ISSN 2039-1676


23 settembre 2019 |

La Cassazione scardina in via interpretativa l’automatismo applicativo delle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale: verso una nuova questione di legittimità costituzionale?

Cass., Sez. VI, sent. 29 maggio (dep. 11 giugno) 2019, n. 25771, Pres. Paoloni, rel. Bassi, ric. P. A.

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1. Dopo la pronuncia della Corte costituzionale n. 24 dello scorso gennaio che, come noto, ha espunto dal catalogo dei destinatari della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e della confisca di prevenzione (artt. 4 e 16 cod. ant.) la categoria dei soggetti abitualmente dediti a traffici delittuosi (art. 1, lett. a, cod. ant.) in ragione della sua «radicale imprecisione»[1], l’onda lunga della grande camera De Tommaso[2] continua ad agitare le acque della prevenzione ante delictum.

Nella sentenza in commento, a finire sotto la lente dei giudici di legittimità sono state le prescrizioni che, ai sensi dell’art. 8 cod. ant., conseguono all’applicazione della sorveglianza speciale: la questione affrontata dalla Corte di cassazione non ha tuttavia riguardato la problematica combinazione degli anzidetti obblighi e divieti con la norma incriminatrice di cui all’art. 75 cod. ant., come invece avvenuto in due recenti arresti delle sezioni unite[3], bensì la loro automatica operatività al momento della sottoposizione del proposto alla misura personale.

 

2. Nel caso di specie, un soggetto – indagato per i reati di atti persecutori, sequestro di persona e violenza privata in danno della propria ex compagna ed inizialmente sottoposto, nell’ambito di tale procedimento penale, a misura cautelare coercitiva – veniva raggiunto da un decreto applicativo della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza sulla base del suo inquadramento nella fattispecie di pericolosità di cui all’art. 4, lett. i-ter), cod. ant. e di una valutazione in termini di attualità della pericolosità sociale.

Avverso la pronuncia d’appello – che si era limitata a modificare la fascia oraria dell’obbligo di permanenza in casa, confermando, per il resto, il decreto impugnato – il prevenuto presentava ricorso per cassazione, lamentando, tra l’altro, l’irragionevolezza delle prescrizioni imposte: più precisamente, venivano reputate «inutili, eccessive ed incomprensibili le prescrizioni concernenti l’orario di entrata e di uscita, in quanto prive di alcuna ragionevole giustificazione», così come era ritenuto «altrettanto ingiustificato il divieto di partecipare a pubbliche riunioni».

 

3. Prima di esporre la soluzione adottata dalla Corte di cassazione, sembra opportuno richiamare brevemente i tratti essenziali di disciplina del codice antimafia che vengono in gioco nel caso di specie.

Come noto, la sorveglianza speciale – “semplice” o con obbligo o divieto di soggiorno – porta con sé una serie di prescrizioni cui il prevenuto deve uniformarsi per tutta la durata della misura, pena la commissione del reato di cui all’art. 75 cod. ant.

In particolare, l’art. 8, co. 4, cod. ant. prevede una serie di obblighi e divieti che il giudice della prevenzione è tenuto a prescrivere senza alcun margine di discrezionalità in merito all’an: tra questi rientrano proprio l’obbligo di permanenza in casa durante le ore notturne e il divieto di partecipare a pubbliche riunioni. Il carattere obbligatorio delle prescrizioni contemplate dal co. 4 del summenzionato art. 8 – così come di quelle del previgente art. 5 l. n. 1423/1956 – è stato da sempre ritenuto pacifico in dottrina[4]: giocano in tal senso il tenore letterale della citata disposizione, la quale recita chiaramente che il giudice «[i]n ogni caso, prescrive» le imposizioni in questione, nonché l’interpretazione sistematica del co. 4 con i successivi co. 5 e 6, i quali fanno riferimento ad una serie di altre prescrizioni che il tribunale, invece, «può» imporre.

