2 aprile 2019 |
Retroattività favorevole e sanzioni amministrative punitive: la svolta, finalmente, della Corte Costituzionale
Corte cost., sentenza 21 marzo 2019, n. 63, Pres. Lattanzi, Red. Viganò
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1. La garanzia fondamentale della retroattività favorevole trova accoglimento, superando un granitico orientamento della giurisprudenza ordinaria[1] e vincendo una pervicace resistenza di quella costituzionale[2], nella materia amministrativa punitiva: è questo, in estrema sintesi, lo storico approdo al quale giunge la sentenza della Corte costituzionale n. 63 del 2019. Un approdo, peraltro, accompagnato da una serie di importanti (ed opportune) puntualizzazioni in merito al rapporto tra ordinamento interno e ordinamenti sovranazionali quanto ai meccanismi e ai limiti di ricezione e di elaborazione dei principi fondamentali; un approdo, tuttavia, non privo di taluni profili problematici, che richiederanno futuri chiarimenti e precisazioni.
2. La questione, sollevata nel 2017 dalla Corte d’Appello di Milano, muoveva da una condanna per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate tipizzato dall’art. 187-bis del T.u.f., a seguito della quale la Consob nel 2016 aveva irrogato, tra l’altro, la sanzione pecuniaria di centomila euro, quale minimo edittale risultante dalla quintuplicazione della sanzione originaria (che prevedeva la sanzione pecuniaria da ventimila a tre milioni di euro) disposta dall’art. 39 della l. n. 262 del 2005. Sennonché, il successivo d.lgs. n. 72 del 2015, al comma 3 dell’art. 6, aveva espressamente previsto l’inapplicabilità della previsione di quintuplicazione delle sanzioni amministrative introdotta nel 2005 (c.d. ‘dequintuplicazione’), ripristinando così la ben più mite forbice edittale originaria. Contestualmente, il comma 2 dello stesso art. 6 introduceva una disposizione di diritto transitorio, secondo la quale la nuova disciplina sanzionatoria avrebbe trovato applicazione solo in relazione alle violazioni commesse successivamente all’emanazione dei regolamenti che Banca d’Italia e Consob avrebbero dovuto adottare in attuazione dello stesso decreto legislativo.
In sostanza, non solo veniva prevista la irretroattività della lex mitior ma anche la posticipazione della sua efficacia. Proprio su tale ultima disposizione normativa – il comma 2 dell’art. 6 – veniva sollevata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 Cedu (ma la motivazione richiamava anche l’art. 49 CDFUE), nella parte in cui escludeva la retroattività in mitius della normativa sanzionatoria più favorevole introdotta dall’art. 6, comma 3.
3. Tra le varie eccezioni di inammissibilità che la sentenza respinge prima di trattare il merito della questione, particolare rilevanza, sul piano sistematico dei rapporti tra fonti, assume quella relativa alla definizione dei poteri della Corte costituzionale di sindacare eventuali profili di contrasto della disciplina censurata con le disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che nell’ordinanza di rimessone risultava richiamata, sebbene non nel dispositivo, in relazione all’art. 49 (che – come noto – riconosce espressamente la retroattività favorevole come diritto fondamentale dell’ordinamento eurounitario). Sul punto, la Consulta chiarisce (§ 4.2 del Considerato in diritto), in primo luogo, che è suo potere sindacare nel merito le questioni – come quella in esame – di c.d. “doppia pregiudizialità”[3], cioè sollevate sia in relazione a parametri interni, eventualmente “anche mediati dalla normativa convenzionale interposta” (come, nel caso di specie, l’art. 3 Cost. già in passato ‘riletto’ anche alla luce dell’art. 7 Cedu[4]), sia in relazione, attraverso gli artt. 11 e 117 Cost., alle norme della Carta che tutelano i medesimi diritti (nel caso di specie, appunto, l’art. 49 CDFUE); tuttavia, la Corte aggiunge come rimanga fermo, in ogni caso, “il potere del giudice comune di procedere egli stesso al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, anche dopo il giudizio incidentale di legittimità costituzionale, e – ricorrendone i presupposti – di non applicare, nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, la disposizione nazionale in contrasto con i diritti sanciti dalla Carta”.
Con questi brevi ma incisivi passaggi argomentativi, la Corte sembra smentire completamente quanto aveva invece espresso nella sentenza n. 269 del 2017[5] (sebbene in teoria affermi di muoversi in linea di continuità con tale pronuncia – “sulla scorta dei principi già affermati nelle sentenze n. 269 del 2017 e n. 20 del 2019”): infatti, non solo viene confermato – in senso correttivo rispetto alla 269 – quello che aveva già precisato la sentenza n. 20 del 2019[6], cioè la possibilità di adire la Corte di Giustizia sugli stessi profili e in relazione alla stessa fattispecie concreta su cui si sia già pronunciata la Corte Costituzionale; ma sembra venir meno anche il vincolo per il giudice comune di ‘accentrare’, in prima battuta, il giudizio di legittimità della disposizione interna, chiamando in causa la Corte Costituzionale in caso di “doppia pregiudizialità”: in questo senso, infatti, potrebbe essere letto il riferimento al potere del giudice comune di procedere al rinvio alla Corte di Giustizia (e alla successiva eventuale disapplicazione della norma interna) “anche dopo” il giudizio incidentale di legittimità costituzionale; ciò presuppone, infatti, che tale strada sia percorribile anche prima di tale giudizio (e quindi indipendentemente da esso). Non solo: viene anche confermata – se mai fosse stata posta in dubbio – la possibilità di disapplicare la norma interna che risultasse incompatibile con la Carta a seguito dell’intervento pregiudiziale della Corte di Giustizia, senza dover nuovamente interpellare la Corte Costituzionale.
