ISSN 2039-1676


13 dicembre 2018 |

Non sempre ‘depenalizzazione’ equivale a ‘mitigazione’. La Corte costituzionale sull’irretroattività delle sanzioni amministrative ‘punitive’ più sfavorevoli di quelle penali (a proposito della confisca per equivalente per l’insider trading secondario)

Corte cost., sent. 25 novembre 2018 (dep. 5 dicembre 2018), n. 223, Pres. Lattanzi, Red. Viganò

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1. Con la sentenza n. 223 del 2018, la Corte costituzionale ha segnato i limiti entro i quali può considerarsi costituzionalmente legittima l’applicazione retroattiva di sanzioni amministrative ‘punitive’ (cioè sostanzialmente penali, alla luce dei noti criteri Engel) introdotte, in luogo di sanzioni penali, per effetto di interventi di depenalizzazione. I principi affermati dalla Corte hanno portata generale; la decisione riguarda sì una questione relativa all’applicazione retroattiva della confisca per equivalente ex art. 187 sexies t.u.i.f., introdotta nel 2005 dalla legge (n. 62) che ha depenalizzato l’insider trading secondario (art. 187 bis t.u.i.f.), ma interessa a ben vedere, in astratto, l’istituto della depenalizzazione, con particolare riferimento ai profili di diritto transitorio. E la sentenza in esame rappresenterà, verosimilmente, un fondamentale termine di riferimento per valutare la compatibilità con i principi costituzionali delle discipline di diritto transitorio introdotte attraverso interventi di depenalizzazione, passati e futuri.

 

2. La Corte, con la decisione in commento, è tornata a considerare questioni di legittimità costituzionale sollevate per contrasto con gli artt. 25, co. 2 Cost. e 117, co. 1 Cost., in rapporto all’art. 7 Cedu, da parte della Seconda sezione civile della Cassazione nell’ambito di procedimenti relativi a sanzioni amministrative irrogate dalla CONSOB. Analoghe  questioni erano già state dichiarate inammissibili con la sentenza n. 68 del 2017 e riguardano l’applicazione retroattiva della confisca per equivalente ex art. 187 sexies t.u.i.f. a fatti di insider trading secondario commessi prima della depenalizzazione del 2005, quando l’illecito era previsto come reato dall’art. 180, co. 2 t.u.i.f., senza la previsione della confisca per equivalente del prodotto, del profitto e dei beni usati per commettere il reato (era possibile, all’epoca, la sola confisca diretta). Nel depenalizzare l’insider trading secondario (art. 187 bis t.u.i.f.), la legge 62 del 2005 ha previsto, con una disposizione transitoria (art. 9), che le nuove sanzioni amministrative – compresa la confisca per equivalente – si applicano anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge che le ha depenalizzate, quando il relativo procedimento penale non sia stato definito. Sulla base di questa disposizione, nei procedimenti relativi ai giudizi a quibus la CONSOB aveva irrogato retroattivamente le nuove sanzioni amministrative previste dalla legge di depenalizzazione, compresa la nuova ipotesi di confisca per equivalente.  

La Cassazione civile, sulla premessa della ritenuta natura penale, ai sensi dell’art. 7 Cedu, del nuovo trattamento punitivo previsto per l’illecito amministrativo, dubita della legittimità costituzionale della citata disposizione transitoria, che consente per l’appunto l’applicazione retroattiva delle nuove sanzioni (sostanzialmente) penali quando il procedimento penale per l’allora reato di insider trading secondario non sia stato ancora definito. La questione, come si è detto, era già stata sollevata ma era stata ritenuta inammissibile dalla Corte costituzionale (sent. 68/2017) per erroneità del presupposto interpretativo. In quell’occasione, infatti, la Corte, dopo avere riconosciuto natura sostanzialmente punitiva alla confisca per equivalente, ritenne che la Cassazione aveva «omesso di tenere conto del fatto che la natura penale, ai sensi dell’art. 7 della CEDU, del nuovo regime punitivo previsto per l’illecito amministrativo comporta un inquadramento della fattispecie nell’ambito della successione delle leggi nel tempo e demanda al rimettente il compito di verificare in concreto se il sopraggiunto trattamento sanzionatorio, assunto nel suo complesso e dunque comprensivo della confisca per equivalente, si renda, in quanto di maggior favore, applicabile al fatto pregresso, ovvero se esso in concreto denunci un carattere maggiormente afflittivo. Soltanto in quest’ultimo caso, la cui verificazione spetta al giudice a quo accertare e adeguatamente motivare, potrebbe venire in considerazione un dubbio sulla legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005, nella parte in cui tale disposizione prescrive l’applicazione della confisca di valore e assoggetta pertanto il reo a una sanzione penale, ai sensi dell’art. 7 della CEDU, in concreto più gravosa di quella che sarebbe applicabile in base alla legge vigente all’epoca della commissione del fatto».