Anche la giurisprudenza, quantomeno fino alla sentenza De Tommaso, si era attestata sulla medesima posizione. Anzi, sotto la vigenza della l. n. 1423/1956 i giudici di legittimità avevano dato una lettura molto rigorosa della disciplina relativa alle prescrizioni, affermando addirittura che «la citata normativa deve essere interpretata nel senso che il tribunale possa disporre discrezionalmente prescrizioni diverse da quelle previste obbligatoriamente dal legislatore, ma non applicare quest’ultime in forma diversa da quella espressamente prevista»[5].

Solo di recente questa lettura del dato normativo è stata messa in discussione da una pronuncia della Cassazione, con la quale è stata annullata senza rinvio una sentenza di condanna per il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale in ragione della mancata motivazione dell’inflizione del divieto di partecipare a pubbliche riunioni da parte del giudice della prevenzione[6]. In particolare, nel richiamato provvedimento si legge che «alcuna indicazione si trae dal provvedimento impugnato sulle ragioni di limitazione alla libertà di partecipare a riunioni pubbliche e comizi elettorali e non si intende in che termini e in che misura la limitazione di un diritto politico e democratico, come quello di partecipare a comizi elettorali, trovi giustificazione nella imposizione di una prescrizione come quella indicata e oggetto di contestazione»: tale prescrizione – prosegue la Corte – si risolve «in una compressione generalizzata di una libertà fondamentale, senza correlarsi all’aspetto della ritenuta pericolosità sociale e senza, soprattutto, dire per quale ragione essa imposizione si renda, nel singolo caso concreto, necessaria in funzione dell’attuazione del controllo di pericolosità»[7].

 

4.  Con l’annotata sentenza, la Corte di cassazione ha proseguito nella direzione indicata dal precedente giurisprudenziale da ultimo citato e, in accoglimento delle doglianze del ricorrente concernenti l’irragionevolezza delle prescrizioni imposte con la misura della sorveglianza speciale, ha annullato con rinvio il decreto impugnato, avendo ravvisato una violazione di legge nella mancanza di motivazione a supporto dell’applicazione delle suddette prescrizioni.

Il nodo da sciogliere era, con tutta evidenza, quello relativo al carattere obbligatorio ovvero discrezionale delle prescrizioni elencate all’art. 8, co. 4, cod. ant. Ebbene: la Corte, pur riconoscendo che la citata disposizione «sembra postulare un automatismo fra l’applicazione della misura di prevenzione e dette limitazioni» (§ 4.1 della sentenza in parola), ritiene che sia possibile (doveroso) pervenire ad una diversa soluzione sulla base di un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata.

A sostegno di tale opzione ermeneutica viene anzitutto richiamata la sentenza De Tommaso la quale – come è noto – ha rilevato, per un verso, un difetto di precisione (e, dunque, di prevedibilità) delle fattispecie di pericolosità c.d. generica e, per altro verso, una estrema indeterminatezza e genericità di alcune prescrizioni che accompagnano la sorveglianza speciale (§4.2).

In secondo luogo, viene ricordato come una prima eco delle «linee guida» fissate dalla grande camera si trovi già nella pronuncia Paternò, nella quale le sezioni unite della Corte di cassazione, sulla base di una lettura convenzionalmente orientata, hanno stabilito che la violazione delle vaghe prescrizioni di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi” non integra il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale (§ 5); e come, nel «medesimo solco» tracciato dalla sentenza Paternò, si ponga la recente pronuncia cui si è già fatto cenno nel paragrafo precedente (§ 6).

In terzo luogo, ed infine, viene menzionata la sentenza n. 25 del 2019 della Corte costituzionale[8], la quale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 75 cod. ant., per violazione dell’art. 117 Cost. in relazione all’art. 7 Cedu, nella parte in cui prevede come reato la violazione delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi” (§ 7).

Sulla base dei richiamati argomenti la Corte ritiene che, «a discapito del tenore del d.lgs. n. 159 del 2011, art. 8, comma 4, e dell’apparente automatismo dell’applicazione delle prescrizioni che sembrerebbe discendere dalla littera legis, la lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata della norma non possa non condurre a subordinare l’adozione delle restrizioni a specifiche e verificate condizioni».

