ISSN 2039-1676


25 settembre 2019 |

La Cassazione "salva" l'applicazione retroattiva delle sanzioni amministrative pecuniarie per l'insider trading depenalizzato

Cass. civ., Sez. II, sent. 5 luglio 2019, n. 18201, Pres. Giusti, Rel. Scarpa

Per leggere il testo della sentenza, clicca in alto su "visualizza allegato".

 

1. Nella sentenza che si segnala, la Cassazione civile si pronuncia al termine di una lunghissima vicenda processuale inizialmente incentrata, per quel che rileva in questa sede, sulla sussistenza del reato di insider trading – nella versione antecedente la riforma operata con la l. n. 62 del 18 aprile 2005 – attribuito ad un soggetto accusato di aver utilizzato un’informazione privilegiata, antecedentemente ricevuta dall’insider primario, per effettuare alcune operazioni finanziarie.

A seguito di depenalizzazione dei fatti commessi dall’insider secondario per effetto della menzionata legge, l’interessato veniva prosciolto dal giudice penale in applicazione dell’art. 2 c.p.; in seguito la Consob irrogava nei confronti del medesimo soggetto una sanzione pecuniaria amministrativa in applicazione del novellato art. 187-bis T.U.F. e la confisca per equivalente ex art. 187-sexies T.U.F. (entrambe le disposizioni vigenti ratione temporis[1] potevano essere applicate retroattivamente in virtù della norma transitoria di cui all’art. 9 comma 6 l. n. 62/2005); le sanzioni amministrative erano poi confermate dalla Corte d’Appello nel 2009.

Avverso la sentenza d’appello veniva, quindi, proposto ricorso in Cassazione, lamentando, fra l’altro, l’illegittimità costituzionale e convenzionale dell’applicazione retroattiva della confisca per equivalente prevista dall’art. 187-sexies T.U.F.

La Corte di Cassazione nel 2015 sollevava una prima questione di legittimità costituzionale dell’art. 187-sexies T.U.F. e della disposizione transitoria di cui all’art. 9 comma 6 l. n. 62/2005 in relazione agli art. 3, 25 comma 2 e 117 comma 1 Cost., quest’ultimo in riferimento all’art. 7 Cedu. La Corte costituzionale, tuttavia, con la sentenza n. 68 del 2017 dichiarava inammissibile la questione proposta dalla Cassazione in ragione dell’assenza di una valutazione del giudice remittente sulla maggiore o minore gravosità del trattamento sanzionatorio (comunque rientrante nella matière pénale) post legge 62/2005 rispetto a quello vigente all’epoca dei fatti (dichiaratamente di natura penale).

Nel 2017 la Cassazione sollevava una seconda questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’applicazione retroattiva della confisca per equivalente ed in relazione ai medesimi parametri costituzionali, stavolta individuando una modifica peggiorativa rispetto all’assetto vigente all’epoca dei fatti nel trattamento sanzionatorio sopravvenuto, in particolare nella confisca per equivalente.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 223 del 2018[2], accoglieva la questione e dichiarava incostituzionale l’art. 9 comma 6 l. n. 62/2005 nella parte in cui stabilisce che la confisca per equivalente si applica retroattivamente, nonostante il complessivo trattamento sanzionatorio previsto dalla nuova disciplina risulti deteriore rispetto a quello vigente all’epoca dei fatti.

Conseguentemente, con la sentenza in commento, la Cassazione accoglie parzialmente il ricorso del soggetto qualificato come insider secondario, annullando le statuizioni della Corte d’Appello in materia di confisca, ma confermando quelle sulla sanzione amministrativa pecuniaria.

 

2. Nonostante l’esito processuale della vicenda in questione possa apparire scontato, alla luce della decisione n. 223/18 della Consulta, la sentenza in commento merita un approfondimento relativo ad un aspetto problematico che rimane sottotraccia rispetto al decisum della Cassazione.

Preliminarmente, la ratio dell’obbligo per la Suprema Corte di cassare le statuizioni sulla confisca in ragione della violazione del principio di irretroattività sfavorevole necessita di una brevissima analisi, finalizzata a verificare la correttezza dell’applicazione retroattiva della sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 187-bis T.U.F.

La sentenza n. 223/18 della Consulta segue un percorso logico-argomentativo estremamente lineare. Dopo aver affermato che il principio di irretroattività della legge penale sfavorevole opera anche in relazione al diritto sanzionatorio amministrativo di natura sostanzialmente punitiva (C. cost., sent. n. 276/2016 e 104/2014), il Giudice delle leggi ribadisce che in caso di successione della sanzione amministrativa punitiva a quella penale l’individuazione della norma più favorevole deve essere effettuata in concreto, non potendosi presumere che la sanzione penale sia ex se più gravosa di quella amministrativa, anche se quest’ultima difetta – normalmente – dello stigma etico-sociale connaturato alla pena in senso stretto[3].