In via ipotetica, esemplificando in relazione alla vicenda in esame, il giudice a quo, in caso di mancato accoglimento della questione e di perdurante dubbio sull’estensione del diritto fondamentale (o sulla correttezza del giudizio di bilanciamento operato dalla Corte Costituzionale), avrebbe comunque potuto ulteriormente interrogare la Corte di Giustizia sulla portata della retroattività favorevole in relazione al profilo sub iudice e poi eventualmente procedere alla disapplicazione della norma interna, ancorché precedentemente giudicata legittima dalla Consulta.
4. Entrando nel merito della questione, la Corte argomenta la fondatezza della censura – per violazione sia dell’art. 3 sia dell’art. 117 – sulla base di quattro stringenti passaggi logici, sviluppati al par. 6 della motivazione in diritto.
4.1. In primo luogo, la Corte ribadisce il rango costituzionale della retroattività favorevole, che trova un doppio e concorrente fondamento: (i) anzitutto, sul piano interno, nell’art. 3 Cost., cioè nel principio di uguaglianza-ragionevolezza – reinterpretato, come detto, anche alla luce delle fonti sovranazionali che riconoscono espressamente tale principio fondamentale –, attraverso il quale, a partire dalla sentenza n. 393 del 2006, è stata implicitamente riconosciuto il diritto fondamentale all’applicazione della lex mitior; tale garanzia si è progressivamente consolidata nella giurisprudenza costituzionale, che ha precisato come l’art. 3 Cost. “impone, in linea di massima, di equiparare il trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio criminis o la modifica mitigatrice» (sentenza n. 394 del 2006)[7]. Ciò in quanto, in via generale, “non sarebbe ragionevole punire (o continuare a punire più gravemente) una persona per un fatto che, secondo la legge posteriore, chiunque altro può impunemente commettere (o per il quale è prevista una pena più lieve)” (sentenza n. 236 del 2011); (ii) in secondo luogo, sul piano internazionale, le cui garanzie sono assorbite nell’ordinamento costituzionale attraverso l’art. 117 Cost., la retroattività favorevole trova autonomo riconoscimento nell’art. 7 CEDU (a partire dalla sentenza Scoppola del 2009[8]), nell’art. 15 PIDCP, nonché – anche attraverso l’art. 11 Cost. – nell’art. 49 CDFUE[9].
Ciò che più rileva, tuttavia, è la riconduzione del duplice fondamento formale ad un’unica ratio sostanziale, individuata dalla Corte “nel diritto dell’autore del reato a essere giudicato, e se del caso punito, in base all’apprezzamento attuale dell’ordinamento relativo al disvalore del fatto da lui realizzato, anziché in base all’apprezzamento sotteso alla legge in vigore al momento della sua commissione”. Conseguentemente, secondo la Corte, “comune è altresì il limite della tutela assicurata, assieme, dalla Costituzione e dalle carte internazionali a tale garanzia: tutela che la giurisprudenza di questa Corte ritiene non assoluta, ma aperta a possibili deroghe, purché giustificabili al metro di quel «vaglio positivo di ragionevolezza» richiesto dalla sentenza n. 393 del 2006, in relazione alla necessità di tutelare interessi di rango costituzionale prevalenti rispetto all’interesse individuale in gioco”.
Questa presa di posizione della Corte risulta decisiva nell’ottica di una coerente attribuzione del significato normativo alla garanzia sovranazionale della retroattività e dunque di definizione della sua portata precettiva, oltre a contribuire fondamentalmente ad affermare una visione unitaria e armonica (e non dualistica e conflittuale) dei diritti fondamentali.
Certo, rimane il fatto – che potrebbe destare qualche perplessità – che la nostra Corte Costituzionale attribuisce autonomamente contenuti e limiti alla garanzia convenzionale (e a quella della Carta), surrogando il silenzio serbato sul punto dalla Corte Europea, la quale – a partire dalla sentenza Scoppola – ha piuttosto ‘asserito’ l’esistenza della retroattività favorevole nella garanzia del nullum crimen, invece che argomentarne il significato assiologico (sul quale neppure si è mai soffermata la Corte di Giustizia); tale approccio può essere nondimeno quello più corretto[10], se si conviene sulla circostanza che la retroattività favorevole trae essenzialmente origine nelle “tradizioni costituzionali comuni” degli Stati europei, condividendone pertanto la ratio sostanziale. Rimarrebbero solo da giustificare le “deroghe” alla retroattività favorevole nella prospettiva convenzionale dell’art. 15, che sancisce invece l’inderogabilità delle garanzie della legalità penale contenute nell’art. 7: si tratta, tuttavia, di uno scoglio non insuperabile, se quelle “deroghe” si inquadrano – come pare più appropriato[11] – come limiti intrinseci del principio fondamentale, letto alla luce della sua ratio sostanziale di proporzione sanzionatoria.