In particolare, «avendo riguardo al principio di necessaria proporzionalità della restrizione rispetto ai legittimi obiettivi di prevenzione dei reati», la Corte afferma che il giudice può disporre il divieto di partecipare a pubbliche riunioni purché «giustifichi la prescrizione in ragione della specifica (ed attuale) pericolosità sociale del destinatario in considerazione di ben evidenziate esigenze di tutela sociale e di sorveglianza del proposto» e «definisca esattamente i contenuti della restrizione, precisando a quali “riunioni pubbliche” essa trovi applicazione, in connessione con le rappresentate esigenze di difesa sociale ed in ragione di esse». Considerazioni simili vengono svolte anche con riferimento all’obbligo di permanenza in casa durante le ore notturne, la cui applicazione deve «motivatamente correlarsi alle specificità della ritenuta pericolosità sociale del proposto (e dunque della peculiare tipologia di condotte criminose rispetto alle quali vi sia un rischio di reiterazione) e si renda pertanto necessaria, nel singolo caso concreto, in funzione delle obbiettive esigenze di controllo del proposto» (§ 8).

 

* * *

 

5. Rimandando ad altra sede più meditate riflessioni, siano comunque concesse alcune notazioni di massima a margine della pronuncia annotata.

Come già osservato in apertura, con la sentenza in commento la Corte di cassazione ha inteso compiere un ulteriore passo nel percorso di “adattamento” del diritto della prevenzione alle censure mosse da Strasburgo nel caso De Tommaso. Prendendo atto della notevole incisività di alcune delle prescrizioni conseguenti all’applicazione della sorveglianza speciale e provando a valorizzare in massimo grado il dictum del Giudice delle leggi nella sentenza n. 24 del 2019 concernente la «necessaria proporzionalità» che deve legare la misura preventiva all’obiettivo di prevenzione dei reati, la Suprema Corte ha proposto un’interpretazione tesa a superare l’obbligatorietà delle prescrizioni di cui all’art. 8, co. 4, cod. ant. e ad affidare la loro applicazione alla discrezionalità del giudice.

Quella proposta dalla Corte di cassazione è una prospettiva senz’altro auspicabile. Non v’è chi non veda, infatti, che la sorveglianza speciale (o una qualsiasi altra misura di prevenzione personale) in tanto possa svolgere una funzione autenticamente preventiva, in quanto sia modellabile sulla particolare pericolosità soggettiva di ciascun destinatario: occorrerebbe, cioè, superare il vetusto «modello di contenimento della devianza generalista e disfunzionale» in favore di «misure graduabili e maggiormente correlate alla necessità di inibire specifiche manifestazioni di pericolosità»[9].

A dire il vero, l’idea di un sistema di prevenzione personale più flessibile e “personalizzabile” poteva già intravedersi in alcune recenti sentenze di legittimità. In particolare, il riferimento è all’ordinanza che, di recente, ha rimesso alle sezioni unite una nuova questione relativa alla configurabilità del reato di cui all’art. 75 cod. ant.[10]: in tale pronuncia, infatti, si legge che l’effetto inibitorio caratteristico delle prescrizioni «dovrebbe derivare da una constatazione individualizzata di necessità e utilità di ‘quella’ particolare prescrizione – espressa in forma chiara e precisa e non ridondante rispetto ai fini – a porsi quale ingrediente di un complessivo trattamento di prevenzione, capace di limitare la tendenza alla ripetizione di condotte devianti». La stessa Corte riconosce, tuttavia, che «il raggiungimento di un assetto applicativo rispettoso di tali canoni (…) potrebbe essere estraneo ai contenuti di una mera operazione nomofilattica».

 

6. E così veniamo al punto dolente della sentenza in commento. Posta, infatti, l’assoluta condivisibilità dell’obiettivo di adeguare la sorveglianza speciale al canone della proporzionalità e di ripulire la suddetta misura da alcuni tratti inutilmente afflittivi, più di una perplessità rimane in merito alle modalità attraverso le quali la Corte di cassazione ha deciso di raggiungere quell’obiettivo.