Nel caso di specie, l’esito del giudizio comparativo in concreto sulla maggiore afflittività della disciplina sopravvenuta effettuato dalla Cassazione in sede di rimessione della questione è condiviso dalla Consulta; il Giudice delle leggi, nel soppesare entrambi i carichi sanzionatori e ritenere maggiormente gravoso quello irrogabile in via formalmente amministrativa, prende in considerazione l’entità della pena (detentiva e pecuniaria), le pene accessorie e la confisca diretta – per il reato di insider trading secondario – vs l’importo della sanzione amministrativa pecuniaria, le sanzioni amministrative accessorie e la confisca amministrativa per equivalente – per l’illecito amministrativo di insider trading risultante dalla depenalizzazione. Del resto, posta l’indubbia natura sostanzialmente penale anche delle sanzioni pecuniarie amministrative previste dal T.U.F.[4], gli importi decisamente elevati previsti dall’art. 187-bis T.U.F. nella versione introdotta dalla legge n. 62/2005 (da euro ventimila a euro tre milioni, aumentabili fino al triplo o fino a dieci volte il prodotto o il profitto in casi particolari) appaiono idonei a superare in afflittività il combinato disposto di una pena detentiva fino a due anni – più che verosimilmente destinata ad essere sospesa in caso di delinquente primario – e di una pena pecuniaria il cui massimo è di dieci volte inferiore a quello previsto dal ‘nuovo’ illecito amministrativo. Quanto, poi, all’intrinseco stigma della sanzione penale, ad esso può essere legittimamente comparato il contenuto afflittivo delle sanzioni amministrative accessorie dell’art. 187-quater T.U.F. che inibiscono lo svolgimento dell’attività professionale del sanzionato; in aggiunta l’integrazione dell’illecito amministrativo, comporta una conseguenza reputazionale estremamente pregiudizievole, per effetto della pubblicazione del provvedimento di accertamento ed irrogazione delle sanzioni da parte di Consob ex art. 187-septies comma 3 T.U.F. (vigente fino al 2015, quando è stato introdotto l’art. 195-bis che ne riproduce in gran parte i contenuti)[5].

Alla luce di questo esito, la Corte costituzionale non può che accogliere la questione sollevata dalla Cassazione che, tuttavia, risulta singolarmente delimitata alla sola sanzione della confisca per equivalente.

Infatti, l’ordinanza di rimessione della Cassazione del 2017 suscita qualche perplessità proprio in quanto è unicamente incentrata sui profili di illegittimità dell’applicazione di una sola tipologia sanzionatoria sopravvenuta (confisca per equivalente), mentre per le altre (sanzioni amministrative pecuniarie, interdittive e reputazionali) la Suprema Corte si risolve nel senso che esse costituiscono sicuramente trattamento più favorevole rispetto alla pregressa disciplina formalmente penale.

La Cassazione, nell’ordinanza di remissione, precisa che – al netto della confisca per equivalente – le sanzioni amministrative risultano più favorevoli proprio in quanto sprovviste dello stigma derivante dalla condanna dichiarata dal giudice penale[6]. In sostanza, secondo la Cassazione, la riprovazione sociale di una condanna con pena sospesa – o convertita in pena pecuniaria come accaduto nella medesima vicenda all’insider primario – costituirebbe un patimento maggiore rispetto alla prospettiva di dover pagare l’importo di poco meno di novecentomila euro, oltre l’interdizione dagli uffici direttivi per un periodo di nove mesi[7].

In aggiunta, risulta completamente omessa[8] dalla Suprema Corte l’analisi dei profili di afflittività della pubblicazione del provvedimento di applicazione delle sanzioni da parte dell’Autorità competente nel proprio Bollettino[9] che, invece, possiede una decisa connotazione in termini di idoneità a suscitare riprovazione da parte dei soggetti che condividono il percorso professionale del sanzionato, con ciò incidendo notevolmente sulla sua possibilità di svolgere normalmente l’attività lavorativa, anche dopo la scadenza della sanzione interdittiva[10].

La tesi enunciata nella sentenza in commento, quindi, non è affatto incontroversa.