4.2. Il secondo passaggio logico nell’iter argomentativo della Corte è il riconoscimento della possibile estensione della regola della lex mitior anche alle sanzioni amministrative: la questione – ricordano i giudici delle leggi – è stata già affrontata nella sentenza n. 193 del 2016, che aveva tuttavia escluso – alla luce della giurisprudenza convenzionale – la generalizzata applicazione alle sanzioni amministrative della garanzia in esame (e in generale di tutti i corollari della legalità coperti dall’art. 7), precisando invece come tale estensione fosse imposta solo in relazione a “singole e specifiche discipline sanzionatorie” qualora qualificabili in concreto come convenzionalmente penali alla luce dei noti Engel criteria. Coerentemente con tale impostazione, la Corte ribadisce come alle sanzioni amministrative “che abbiano natura e finalità punitiva” sia invece senz’altro applicabile il complesso delle garanzie della “materia penale” (quale convenzionalmente definita), compresa quella della retroattività favorevole. Questa affermazione è peraltro corredata da due precisazioni, molto importanti in prospettiva sistematica:
(a) anzitutto, la Corte riconosce – richiamando puntualmente quanto già affermato dalla sentenza n. 68 del 2017 – che l’assenza di precedenti specifici nella giurisprudenza di Strasburgo non impedisce di sviluppare coerentemente nell’ordinamento interno i principi fondamentali della Cedu, facendone applicazione anche rispetto ad aspetti che non siano già stati direttamente trattati dalla Corte Europea: in questa prospettiva, l’estensione alle sanzioni pecuniarie amministrative che abbiano natura e funzione punitiva di tutte le garanzie fondamentali della materia penale contenute nell’art. 7 Cedu è certamente coerente con il diritto convenzionale – ed anzi è da esso imposta –, ancorché la Corte Europea non sia mai (finora) intervenuta per censurare lo Stato italiano in merito alla mancata applicazione della retroattività favorevole in tale settore. In sostanza, benché sia senz’altro vero che la Corte di Strasburgo giudica sul caso concreto, non è meno vero che i principi fondamentali della Cedu hanno una portata generale, che vive anche e soprattutto nell’interpretazione dei giudici degli Stati contraenti;
(b) la Corte rafforza poi la propria argomentazione, affermando come l’estensione della garanzia alle sanzioni amministrative pecuniarie sia anche pienamente coerente con la logica sottesa al riconoscimento della retroattività favorevole nell’ottica interna dell’art. 3 Cost. Il vincolo dell’uguaglianza/ragionevolezza fa sì che anche rispetto alle sanzioni punitive non sia costituzionalmente ammissibile continuare a sanzionare un fatto che nell’ordinamento giuridico ha perso il proprio carattere di illiceità, né continuare a punirlo sulla base di un apprezzamento di disvalore che sia mutato in bonam partem, nel senso cioè di un’attenuazione della risposta punitiva. Anche in questo caso, come nello jus criminale, le sanzioni sarebbero illegittime in quanto eccessive e sproporzionate, salvo che non sia possibile rintracciare una positiva giustificazione nel riconoscimento di controinteressi di rango parimenti costituzionale idonei a bilanciare la deroga al vincolo dell’art. 3 Cost. Questa affermazione, densa di significati, si pone in sintonia con la suddetta dimensione unitaria che la Corte pare voler attribuire al contenuto dei diritti fondamentali. In tale prospettiva, il fondamento dell’estensione delle garanzie della legalità penale alle sanzioni (punitive) amministrative non riposa ‘esclusivamente’ sul diritto convenzionale (e quindi sull’art. 117 Cost.), ma trova sponda anche nello stesso art. 3 Cost., attraverso la correlativa estensione del suo significato.
Tuttavia, come si ricorderà, la retroattività favorevole – nella convincente argomentazione della pronuncia che meglio ne ha scolpito la ratio costituzionale (C. Cost. n. 394/2006) – trova fondamento nell’art. 3 Cost. solo nell’ottica dell’ordinamento penale oggettivisticamente fondato sul principio di offensività[12]; in una prospettiva soggettivistica, che valorizza il comportamento antigiuridico dell’agente (quindi la “disobbedienza in quanto tale”), la differenziazione di trattamento sarebbe invece sicuramente giustificabile[13]. Questo stretto legame della retroattività favorevole con il principio – strettamente penalistico – di offensività poteva rappresentare un ostacolo alla estensione della garanzia, nella sua dimensione domestica, alle sanzioni amministrative, ancorché caratterizzate da un’essenza punitiva[14]. La Corte, tuttavia, facendo generale riferimento, nella pronuncia qui in esame, al mutato apprezzamento della “gravità dell’illecito” e del “disvalore del fatto” dimostra di considerare lo sfondo ‘oggettivistico’ come caratteristica comune sia agli illeciti propriamente penali sia a quelli punitivi amministrativi.
Ciò non significa, ovviamente, affermare l’estensione del principio di necessaria offensività (come elaborato rispetto al diritto penale) agli illeciti amministrativi, ma significa comunque negare che, nel nostro ordinamento, la sanzione punitiva – comunque denominata – possa trovare esclusivo fondamento nella volontà antigiuridica del soggetto agente, cioè su un disvalore di intenzione completamente avulso da un imprescindibile disvalore del fatto, che deve mantenere attualità fino all’esaurimento della ‘vicenda punitiva’. È solo in questa prospettiva che trova convincente giustificazione l’estensione dell’art. 3 Cost. ‘a copertura’ della retroattività favorevole anche delle sanzioni amministrative punitive.