Come già detto, i giudici di legittimità sono pervenuti al superamento dell’automatismo di cui all’art. 8, co. 4, cod. ant. attraverso un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme. A dire il vero, la Cassazione non ha indicato espressamente le norme costituzionali e convenzionali poste alla base dell’interpretazione conforme: tuttavia, il richiamo al «principio di necessaria proporzionalità» della limitazione dei diritti fondamentali rispetto all’esigenza di prevenzione dei reati deve far ritenere che la Corte abbia tenuto in considerazione l’art. 13 Cost. e l’art. 2 prot. 4 Cedu, i quali sono i parametri utilizzati rispettivamente dalla Corte costituzionale e dalla Corte edu per giudicare la legittimità della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza.

Ebbene. È senz’altro vero che gli anzidetti parametri, insieme con l’art. 3 Cost., depongono a favore di un sistema di prescrizioni modulabili, in quanto maggiormente in linea con il principio di proporzione. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che l’interpretazione non può tutto, ma è anch’essa soggetta a regole e limiti ben precisi.

In particolare, quando si trova di fronte ad una norma indiziata di incostituzionalità, il giudice è certamente tenuto ad esperire un tentativo di interpretazione costituzionalmente conforme prima di rimettere la questione alla Corte costituzionale. L’adeguamento in via interpretativa non può però spingersi fino a sovvertire il dato letterale, che rappresenta in ogni caso il limite oltre il quale l’attività ermeneutica non può spingersi[11].

Analogo discorso deve essere fatto con riferimento all’interpretazione convenzionalmente conforme[12]. È vero, infatti, che il giudice nazionale, quando ravvisa un’antinomia tra una norma della Cedu e una disposizione interna, deve in prima battuta verificare la praticabilità di un’interpretazione conforme della norma interna alla disposizione europea; e che, solo laddove non sia possibile interpretare la norma interna in senso conforme alla Convenzione, egli deve chiamare in causa la Corte costituzionale, sollevando una questione di legittimità costituzionale della disposizione interna per violazione dell’art. 117, co. 1, Cost. in rapporto alla disposizione della Cedu. Il coinvolgimento del Giudice delle leggi diventa però necessario in tutti i casi in cui l’interpretazione conforme risulti impedita dal tenore letterale della legge interna: detto altrimenti, «[i]l limite logico dell’interpretazione conforme sta (…) nell’impossibilità di pervenire per questa via a un risultato incompatibile con la lettera della norma, dal momento che in una tale ipotesi la norma sarebbe semplicemente disapplicata in favore della norma sovranazionale», operazione che – come sappiamo – è praticabile solo quando venga in gioco una norma del diritto UE dotata di efficacia diretta ovvero quando la norma Cedu direttamente applicabile vada a colmare una lacuna dell’ordinamento interno[13].

A fronte dell’inequivocabile tenore letterale dell’art. 8, co. 4, cod. ant., che impone al giudice di applicare le prescrizioni ivi elencate senza possibilità di valutazioni discrezionali, la Corte ha optato comunque per la via dell’interpretazione conforme, pervenendo però ad un risultato contra legem: e ciò nonostante vi fossero, come si è visto, tutti gli estremi per sollevare una questione di legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 Cost. (sub specie ragionevolezza e proporzione) e dell’art. 117 Cost. in relazione all’art. 2 prot. 4 Cedu, nella parte in cui la disposizione in parola prevede l’obbligatoria applicazione di quel corredo di prescrizioni a tutti i sorvegliati speciali e a prescindere dai particolari profili di pericolosità di ciascuno.

 

7. Il giudice del rinvio si trova ora stretto tra due alternative. La prima possibilità è di uniformarsi al principio di diritto espresso dalla Corte di cassazione e, quindi, di fornire un’adeguata motivazione in merito all’opportunità dell’applicazione, nel caso di specie, dell’obbligo di permanenza in casa nelle ore notturne e del divieto di partecipazione a pubbliche riunioni.

La seconda possibilità è invece quella di sollevare egli stesso una questione di legittimità costituzionale in relazione ai parametri appena sopra indicati, provocando un giudizio di costituzionalità sull’obbligatorietà delle prescrizioni previste dal co. 4 dell’art. 8 cod. ant.