La stessa Consulta, nella prima sentenza di inammissibilità del 2017, ponendo in evidenza la fallacia dell’assioma secondo cui la sanzione amministrativa è sempre meno afflittiva di quella penale, aveva indicato alla Cassazione la necessità di effettuare una valutazione dell’incidenza del complessivo trattamento sanzionatorio sopravvenuto rispetto a quello oggetto di depenalizzazione: «Infatti, qualora il complessivo trattamento sanzionatorio generato attraverso la depenalizzazione, nonostante la previsione di tale confisca [per equivalente], fosse in concreto più favorevole di quello applicabile in base alla pena precedentemente comminata, non vi sarebbero ostacoli costituzionali a che esso sia integralmente disposto»[11]. Viceversa, a rigor di logica, qualora il trattamento sanzionatorio successivo si riveli in concreto meno favorevole, in relazione a tutte le sue componenti, esso dovrebbe essere integralmente disapplicato.

La Consulta, nella sentenza del 2018, pare condividere queste perplessità rispetto alla scelta della Cassazione; infatti, pur affermando che «la disposizione in questa sede censurata – disponendo l’inderogabile applicazione retroattiva della nuova disciplina ai fatti pregressi – si pone in contrasto con gli artt. 25 secondo comma e 117, promo comma, Cost, quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU» deve prendere atto che «il giudice a quo ha circoscritto il petitum della presente questione di legittimità costituzionale ai soli profili concernenti la confisca per equivalentedelimitando così i poteri decisori di questa Corte (…) – sulla base dell’argomento per cui la ragione del carattere deteriore del nuovo trattamento sanzionatorio dipenderebbe esclusivamente dalla sopravvenuta applicabilità al nuovo illecito amministrativo di questa nuova forma di confisca»[12].

In sostanza, sembra proprio che la Consulta opti per una valutazione complessivamente deteriore del trattamento sanzionatorio del nuovo 187-bis T.U.F. rispetto al reato di insider secondario ante depenalizzazione; tuttavia, è evidente il self restraint della Corte costituzionale che non può giungere sino a pronunciare un’inammissibile decisione ultra petitum, dichiarando costituzionalmente illegittimo l’art. 9 comma 6 l. 62/2005 nella parte in cui consente che tutte le sopravvenute sanzioni amministrative si applichino retroattivamente anche quando il complessivo trattamento sanzionatorio  risulti in concreto più sfavorevole rispetto alla disciplina previgente.

 

3. Giunti a questo punto dell’iter processuale, la questione dell’eventuale illegittimità dell’applicazione retroattiva delle sanzioni amministrative diverse dalla confisca per equivalente non potrebbe che essere proposta dinnanzi alla Corte EDU, nella cornice della violazione dell’art. 7 della Convenzione.

Ovviamente, il riconoscimento della natura di maggiore afflittività di tutto il set sanzionatorio dell’art. 187-bis T.U.F. rispetto al pregresso illecito penale di insider secondario comporterebbe un vuoto di tutela; infatti, l’autore della violazione non potrebbe essere sanzionato penalmente perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato e nemmeno amministrativamente in quanto l’applicazione retroattiva delle sanzioni previste dalla citata norma sarebbe violativa dell’art. 25 comma 2 e 117 Cost. (quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU). Il paradosso è già stato messo in risalto da attenta dottrina[13]: in assenza di un’adeguata disciplina transitoria – che affievolisca il carico sanzionatorio del susseguente illecito amministrativo per i fatti pregressi – la depenalizzazione ‘formale’ che nasconde un ‘sostanziale’ irrigidimento della risposta sanzionatoria comporta l’impunità a qualsiasi titolo dei fatti antecedenti[14].

In quest’ottica, forse, è possibile individuare un eventuale rationale della decisione in commento, nella parte in cui esclude la maggiore afflittività sopravvenuta di sanzioni amministrative diverse dalla confisca per equivalente evitando l’impunità totale del ricorrente.

 


[1] Successivamente, gli artt. 187-bis e 187-sexies del T.U.F. sono stati ulteriormente modificati dal d.lgs. 10 agosto 2018 n. 107.

[2] In argomento v. G.L. Gatta, Non sempre ‘depenalizzazione’ equivale a ‘mitigazione’. La Corte costituzionale sull’irretroattività delle sanzioni amministrative ‘punitive’ più sfavorevoli di quelle penali (a proposito della confisca per equivalente per l’insider trading secondario), in questa Rivista, 13 dicembre 2018 e F. Consulich, La materia penale: totem o tabù? Il caso della retroattività in mitius della sanzione amministrativa, in Dir. pen. proc., 2019, p. 467 ss.

[3] Evidenzia i rischi di discrezionalità di simile approccio (e la conseguente perdita di tipicità della legge penale, anche lato sensu) F. Consulich, La materia penale: totem o tabù?, cit., p. 473 ss.