4.3. Nel terzo passaggio argomentativo – la premessa minore del ragionamento – la Corte registra il carattere ‘punitivo’ delle sanzioni pecuniarie comminate dall’art. 187-bis del T.u.f. per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate: è un’affermazione non revocabile in alcun dubbio, alla luce di tutti i parametri convenzionali identificativi della materia penale; non solo il carattere afflittivo e la finalità repressiva – e non meramente risarcitoria o ripristinatoria – ma anche la particolare severità delle sanzioni pecuniarie, peraltro incomparabilmente più elevate di quelli che sono le forbici edittali generali di multe e ammende (le sanzioni pecuniarie ‘formalmente’ penali).
D’altra parte, rammenta la Corte come la giurisprudenza costituzionale abbia già più volte aderito all’approccio sostanzialista della Corte Europea per definire il perimetro delle garanzie fondamentali della legalità penale, ad esempio in materia di confisca per equivalente, proprio in materia di abusi di mercato (sent. nn. 223 del 2018 e n. 68 del 2017); ancora, la stessa Corte di Giustizia ha riconosciuto espressamente la natura penale della fattispecie in esame, pronunciandosi recentemente nella prospettiva della garanzia ne bis in idem ai sensi dell’art. 50 CDFUE (Corte di giustizia dell’Unione europea, sentenza 20 marzo 2018, Di Puma e altri).
Viene tuttavia da chiedersi quando una sanzione amministrativa sia completamente priva di quei caratteri che la rendono ‘punitiva’ ai sensi e per gli effetti del diritto convenzionale, in considerazione del fatto che – sulla scorta della giurisprudenza di Strasburgo – è normalmente sufficiente che sia presente anche uno solo di quei caratteri per attrarre la sanzione nella sfera delle garanzie penalistiche[15]. Se si conviene sul dato che le sanzioni amministrative rilevanti ai sensi della l. n. 689 del 1981 sono strutturalmente caratterizzate da uno scopo di prevenzione generale e da una imprescindibile componente di afflittività[16], sarà difficile negare, per il futuro, la generalizzazione delle conclusioni alle quali approda la Corte non solo e indubbiamente alle sanzioni amministrative pecuniarie ma anche alle sanzioni amministrative interdittive e a quelle c.d. accessorie[17].
4.4. L’ultimo passaggio, coerente con l’individuata ratio unitaria della retroattività favorevole nel rispetto dei vincoli dell'art. 3 Cost., è il vaglio della previsione di irretroattività alla luce del parametro di ragionevolezza. Qui l’argomentazione della Corte per escludere la legittimità della deroga – viceversa affermata nella Relazione illustrativa allo schema del decreto legislativo evocando il carattere discriminatorio della previsione di una eccezione alla regola generale della irretroattività delle sanzioni amministrative[18] – è di esemplare chiarezza: “è semmai la mancata generalizzata previsione della retroattività delle modifiche sanzionatorie in melius a essere sospetta di irragionevolezza, e bisognosa pertanto di una specifica giustificazione in termini di necessità di tutela di controinteressi costituzionalmente rilevanti. Tali controinteressi non possono, d’altra parte, identificarsi semplicemente nell’esigenza di «evitare ripercussioni negative su procedimenti sanzionatori in corso», posto che l’influenza della lex mitior sui procedimenti sanzionatori non ancora conclusi al momento della sua entrata in vigore è la conseguenza necessaria del principio di retroattività della lex mitior stessa”. Nessun appiglio, in termini di ragionevolezza, è infine riconosciuto all’ancoraggio della nuova cornice edittale all’entrata in vigore dei regolamenti di Consob e Banca d’Italia, circostanza che non può essere assimilata a quella che a suo tempo ha fatto ritenere legittime – con valutazione che la Corte evidentemente dimostra di continuare a condividere – le deroghe in materia di retroattività dei più brevi termini prescrizione (sentenze nn. 72/2008 e 236/2011).
Il ragionamento della Corte, ineccepibile, non è bisognoso di alcuna chiosa. Rimane solo il possibile problema di stabilire quale sia il tribunale deputato a giudicare la ragionevolezza di eventuali deroghe alla retroattività favorevole e se il giudizio/bilanciamento della Corte interna possa scalzare su quello della Corte di Giustizia; tuttavia, il riconoscimento in capo al giudice comune della facoltà di esperire il rinvio pregiudiziale anche dopo il giudizio di legittimità costituzionale – e di procedere alla successiva eventuale disapplicazione della norma interna – sembra determinare, come inevitabile conseguenza, la prevalenza del giudizio emesso dai giudici dell’Unione. Quanto al diritto convenzionale, rimarrebbe pur sempre la possibilità per il soggetto condannato di sottoporre la decisione definitiva al vaglio finale della Corte di Strasburgo, che quindi sarebbe chiamata (sostanzialmente) ad esprimersi sulla legittimità del giudizio di bilanciamento precedentemente svolto dalla Corte Costituzionale.
Alla luce di tale rigorosa argomentazione – ricca, come illustrato, di suggestioni sistematiche – è logicamente succedanea la valutazione di irragionevolezza – ai sensi degli artt. 3 e 117 Cost. – della disciplina transitoria dettata dall’art. 6 comma 2 del d.lgs. 72/2015 in relazione al nuovo e più favorevole trattamento sanzionatorio della fattispecie amministrativa di abuso di informazioni privilegiate (art. 187-bis T.u.f.) introdotto dal comma 3 della stessa disposizione; illegittimità costituzionale peraltro estesa dalla Corte, in via consequenziale, anche in relazione al riferimento dello stesso art. 6 comma 2 al nuovo e analogo trattamento sanzionatorio della fattispecie amministrativa di manipolazione del mercato (art. 187-ter T.u.f.), che condivide la natura penale della fattispecie oggetto della vicenda a quo e rispetto alla quale l’argomentazione svolta può essere a piè pari mutuata.