Quest’ultima soluzione appare preferibile per diversi ordini di ragioni: anzitutto, perché garantirebbe l’adeguamento dell’ordinamento italiano al diritto della Cedu senza fughe in avanti del giudice comune; inoltre, perché una dichiarazione di incostituzionalità eviterebbe pericolose incertezze dovute alla probabile convivenza di due orientamenti, l’uno fedele al dato letterale e l’altro basato sull’interpretazione conforme; infine, perché la Corte costituzionale, facendo uso del potere conferitole dall’art. 27 l. n. 87/1953, potrebbe estendere l’incostituzionalità a tutte le prescrizioni elencate dall’art. 8, co. 4, cod. ant., rendendo in tal modo facoltativo l’intero catalogo.

 

8. Non si può non segnalare, infine, che un’eventuale declaratoria di incostituzionalità avrebbe effetti letteralmente dirompenti sia sui decreti applicativi della sorveglianza speciale sia, soprattutto, sulle sentenze di condanna per il reato di violazione delle prescrizioni inerenti la sorveglianza speciale di cui all’art. 75 cod. ant.

In estrema sintesi si può ipotizzare che, con riferimento ai decreti ancora in esecuzione, il sorvegliato speciale potrebbe adire il giudice della prevenzione con lo strumento dell’art. 11 cod. ant., al fine di ottenere un adeguamento del catalogo delle prescrizioni imposte.

Con riguardo alle sentenze di condanna per il reato di cui all’art. 75 cod. ant., invece, occorre distinguere: in caso di pronuncia non ancora definitiva, il condannato potrebbe chiedere al giudice dell’impugnazione di verificare se la prescrizione violata fosse effettivamente adeguata al contenimento della pericolosità soggettiva e, nell’ipotesi negativa, di pronunciare sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste; nel diverso caso in cui la sentenza sia divenuta irrevocabile, il mezzo a disposizione del reo potrebbe essere quello della revoca ex art. 673 c.p.p.

Non resta ora che attendere la decisione della corte d’appello di Milano.

 


[1] C. cost., sent. 24 gennaio-27 febbraio 2019, n. 24, in questa Rivista, 4 marzo 2019. Si rimanda alle note di: F. Basile, E. Mariani, La dichiarazione di incostituzionalità della fattispecie preventiva dei soggetti "abitualmente dediti a traffici delittuosi": questioni aperte in tema di pericolosità, in DisCrimen, 10 giugno 2019; M. Cerfeda, La prevedibilità ai confini della materia penale: la sentenza n. 24/2019 della Corte costituzionale e la sorte delle “misure di polizia”, in Arch. pen., 2019, n. 2; S. Finocchiaro, Due pronunce della Corte costituzionale in tema di principio di legalità e misure di prevenzione a seguito della sentenza De Tommaso della Corte edu, in questa Rivista, 4 marzo 2019; C. Forte, La Consulta espunge dal sistema le misure di prevenzione nei confronti dei soggetti “abitualmente dediti a traffici delittuosi”, in ilpenalista.it, 28 marzo 2019; V. Maiello, La prevenzione ante delictum da pericolosità generica al bivio tra legalità costituzionale e interpretazione tassativizzante, in Giur. cost., 2019, p. 332.

[2] C. edu, grande camera, 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, in questa Rivista, 3 marzo 2017. Si segnalano le note di: F. Viganò, La Corte di Strasburgo assesta un duro colpo alla disciplina italiana delle misure di prevenzione personali, in questa Rivista, fasc. 3/2017, p. 370; S. Finocchiaro, Le misure di prevenzione italiane sul banco degli imputati a Strasburgo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2, 2017, p. 881; V. Maiello, De Tommaso c. Italia e la cattiva coscienza delle misure di prevenzione, in Dir. pen. proc., 2017, p. 1039; A.M. Maugeri, Misure di prevenzione e fattispecie a pericolosità generica: la Corte europea condanna l’Italia per la mancanza di qualità della “legge”, ma una rondine non fa primavera, in Dir. pen. cont., fasc. 3/2017, p. 15.