A fronte di questo dictum, la Cassazione, dopo avere riassunto i giudizi, ha provveduto all’accertamento in concreto della maggiore afflittività del trattamento punitivo introdotto con la legge di depenalizzazione e ha quindi riproposto la questione alla Corte costituzionale che, condividendo la valutazione sul punto, adeguatamente motivata, ha in questa occasione accolto la questione. 

 

3. Prima di dar conto delle ragioni portate a sostegno della maggiore afflittività delle nuove sanzioni amministrative punitive, rispetto a quelle penali comminate per il reato depenalizzato, è però opportuno seguire lo sviluppo del percorso argomentativo della sentenza annotata che, come si diceva, afferma principi di portata generale che vanno ben al di là del caso di specie.

La Corte ribadisce anzitutto quel che oggi va considerato ormai pacifico (cfr. sent. nn. 104/2014 e 276/2016): la fondamentale garanzia dell’irretroattività in malam partem, sancita dall’art. 25, co. 2 Cost. – cioè il duplice divieto di applicare retroattivamente (a) una legge che incrimini un fatto in precedenza penalmente irrilevante e (b) una legge che punisca più severamente un fatto già precedentemente incriminato –  si estende al diritto sanzionatorio amministrativo: riguarda cioè non solo i reati e le pene, ma anche gli illeciti amministrativi e le sanzioni amministrative a carattere punitivo. Anche rispetto a queste ultime, infatti, “si impone la medesima esigenza, di cui tradizionalmente si fa carico il sistema penale in senso stretto, di non sorprendere la persona con una sanzione non prevedibile alla commissione del fatto”. E’ un principio che la Corte – si noti – radica nell’art. 25, co. 2 Cost., letto “anche” alla luce delle indicazioni derivanti dal diritto internazionale dei diritti umani e, in particolare, dalla giurisprudenza della Corte EDU relativa all’art. 7 CEDU.

 

4. La Corte si fa dunque carico di precisare i limiti entro i quali il principio generale di cui sopra possa essere compatibile con gli interventi di depenalizzazione, cioè di trasformazione di reati in illeciti amministrativi. Se il principio di irretroattività delle sanzioni amministrative a carattere punitivo operasse indiscriminatamente, infatti, le leggi di depenalizzazione comporterebbero non solo, ai sensi dell’art. 2, co. 2 c.p., l’impossibilità di applicare ai fatti antecedentemente commessi le sanzioni penali vigenti al tempo della loro realizzazione, ma altresì – questo è il punto –, l’impossibilità di applicare a quei fatti le nuove sanzioni amministrative introdotte in luogo di quelle penali. La depenalizzazione, in altri termini, comporterebbe necessariamente nel periodo transitorio l’impunità di fatti che l’ordinamento continua a considerare illeciti, per quanto diversamente qualificati (reati prima, illeciti amministrativi poi).

Proprio per evitare un simile scenario, in occasione di interventi di depenalizzazione il legislatore prevede spesso, attraverso apposite norme transitorie, come nel caso della considerata legge 62 del 2005, l’applicazione retroattiva delle nuove sanzioni amministrative ai fatti antecedentemente commessi; e lo fa, come rileva la Corte costituzionale, sul duplice e implicito presupposto che, da un lato, tali fatti erano già qualificati in termini di illiceità al momento della loro commissione, e che, dall’altro, la sanzione penale all’epoca prevista era più grave di quella, di natura amministrativa, introdotta dalla legge di depenalizzazione.

“In via generale”, afferma la Corte, “una simile tecnica legislativa si sottrae a censure di illegittimità costituzionale. L’applicazione retroattiva delle nuove sanzioni amministrative – ancorché di natura sostanzialmente punitiva, e in quanto tali attratte dall’orbita dell’art. 25, co. 2 Cost. – è di solito compatibile con la norma costituzionale in parola, non venendo in questione l’applicazione retroattiva di un trattamento sanzionatorio più severo di quello vigente al momento del fatto, bensì – all’opposto – l’applicazione retroattiva di un trattamento sanzionatorio che risulta normalmente più favorevole”.