5. Un profilo di opinabilità della sentenza – che tuttavia non scalfisce la solidità dell’argomentazione sul merito della questione e le importanti affermazioni di principio che sono svolte – attiene ai rapporti con lo jus superveniens e alla decisione della Corte di non rinviare gli atti al giudice remittente. La disciplina sanzionatoria oggetto del sindacato ha infatti recentemente subito una nuova riformulazione legislativa in forza dell’art. 4 comma 9 del d.lgs. n. 107 del 2018, che ha adeguato la legislazione nazionale al regolamento (UE) n. 596/2014 (c.d. MAR I, Market abuse Regulation), modificando integralmente la formulazione dell’art. 187-bis T.u.f. In particolare, sul piano punitivo, la citata disposizione ha disposto, in relazione alla fattispecie amministrativa di abuso di informazioni privilegiate, la sanzione pecuniaria da ventimila a cinque milioni di euro, aumentabili fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il profitto conseguito ovvero le perdite evitate per effetto dell’illecito, nei casi previsti dal comma 5 dello stesso nuovo art. 187-bis T.u.f.).
Ebbene, la Corte Costituzionale rigetta la prospettata possibilità di procedere ad un rinvio degli atti per il vaglio di rilevanza dello jus superveniens, sulla base della lapidaria osservazione (§ 2.4 del Considerato in diritto) secondo cui, non disponendo alcunché la novella legislativa sul piano del diritto transitorio, il nuovo trattamento punitivo non può che valere solo per il futuro. È proprio questa affermazione a destare qualche perplessità: l’efficacia solo pro futuro dello jus superveniens risponde infatti alla consolidata regola di diritto intertemporale delle sanzioni amministrative, che, in applicazione del principio generale dell’art. 11 delle Preleggi (secondo cui “La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”), non riconosce alcuno spazio applicativo alla retroattività in mitius.
La persistente attribuzione di rilevanza a tale regola, tuttavia, non è coerente con la riconosciuta natura punitiva delle sanzioni pecuniarie amministrative in oggetto, su cui fa perno tutta la convincente argomentazione della Corte sulla fondatezza della questione di legittimità. Coerenza avrebbe suggerito di valutare anche la rilevanza dell’ultima modifica normativa alla luce dei principi fondamentali del diritto penale intertemporale: in questa ottica, se la novella del 2018 avesse introdotto un trattamento sanzionatorio ulteriormente favorevole, il principio di retroattività della lex mitior ne avrebbe imposto l’applicazione come regola del giudizio.
Nel caso di specie, tuttavia, l’ultima legge si pone come favorevole rispetto a quella vigente al momento della commissione fatto (che prevedeva la sanzione pecuniaria dal centomila a quindici milioni di euro), ma come sfavorevole rispetto a quella risultante a seguito della modifica del 2015 (che aveva riportato la forbice edittale da venti mila a tre milioni di euro): si presenta allora il problema di stabilire se anche la regola della ultrattività della lex intermedia favorevole riceva una copertura costituzionale che ne impone la prevalenza sulla ‘terza legge’ (sfavorevole) vigente al momento del giudizio. Tale prevalenza non può certo essere giustificata alla luce del principio di irretroattività sfavorevole: quest’ultima garanzia è posta a fondamentale tutela dell’affidamento che l’agente può riporre nella legge penale vigente al momento del fatto, impedendo che costui sia punito per fatti o con sanzioni non prevedibili e quindi non in grado di orientare le “libere scelte d’azione” degli individui (in questa prospettiva ponendosi in stretta connessione con il principio di colpevolezza e con la funzione di prevenzione generale e speciale della sanzione punitiva[19]). L’ultrattività della lex intermedia favorevole non pare nemmeno trovare fondamento nel principio di retroattività favorevole: come illustrato, tale garanzia deriva la propria ratio dal vincolo di uguaglianza e proporzionalità, alla luce del quale risulta irragionevolmente eccessiva una sanzione punitiva non più ‘attuale’, cioè non più vigente nell’ordinamento giuridico. La ‘terza legge’, viceversa, è quella esattamente corrispondente all’apprezzamento ordinamentale del disvalore del fatto al momento del giudizio: di conseguenza, alla regola dell’applicazione del lex intermedia favorevole, benché tradizionalmente recepita al comma 4 dell’art. 2 c.p., non è attribuibile – sul piano interno – il medesimo fondamento riconosciuto nell’art. 3 Cost. al principio della retroattività favorevole[20].
La ratio di tale regola intertemporale deve essere più puntualmente individuata, infatti, nella tutela del ‘sospiro di sollievo’, cioè dell’affidamento che l’imputato ripone, nel corso del processo, sulla lex mitior sopravvenuta[21]; affidamento che sarebbe tradito qualora tornasse in vigore e fosse applicabile la legge del tempus commissi delicti o comunque qualora fosse introdotta e trovasse applicazione una legge non così favorevole come quella ‘intermedia’. Sul piano sovranazionale, nessuna disposizione normativa attribuisce espressamente rilevanza alla lex intermedia favorevole (utilizzando una formulazione analoga a quella dell’art. 2, comma 4 c.p.); tuttavia, la sentenza Scoppola del 2009, nel definire i contenuti della regola intertemporale ritenuta incorporata nell’art. 7 Cedu, adotta un’enunciazione particolarmente ampia della garanzia di retroattività favorevole (“se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato[22]”), che sembrerebbe imporre anche l’applicazione della lex intermedia che risultasse più favorevole “tra le molte leggi penali” (ciò anche in ragione dell’esigenza di “chiarificazione delle norme in materia di successione di leggi penali nel tempo”, nell’ottica di meglio assicurare la “prevedibilità delle sanzioni”)[23].