[3] Il riferimento è, anzitutto, a C. cass., sez. un., 27 aprile (dep. 5 settembre) 2017, n. 40076, Paternò, in questa Rivista, 13 settembre 2017. Per un commento alla sentenza si rinvia ai contributi di: F. Basile, Le Sezioni unite “Paternò”, con quel che precede e quel che segue. Quale futuro per le misure di prevenzione?, in Giur. it., 2018, n. 2, p. 455; G. Biondi, Le Sezioni unite Paternò e le ricadute della sentenza della Corte Edu De Tommaso c. Italia sul delitto ex art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159/2011: luci ed ombre di una sentenza attesa, in questa Rivista, fasc. 10/2017, p. 163; V. Maiello, La violazione degli obblighi di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi” tra abolitio giurisprudenziale e giustizia costituzionale: la vicenda Paternò, in Dir. pen. proc., 2018, p. 777; F. Mazara Grimani, Limiti applicativi dell’art. 75, comma 2, d.lg. n. 159/2011 nella giurisprudenza delle Sezioni Unite penali della Corte di cassazione: una prima ricaduta in materia di misure di prevenzione dopo la sentenza Cedu “De Tommaso”, in Cass. pen., 2018, n. 7-8, p. 2359; F. Viganò, Le Sezioni unite ridisegnano i confini del delitto di violazione delle prescrizioni inerenti alla misura di prevenzione alla luce della sentenza de Tommaso: un rimarchevole esempio di interpretazione conforme alla CEDU di una fattispecie di reato, in questa Rivista, fasc. 9/2017, p. 146. Inoltre, di recente le sezioni unite hanno escluso che la partecipazione ad una manifestazione sportiva determini una violazione del divieto di partecipazione a pubbliche riunioni e, dunque, tale comportamento non può essere sanzionato penalmente ai sensi dell’art. 75 cod. ant.: cfr. l’informazione provvisoria della Corte di cassazione, pubblicata su questa Rivista, il 1° aprile 2019.

[4] Cfr., per tutti, F. Fiorentin, Le misure di prevenzione personali, Milano, 2012, p. 90.

[5] C. cass., sez. I, 30 giugno (dep. 9 settembre) 2004, n. 36123, Larizzi, in CED Cassazione (corsivo aggiunto). Sul carattere obbligatorio del divieto di partecipare a pubbliche riunioni, v. anche: C. cass., sez. I, 5 novembre (dep. 2 dicembre) 2008, n. 44846, Solferino, in CED Cassazione.

[6] C. cass., sez. I, 6 giugno (dep. 30 ottobre) 2018, n. 49731, Sassano, in CED Cassazione.

[7] C. cass., sez. I, 6 giugno (dep. 30 ottobre) 2018, n. 49731, Sassano, cit., § 3.2.

[8] C. cost., sent. 24 gennaio-27 febbraio 2019, n. 25, in questa Rivista, 4 marzo 2019.

[9] R. Magi, Sul recupero di tassatività nelle misure di prevenzione personali. Tecniche sostenibili di accertamento della pericolosità, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 501.

[10] Il riferimento è a C. cass., sez. I, ord. 19 dicembre 2018 (dep. 17 gennaio 2019), n. 2124, Acquaviva, in questa Rivista, 6 marzo 2019, e si consenta il rinvio alla nota di E. Zuffada, Alle sezioni unite una nuova questione relativa alla configurabilità del reato di cui all’art. 75 cod. antimafia, questa volta in caso di trasgressione del divieto di partecipare a pubbliche riunioni.

[11] G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, VIII ed., Milano 2019, p. 92; D. Pulitanò, Diritto penale, VII ed., 2017, p. 135.

[12] Per una lucida ed esaustiva analisi del ruolo del giudice comune di fronte al diritto sovranazionale si rinvia a: F. Viganò, Il giudice penale e l’interpretazione conforme alle norme sopranazionali, in P. Corso, E. Zanetti (a cura di), Studi in onore di Mario Pisani, Piacenza, 2010, p. 617; Id., L’adeguamento del sistema penale italiano al “diritto europeo” tra giurisdizione ordinaria e costituzionale, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2/2014, p. 167.

[13] F. Viganò, L’adeguamento del sistema penale italiano al “diritto europeo”, cit., p. 174 (corsivi aggiunti).