La Corte ribadisce qui un principio già affermato nella citata sentenza n. 68/2017: l’applicazione retroattiva del trattamento sanzionatorio risultante da un intervento di depenalizzazione non contrasta con l’art. 25, co. 2 Cost. se risulta in concreto più favorevole rispetto a quello previsto dalla disciplina penale vigente a tempo della commissione del fatto. Viceversa, una norma transitoria che imponga di applicare retroattivamente le nuove sanzioni amministrative punitive, anche se nel complesso comportano un trattamento più sfavorevole, contrasta con l’art. 25, co. 2 Cost.

 

5. Nell’affermare l’ultimo dei principi considerati, la Corte costituzionale scrive un’importante pagina del capitolo dei rapporti tra reato e illecito amministrativo – oltre che di quello della successione di leggi penali – ricordando all’interprete come non si possa e non si debba dare per scontato il carattere più favorevole della sopravvenuta legge di depenalizzazione. E’ vero che, comportando una abolitio criminis, la depenalizzazione normalmente risulta per l’autore dell’illecito una lex mitior. Ma è altresì vero che ciò non può essere presunto e va accertato in concreto dal giudice, in conformità ai richiamati principi costituzionali. E infatti, nel momento in cui si fa strada, anche nella nostra giurisprudenza costituzionale, l’idea della natura sostanzialmente penale di determinate sanzioni amministrative, va da sé che il loro carattere più favorevole, rispetto a sanzioni penali delle quali prendono il posto per effetto di interventi di depenalizzazione, non possa essere dato per scontato. A ben vedere, il passaggio da sanzione penale a sanzione amministrativa punitiva (attratta cioè nella ‘materia penale’, alla luce dei noti criteri Engel) determina un fenomeno analogo alla successione di leggi penali ex art. 2 c.p., rispetto al quale deve valere la garanzia costituzionale dell’irretroattività del trattamento successivo, se in concreto sfavorevole all’agente.

 

6. A questo punto il lettore potrebbe chiedersi come possa un apparato sanzionatorio di natura amministrativa, introdotto da una legge di depenalizzazione, risultare più sfavorevole. Prima facie sembrerebbe doversi escludere una simile eventualità atteso che, come ricorda la Corte costituzionale, “la sanzione penale si caratterizza sempre per la sua incidenza, attuale o potenziale, sul bene della libertà personale (la stessa pena pecuniaria potendo essere convertita, in caso di mancata esecuzione, in sanzioni limitative della libertà personale stessa), incidenza che è, invece, sempre esclusa per la sanzione amministrativa” (con l’eccezione a ben vedere, tuttavia, dell’espulsione amministrativa dello straniero, qualora le si riconosca il carattere, appunto, di sanzione e non già di misura ripristinatoria). Ed è altresì vero – come pure sottolinea la Corte – che “la pena possiede un connotato speciale di stigmatizzazione, sul piano etico-sociale, del comportamento illecito, che difetta alla sanzione amministrativa”.

Cionondimeno, osserva la Corte costituzionale, “l’impatto della sanzione amministrativa sui diritti fondamentali della persona non può essere sottovalutato ed è, anzi, andato crescendo nella legislazione vigente”. E un esempio paradigmatico della “elevatissima carica afflittiva di talune sanzioni amministrative” – nota la Corte – è offerto anche e proprio dalla disciplina vigente dell’insider trading ex art. 187 bis t.u.i.f., nella versione del d.lgs. n. 107/2018, che “prevede una sanzione amministrativa che può giungere, a carico di una persona fisica, sino all’importo di cinque milioni di euro, aumentabili ai sensi del comma 5 dello stesso art. 187-bis fino al triplo (e dunque fino a quindici milioni di euro) o fino al maggiore importo di dieci volte il profitto conseguito ovvero le perdite evitate per effetto dell’illecito. Tali sanzioni pecuniarie sono, d’altra parte, affiancate dalle sanzioni di carattere interdittivo previste dall’art. 187-quater del d.lgs. n. 58 del 1998, che limitano fortemente le opzioni professionali – e, dunque, il diritto al lavoro – dei soggetti colpiti dalla sanzione; e sono destinate a essere applicate congiuntamente – ai sensi della disposizione in questa sede censurata – alla confisca, diretta e per equivalente, del prodotto e del profitto dell’illecito. Tutte queste sanzioni sono oggi destinate, almeno di regola, a essere pubblicate – «senza ritardo e per estratto» – nei siti internet della Banca d’Italia o della CONSOB (art. 195-bis del d.lgs. n. 58 del 1998), con conseguente, e tutt’altro che trascurabile, effetto stigmatizzante a carico dei soggetti che ne sono colpiti. Con l’ulteriore peculiarità che nessuna di queste sanzioni può essere condizionalmente sospesa, a differenza di quanto accade per le pene.