Tornando al caso di specie, è possibile concludere che l’applicazione della legge del 2015 poteva trovare legittimazione solo sul presupposto del riconoscimento di valore costituzionale anche alla ultrattività della lex mitior intermedia, dovendo altrimenti prevalere lo jus superveniens. Vero che, accidentalmente, la risposta punitiva, in concreto, non sarebbe cambiata: la sanzione pecuniaria amministrativa, come già illustrato, era stata infatti originariamente irrogata nel minimo edittale (centomila euro) della forbice introdotta nel 2005; ora, poiché entrambe le normative che si sono poi succedute nel tempo (nel 2015 e nel 2018) prevedono il medesimo minimo edittale (pari a ventimila euro) – differenziandosi solo nel massimo (la prima prevedendolo in tre milioni, la seconda in cinque milioni) – anche applicando lo jus superveniens la determinazione del quantum di sanzione pecuniaria non sarebbe mutata.
Il problema nondimeno si potrebbe porre in relazione agli illeciti amministrativi di abuso di mercato commessi tra il 2005 e il 2015 e non sanzionati con il minimo edittale: in questo caso, ai fini della commisurazione in concreto della sanzione pecuniaria sarà necessario determinare il ‘rango’ della regola intertemporale della lex intermedia favorevole, funzionale a dirimere se utilizzare la forbice edittale del 2015, che prevede il massimo di tre milioni di euro, piuttosto che quella del 2018, che prevede il massimo di cinque milioni (peraltro, come illustrato, sensibilmente aumentabili ai sensi del comma 5 del nuovo art. 187-bis T.u.f.).
6. In conclusione, con la sentenza n. 63 del 2019 il principio di retroattività favorevole ha trovato definitivo riconoscimento, anche nel nostro ordinamento interno, in relazione alle sanzioni amministrative punitive. Benché l’intervento della Corte Costituzionale abbia censurato una specifica disposizione di diritto transitorio, appare infatti indubbia la portata generale del principio in relazione a tutte le sanzioni amministrative che in concreto rientrino nel perimetro della “materia penale” definito dalla giurisprudenza della Corte Europea. L’art. 1 della l. n. 689 del 1981 (letto in combinato disposto con l’art. 11 delle Preleggi), tuttavia, continua a disporre la indiscriminata applicazione irretroattiva delle sanzioni amministrative, che attualmente disciplinerebbe – in assenza di disposizioni ad hoc di diritto transitorio che dispongano diversamente – anche le modifiche in mitius di sanzioni a carattere punitivo.
Al fine di adeguare tale situazione normativa ai vincoli costituzionali sono astrattamente percorribili tre strade distinte.
In primo luogo, si potrebbe forse ipotizzare – sulla scorta delle univoche affermazioni di principio della Corte costituzionale – una “interpretazione conforme” dell’art. 1 della l. 689 n. 1981, che consentirebbe già ai giudici comuni di ritenere tale disposizione legislativa applicabile esclusivamente alla modifiche in peius delle sanzioni amministrative, trovando per il resto diretta applicazione il principio generale – di matrice chiaramente costituzionale e convenzionale – della retroattività delle modifiche in mitius delle sanzioni punitive (anche in via analogica rispetto all’art. 2, comma 4, c.p.); questa soluzione interpretativa non troverebbe uno sbarramento legislativo nella previsione dell’art. 11 delle Preleggi, espressivo – si potrebbe argomentare – del parallelo principio generale di irretroattività delle leggi a carattere ‘non punitivo’[24].
La strada più sicura, in quanto garantirebbe maggiore certezza e minimizzerebbe il rischio di resistenze e divergenze interpretative, sarebbe quella della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della l. 689 n. 1981 – da sollevare in relazione ad una modifica favorevole non assistita da una norma di diritto transitorio – nella parte in cui non prevede l’applicazione retroattiva delle “sanzioni amministrative a carattere punitivo” (evitando in questo modo la generalizzazione applicativa della retroattività favorevole osteggiata dalla sentenza n. 193 del 2016). Il potere, attribuito al giudice comune, di valutare autonomamente il carattere punitivo o meno della sanzione non confliggerebbe con il principio di precisione/determinatezza, quale corollario della legalità penale: non solo e non tanto perché si tratterebbe di un’applicazione in bonam partem, ma soprattutto perché i criteri per esprimere il giudizio sulla natura punitiva della sanzione appaiono già sufficientemente e chiaramente definiti e consolidati nella giurisprudenza della Corte Europea.
La soluzione ottimale, tuttavia, sarebbe quella di un intervento legislativo che generalizzasse, nel testo dell’art. 1 della l. 689 n. 1981, la previsione di retroattività favorevole delle sanzioni amministrative: alla luce del carattere diffusamente afflittivo e della funzione preventiva che usualmente caratterizza le sanzioni amministrative – rendendole strutturalmente e teleologicamente omogenee a quelle penali –, la retroattività della lex mitior dovrebbe costituire la regola, solo eccezionalmente derogabile – attraverso specifiche disposizioni di diritto transitorio – in caso di sanzioni amministrative giudicate in concreto prive di carattere sostanzialmente punitivo e rispetto alle quali la previsione di irretroattività può trovare apprezzabile giustificazione[25].