[4] In applicazione dei criteri Engels; orientamento consolidato a partire dal fondamentale arresto della Corte EDU nel caso Grande Stevens che, da questo punto di vista, non viene smentito dalla sentenza A e B. c. Norvegia (sul punto v., per tutti, F. Viganò, La grande camera della Corte di Strasburgo su ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio, in questa Rivista, 18 novembre 2016, par. 5.

[5] Sul fatto che la pubblicazione della delibera di irrogazione delle sanzioni amministrative da parte di Consob abbia natura punitiva v. Cass. civ. S.U., 30 settembre 2009, n. 20929 e, in dottrina, e Di Girolamo, Art. 195, in Testo unico della finanza. D.lg. 24 febbraio 1998 n. 58. Commentario, diretto da Campobasso, III, Torino, 2002, p. 1524 ss. e Condemi, Art. 195, in Il testo unico dell’intermediazione finanziaria. Commentario al d.lgs. 24 febbraio 1998 n. 58, a cura di Rabitti Bedogni, Milano, 1998, p. 1066 ss.

[6] Ord. 9 ottobre 2017, pubbl. nella G.U. prima serie speciale n. 2 del 10 gennaio 2018: «Ciò posto, va considerato che la comparazione tra la sanzione penale e quella amministrativa non può risolversi in una stretta equiparazione quantitativa, in quanto la sanzione penale ha una pluralità di effetti negativi, incidendo con forza peculiare non soltanto sulla libertà, ma anche sul complessivo profilo pubblico della persona, segnandolo con lo «stigma» del disvalore sociale derivante da una sentenza di condanna del giudice penale (basti pensare al rilievo, anche pratico, della condizione di incensuratezza). Nel caso dell’insider secondario, dunque, la sanzione penale risulterebbe in concreto meno favorevole della sanzione amministrativa pecuniaria, pur quantitativamente più elevata, ove quest’ultima non risultasse accompagnata anche dalla sanzione accessoria della confisca per equivalente» (p. 15 della G.U.).

[7] Queste le sanzioni amministrative diverse dalla confisca per equivalente applicate al ricorrente (come desumibili dall’ordinanza di rimessione).

[8] V. il par. 7.2. dell’ordinanza di rimessione.

[9] Il provvedimento sanzionatorio contro il ricorrente nella sentenza in commento è tutt’ora rintracciabile sul sito di Consob, nell’apposita sezione denominata Sanzioni e altre decisioni, a questo indirizzo.

[10] In questo senso v. Gasparri, Mercati, intermediari finanziari, società quotate, in Le sanzioni amministrative: raccolta completa commentata con dottrina e giurisprudenza, a cura di Giovagnoli – Fratini, Milano, 2009, p. 2202 ss.; cfr. anche Mazzeo, La procedura sanzionatoria per le violazioni in materia di intermediazione finanziaria, in Resp. civ., 2008, p. 92 ss.

[11] C. cost. sent. 68/2017, par. 8 considerato in diritto.

[12] C. Cost., sent. 223/2018, par. 6.4 del considerato in diritto.

[13] V., per primo, G.L. Gatta, Non sempre ‘depenalizzazione’ equivale a ‘mitigazione’. La Corte costituzionale sull’irretroattività delle sanzioni amministrative ‘punitive’ più sfavorevoli di quelle penali (a proposito della confisca per equivalente per l’insider trading secondario), cit., par. 8 e, in senso adesivo, F. Consulich, La materia penale: totem o tabù?, cit., p. 472.

[14] La creazione di siffatta zona di impunità potrebbe essere considerata come ‘contrappasso’ di una scelta di depenalizzazione (nell’accezione di degradazione di un illecito da penale in amministrativo) che non persegue un obiettivo di selezione di fattispecie concretamente esigue, tali da meritare l’estromissione dall’ambito del diritto penale; cfr. sul punto C.E. Paliero, Minima non curat praetor. Ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione dei reati bagatellari, Padova, 1985, passim (spec. p. 627 ss.). Del resto, recentemente, è stato lo stesso legislatore eurounitario con la direttiva 2014/57/UE a mettere in dubbio la scelta italiana di depenalizzazione del 2005, richiedendo la criminalizzazione dell’insider secondario; sul punto, però, il legislatore italiano ha confermato la propria – discutibile, anche negli effetti – impostazione; cfr. F. Mucciarelli, Gli abusi di mercato riformati e le persistenti criticità di una tormentata disciplina, in questa Rivista, 10 ottobre 2018, p. 5.