Orbene, afferma la Corte, “a fronte di simili scenari, è giocoforza ammettere – come ha fatto, appunto, la sentenza n. 68 del 2017 – che la presunzione di maggior favore del trattamento sanzionatorio amministrativo rispetto al previgente trattamento sanzionatorio penale nell’ipotesi di depenalizzazione di un fatto precedentemente costitutivo di reato non può che intendersi, oggi, come meramente relativa, dovendosi sempre lasciare spazio alla possibilità di dimostrare, caso per caso, che il nuovo trattamento sanzionatorio amministrativo previsto dalla legge di depenalizzazione risulti in concreto più gravoso di quello previgente. Con conseguente illegittimità costituzionale dell’eventuale disposizione transitoria che ne preveda l’indefettibile applicazione anche ai fatti pregressi, per violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost.”.

 

7. La pronuncia di accoglimento, come si è anticipato, si giustifica proprio in considerazione delle ragioni, adeguatamente illustrate dalle ordinanze di rimessione, per le quali il complessivo trattamento sanzionatorio sopravvenuto, comprensivo della nuova confisca per equivalente, risulta maggiormente afflittivo rispetto a quello previgente.

Prima della depenalizzazione, la legge comminava per l’insider trading secondario la reclusione fino a due anni, la multa da venti a seicento milioni di lire (innalzabili sino al triplo in presenza di particolari circostanze); una serie di pene accessorie, unitamente alla pubblicazione della sentenza su almeno due quotidiani; nonché la confisca diretta dei mezzi utilizzati per commettere il delitto e dei beni che ne costituiscono il profitto. Come sottolinea la sentenza annotata, “l’eventuale sospensione condizionale della pena avrebbe, peraltro, consentito all’autore del delitto di sottrarsi a tutte le sanzioni in questione, con la sola eccezione della confisca; e, in ogni caso, gli sarebbe stato applicato ratione temporis l’indulto previsto dalla legge 31 luglio 2006, n. 241”.

Dopo la depenalizzazione del 2005, la legge (da ultimo modificata nel 2018) comminava per l’illecito: una sanzione amministrativa pecuniaria da ventimila euro a tre milioni di euro (innalzabili fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il prodotto o il profitto conseguito dall’illecito in presenza di particolari circostanze); le sanzioni amministrative accessorie previste dall’art. 187-quater del d.lgs. n. 58 del 1998; la confisca amministrativa (diretta) del prodotto o del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo; ovvero, la confisca amministrativa di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente a tale prodotto o profitto e ai beni utilizzati per commettere l’illecito. Nessuna di tali sanzioni amministrative – sottolinea la Corte costituzionale “poteva, d’altra parte, essere sospesa; né poteva in alcun modo operare, rispetto a sanzioni amministrative, l’indulto previsto dalla menzionata legge n. 241 del 2006”.

Non solo: la Corte osserva infatti come “il carattere in concreto deteriore del nuovo trattamento scaturito dall’intervento di depenalizzazione appare, inoltre, con particolare evidenza laddove si ponga mente alla sorte dell’insider primario che aveva rivelato le informazioni privilegiate ai ricorrenti nei procedimenti a quibus: insider primario che – secondo quanto illustrato nelle ordinanze di rimessione – è stato alla fine sanzionato con una semplice multa di 10.000 euro, beneficiando tra l’altro del menzionato provvedimento di indulto.Tali considerazioni mostrano che….la comparazione tra la gravità delle due discipline sanzionatorie (quella penale previgente, e quella amministrativa successiva) è ben possibile, e anzi doverosa, onde evitare l’applicazione retroattiva all’autore dell’illecito di una disciplina di carattere punitivo – al di là della sua formale qualificazione – più gravosa di quella in vigore al momento del fatto, in contrasto con il principio costituzionale qui all’esame. E ciò indipendentemente dal carattere proporzionato o non proporzionato della confisca per equivalente rispetto al disvalore del fatto: profilo, questo, che…non viene in questa sede in discussione, le questioni di legittimità costituzionale ora sottoposte a questa Corte concernendo esclusivamente la disciplina transitoria relativa alla sanzione in parola”.

