pure astrattamente possibile e sempre configurabile,  bensì soltanto il dubbio che, correlato ai dati empirici acquisiti nel processo, è in grado confutare e mettere in crisi l’apparente coerenza formale del postulato accusatorio, immettendo nel circuito del convincimento del giudice una ricostruzione alternativa e diversa del fatto storico, strettamente agganciata tuttavia alle “specifiche” evidenze probatorie, trascurate o non correttamente apprezzate dal giudice.

 

Le difficoltà probatorie, nel pervenire ad un giudizio di credibilità razionale dell’enunciato di accusa di grado così elevato, comportano l’assoluzione dell’imputato: questo, oggi, mi sembra il senso della regola tradizionale “in dubio pro reo”.