[1] Cfr. ex multis Cass. civ., S.U., 21 agosto 2012, n. 14374; Id., 24 giugno 2010, n. 15314; Id., 26 novembre 2018, n. 15134; Cons. Stato, 20 settembre 2012, n. 4992; Id., 3 giugno 2010, n. 3497; da ultimo, proprio in materia di sanzioni amministrative per abusi di mercato, Cass. civ., sez. I, 2 marzo 2016, n. 4114; orientamento pienamente avallato in passato da C. Cost. nn. 140/2002, 501/2002 e 245/2003; cfr. Provenzano, La retroattività in mitius delle norme sulle sanzioni amministrative, in Riv. dir. pubbl. com., 2012, p. 877 ss.
[2] Si veda, in particolare, C. Cost. n. 193/2016, sulla quale v. Scoletta, Materia penale e retroattività favorevole: il ‘caso’ delle sanzioni amministrative, in Giur. cost., 2016, p. 115 ss.; v. anche Chibelli, La problematica applicabilità del principio di retroattività favorevole alle sanzioni amministrative, in Dir. pen. cont – Riv. trim., n. 3/2016, p. 247 ss.; Provenzano, Sanzioni amministrative e retroattività in mitius: un timido passo in avanti, in Dir. pen. cont – Riv. trim., n. 3/2016, p. 270 ss. Ciò si inquadra nell’ambito di una più generale ritrosia (o, più spesso, di una forse eccessiva cautela) della Corte nell’assorbire a pieno le garanzie della materia penale nella sfera dell’illecito amministrativo: cfr. anche C. Cost. n. 43/2017, su cui v. Ubiali, Illegittimità sopravvenuta della sanzione amministrativa “sostanzialmente penale”: per la Corte costituzionale resta fermo il giudicato, in questa Rivista, fasc. 3/2017, p. 293 ss. e Chibelli, L’illegittimità sopravvenuta delle sanzioni “sostanzialmente penali” e la rimozione del giudicato di condanna: la decisione della Corte Costituzionale, in questa Rivista, fasc. 4/2017, p. 15 ss.; C. Cost. n. 68/2017, su cui v. Viganò, Un’altra deludente pronuncia della Corte costituzionale in materia di legalità e sanzioni amministrative ‘punitive’, in questa Rivista, fasc. 4/2017, p. 269 ss.; e ancora C. Cost. n. 109/2017, su cui v. Viganò, Una nuova pronuncia della Consulta sull’irretroattività delle sanzioni amministrative, in questa Rivista, fasc. 5/2017, p. 330 ss. e Pellizzone, Garanzie costituzionali e convenzionali nella materia penale: osmosi o autonomia?, in Dir. pen. cont – Riv. trim., n. 4/2017, p. 172 ss. Si veda tuttavia, più recentemente, C. Cost. n. 223/2018, su cui v. Gatta, Non sempre ‘depenalizzazio’ equivale a ‘mitigazione’: la Corte Costituzionale sull’irretroattività delle sanzioni amministrative ‘punitive’ più sfavorevoli di quelle penali, in questa Rivista, 13 dicembre 2018.
[3] Sulla questione cfr. da ultimo Viola – Marra, Doppia pregiudizialità, diritti fondamentali e potere di disapplicazione del giudice comune, in questa Rivista, 19 marzo 2019.
[4] Sul del modello virtuoso di “circolazione circolare” dei diritti – dalle tradizioni costituzionali dei Paesi membri alla giurisprudenza delle Corti europee e da qui di nuovo sul tessuto costituzionale nazionale – cfr. Scoletta, La legalità penale nel sistema europeo dei diritti fondamentali, in Paliero – Viganò (a cura di), Europa e diritto penale, Milano, 2013, p. 270 ss. e ivi ulteriori riferimenti bibliografici.
[5] Sull’impatto sistematico di questa sentenza, cfr., ex multis e con differenti opinioni, Barbera, La Carta dei diritti: per un dialogo fra la Corte italiana e la Corte di giustizia, in Quad. cost., 1/2018, p. 149 ss.; Guazzarotti, La sentenza n. 269 del 2017: un “atto interruttivo dell’usucapione” delle attribuzioni della Corte costituzionale, in Quad. cost., 1/2018, p. 194 ss.; Ruggeri, Svolta della Consulta sulle questioni di diritto eurounitario assiologicamente pregnanti, attratte nell’orbita del sindacato accentrato di costituzionalità, pur se riguardanti norme dell’Unione self-executing (a margine di Corte cost. n. 269 del 2017), in Riv. diritti comparati, 3/2017, p. 1 ss.; Scaccia, Giudici comuni e diritto dell’Unione europea nella sentenza della Corte costituzionale n. 269 del 2017, in Oss. cost., 2/2018, p. 1 s.
[6] Ruggeri, La Consulta rimette a punto i rapporti tra diritto eurounitario e diritto interno con una pronunzia in chiaroscuro, in Consultaonline, Studi 2019/1, p. 113 ss.; Bronzini, La sentenza n. 20/2019 della Corte costituzionale italiana verso un riavvicinamento all’orientamento della Corte di giustizia?, in Quest. giust., 4 marzo 2019.