 

8. Le considerazioni di cui sopra portano la Corte costituzionale ad una pronuncia di accoglimento: la disposizione censurata – “disponendo l’inderogabile applicazione retroattiva della nuova disciplina sanzionatoria ai fatti pregressi – si pone in contrasto con gli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 CEDU, nella parte in cui impone di applicare la nuova disciplina anche qualora essa risulti in concreto più sfavorevole di quella precedentemente in vigore”. Quanto alla portata della decisione, va segnalato quel che la Corte costituzionale precisa, e cioè che  “il giudice a quo ha circoscritto il petitum…ai soli profili concernenti la confisca per equivalente… sulla base dell’argomento per cui la ragione del carattere deteriore del nuovo trattamento sanzionatorio dipenderebbe esclusivamente dalla sopravvenuta applicabilità al nuovo illecito amministrativo di questa nuova forma di confisca. Conseguentemente, il censurato art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005 deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui stabilisce che la confisca per equivalente prevista dall’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 si applica, allorché il procedimento penale non sia stato definito, anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della stessa legge n. 62 del 2005, quando il complessivo trattamento sanzionatorio generato attraverso la depenalizzazione sia in concreto più sfavorevole di quello applicabile in base alla disciplina previgente”.

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8. L’aspetto forse più interessante della decisione in commento, in una più ampia prospettiva di sistema, è rappresentato dall’ormai acquisita consapevolezza del carattere estremamente afflittivo che le sanzioni amministrative possono avere, in misura talora maggiore rispetto alle sanzioni penali. Il che significa, come testimonia la vicenda in esame, che non sempre ‘depenalizzazione’ equivale a ‘mitigazione’, potendo il complessivo trattamento sanzionatorio risultante dalla depenalizzazione essere, per l’appunto, maggiormente afflittivo: tra l’altro, come sottolinea la Corte costituzionale, in ragione dell’inapplicabilità della sospensione condizionale della pena, ovvero, per la maggiore effettività delle sanzioni pecuniarie amministrative rispetto alla multa e all’ammenda, che scontano notoriamente elevati tassi di mancata riscossione e, quindi, di ineffettività.

L’ultimo intervento organico di depenalizzazione, realizzato con il d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 8, ha ad esempio per lo più comportato un sostanziale inasprimento del trattamento sanzionatorio per taluni illeciti. Si pensi anche solo agli atti contrari alla pubblica decenza (art. 726 c.p.), oggi puniti (anche in presenza di un fatto di particolare tenuità, non potendosi applicare l’art. 131 bis c.p.) con la sanzione amministrativa pecuniaria (non sospendibile) da 5.000 a 10.000 euro e invece, prima della depenalizzazione, attribuiti alla competenza del giudice di pace e puniti con l’ammenda da 258 a 2.582 euro. Non a caso il legislatore, consapevole della possibile maggiore afflittività del trattamento sanzionatorio risultante dalla depenalizzazione, nel prevederne l’applicazione retroattiva ha introdotto nell’art. 8 del d.lgs. n. 8/2016 una clausola fondamentale, ancor più alla luce della sentenza qui annotata, per la legittimità costituzionale della disciplina transitoria: ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore del citato d.lgs. (a) non può essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria per un importo superiore al massimo della pena originariamente inflitta per il reato, tenuto conto del criterio di ragguaglio di cui all’articolo 135 del codice penale e (b) non possono essere applicate sanzioni amministrative accessorie salvo che le stesse sostituiscano corrispondenti pene accessorie. Il principio sotteso alla norma è il medesimo affermato dalla sentenza annotata: il trattamento sanzionatorio amministrativo, di carattere punitivo, non può essere applicato retroattivamente se è nel complesso deteriore rispetto a quello penale, previgente. Con una fondamentale differenza rispetto all’ipotesi della successione tra leggi formalmente (entrambe) penali: l’art. 2, co. 4 c.p. consente l’ultrattività della disciplina sanzionatoria penale previgente, se più favorevole; la trasformazione del reato in illecito amministrativo, invece, comporta abolitio criminis, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2, co. 2 c.p., e non consente l’ultrattività della disciplina abrogata. Con la conseguenza che quando il legislatore depenalizza illeciti comminando, per essi, un trattamento sanzionatorio più severo, nella sostanza, di quello previgente, i fatti antecedentemente commessi, come nel caso dell’insider trading secondario ante riforma del 2005, resteranno impuniti, salvo introdurre una disposizione transitoria analoga a quella di cui al citato art. 8 del d.lgs. n. 8/2016