[7] Su queste due pronunce (nn. 393 e 394 del 2006) cfr. ex multis Pulitanò, Deroghe alla retroattività in mitius nella disciplina della prescrizione, in Dir. pen. proc., 2007, 198 ss.; Ambrosetti, La nuova disciplina della prescrizione: un primo passo versi la «costituzionalizzazione» del principio di retroattività delle norme penali favorevoli al reo, in Cass. pen., 2006, p. 4106 ss.; Maiello, Il rango della retroattività della lex mitior nella recente giurisprudenza comunitarie e costituzionale italiana, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 1614; Manes, L’applicazione retroattiva della pena più mite: prove di dialogo multilevel, in Quad. cost., 2007, p. 374 ss.; Pellizzone, Il principio di retroattività delle norme penali in bonam partem, ivi, p. 855 ss.
[8] C.edu, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, con nota di Pecorella, Il caso Scoppola davanti alla Corte di Strasburgo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, p. 397 ss.; successivamente la Corte europea ha più volte confermato l’inclusione della retroattività favorevole nel contenuto di garanzia dell’art. 7: C.edu, 27 aprile, 2010, Morabito c. Italia; Id., 24 gennaio 2012, Mihai Toma c. Romania; Id., 12 gennaio 2016 Gouarré Patte c. Andorra; Id., 12 luglio 2016, Ruban c. Ucraina.
[9][9] Sulla portata della garanzia convenzionale cfr., problematicamente, Scoletta, La legalità penale, cit.
[10] Avevamo già prospettato tale conclusione, valorizzando alcuni passaggi della sentenza Scoppola che fanno leva su esigenze di proporzionalità e meritevolezza di pena, in Scoletta, La legalità penale, cit., p. 275.
[11] Cfr. Scoletta, Materia penale e retroattività favorevole, cit., p. 1412.
[12] La Corte, nella sentenza n. 394/2006, riprende sul punto fondamentalmente l’impostazione di Palazzo, Legge penale, in Dig. disc. pen., VII, 1993, p. 365.
[13] Cfr. Scoletta, Materia penale e retroattività favorevole, cit., p. 1408.
[14] Si veda infatti Paliero – Travi, La sanzione amministrativa. Profili sistematici, Milano, 1988, p. 181.
[15] Sul carattere alternativo dei criteri indicativi della materia penale, cfr., ex multis, C.edu, 11 giugno 2009, Dubus c. Francia; Id., 10 febbraio 2009, Zolotoukhine c. Russia; una loro valutazione cumulativa si giustifica solo in relazione ai casi connotati da particolare incertezza: cfr. C.edu, 24 febbraio 1994, Bendenoun c. Francia.
[16] Fondamentalmente già Paliero – Travi, La sanzione amministrativa, cit., p. 181 ss.
[17] In questo senso già Scoletta, Materia penale e retroattività favorevole, cit., p. 1406; v. anche Goisis, Verso una nuova nozione di sanzione amministrativa in senso stretto: il contributo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Riv. it. dir. pubbl. comp., 2014, § 4; Mazzacuva, La materia penale e il “doppio binario” della Corte europea: le garanzie al di là delle apparenze, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, p. 1889 ss.
[18] Nei lavori preparatori del d.lgs. n. 72/2015 si evoca anche – a giustificazione della esclusione di retroattività – “il rischio che il principio del favor rei finisca per aumentare, anziché ridurre, il contenzioso”.
[19] Sul punto, rimane sempre fondamentale l’insegnamento di C. Cost. n. 364/1988.
[20] Cfr. Scoletta, Retroattività in mitius e pronunce di incostituzionalità in malam partem, in Bin – Brunelli – Pugiotto – Veronesi (a cura di), Ai confini del “favor rei”. Il falso bilancio davanti alle Corti costituzionale e di giustizia, Torino, 2005, p. 342 ss.; Id., Principe de retroactivité favorable et illegitimité de la lex mitior dans la perspective européenne, in Arroyo Zapatero – Nieto Martin, European Criminal Law: an Overview, Cuenca, 2010; più approfonditamente, nello stesso senso, Pecorella, Legge intermedia: aspetti problematici e prospettive de lege ferenda, in Scritti in onore di Giorgio Marinucci, Milano, 2006, p. 611 ss.
[21] In questi termini si esprime Viganò, Sullo statuto costituzionale della retroattività della legge penale più favorevole: un nuovo tassello nella complicata trama dei rapporti tra Corte costituzionale e Corte EDU, in Aa.Vv., Alle frontiere del diritto costituzionale. Scritti in onore di Valerio Onida, Milano, 2012, p. 2005 ss.
[22] C.edu, Scoppola c. Italy, cit., § 109.
[23] Cfr. ancora Scoletta, La legalità penale, cit., p. 280.
[24] Cfr. C. Cost. n. 109/2017, § 3.1: “nell’attività interpretativa che gli spetta ai sensi dell’art. 101, secondo comma, Cost., il giudice comune ha il dovere di evitare violazioni della Convenzione europea e di applicarne le disposizioni, sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte EDU”; a margine di tale pronuncia, cfr. Viganò, Una nuova pronuncia, cit., § 10, secondo il quale “nella misura in cui le disposizioni convenzionali ricadano in spazi normativamente ‘vuoti’, ossia non regolati in modo antinomico dalla legge nazionale, esse dovranno essere direttamente applicate dal giudice comune, come qualsiasi altra norma dell’ordinamento”.
[25] In questo senso sia consentito ancora il rinvio a Scoletta, Materia penale e retroattività favorevole, cit., p. 1410.