Sommario:
È noto il recentissimo e acceso dibattito che ha avuto ad oggetto la
legittimità comunitaria del
delitto di inottemperanza all’ordine di allontanamento del questore (
art. 14, comma 5 ter del T.U. immigrazione, nella versione antecedente al d.l. n. 89 del 2011, del quale si dirà tra un attimo), e segnatamente la sua compatibilità con la
Direttiva n. 2008/115/CE (recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, meglio nota come
direttiva rimpatri)
[1].
Altrettanto nota è la pronuncia
El Didri [2], con la quale la
Corte di Giustizia dell’Unione Europea – sposando la tesi dottrinale che per prima aveva messo in luce l’insanabile contrasto tra la direttiva rimpatri e la pena della
reclusione da uno a quattro anni per l’inottemperanza all’ordine di allontanamento – ha posto fine alla
querelle, dando la stura a
conseguenze equivalenti a quelle di una abolitio criminis, anche sul fronte del diritto intertemporale
[3].
Ed è altresì noto che, attualmente, il fuoco dell’attenzione si è spostato sull’intervenuto del
legislatore italiano, il quale, con il
d.l. n. 89 del 2011 [4] (attualmente in attesa di conversione), ha
riportato in vita il delitto de qua, adeguandone la risposta sanzionatoria alle indicazioni della Corte di Lussemburgo, attraverso la previsione della sola
pena pecuniaria della multa, sostituibile con l’espulsione
[5].
Senz’altro meno noto è un dibattito che si è sviluppato ai margini di quello appena ricordato, ma che ad esso è legato a filo doppio: vale a dire la
rilevanza della condanna per il delitto di inottemperanzaall’ordine di allontanamento – nella
versione precedente alla novella del 2011
[6] – quale
causa ostativa rispetto alla concessione della
sanatoria per gli stranieri “clandestini” svolgenti attività di colf e badanti (art. 1-
ter del d.l. n. 78 del 2009, conv. in legge n. 102 del 2009).
Benché si tratti di un problema molto tecnico e settoriale,
peccherebbe di miopia il penalista che lo ritenesse non meritevole della propria attenzione: sia perché la questione è gravida di
conseguenze per la libertà personale dello straniero, trattandosi in buona sostanza di decidere
chi è regolare e chi è clandestino, ed aprendosi in questa seconda ipotesi le porte dell’espulsione e del trattenimento nei C.I.E.
[7];sia perché, in definitiva, ciò che si sta esaminando sono le
ultime tracce lasciate nel nostro ordinamento da una
norma incriminatrice che – quanto meno nella formulazione antecedente al d.l. n. 89 del 2011, quella cioè che, come verrà subito illustrato, la rendeva
ostativa alla sanatoria –
è stata espunta dal nostro ordinamento.
D’altra parte, l’attualità e la delicatezza del tema sono testimoniate dalle notizie provenienti dai media, relative alle continue manifestazioni di protesta – talvolta anche eclatanti, come gli episodi di resistenza sulla gru di Brescia e sulla torre di via Imbonati a Milano – portate avanti in questi mesi dagli stranieri e delle associazioni che ne tutelano i diritti.
Prima di addentrarsi nella trattazione, pare utile avvertire il lettore che la questione in esame, come spesso accade in materia di immigrazione, intreccia profili di diritto penale e amministrativo, e pertanto costringe gli esperti dell’una e dell’altra materia ad impadronirsi di categorie concettuali tutt’altro che familiari.
2. La condanna ex art. 14 co. 5 ter come causa ostativa alla sanatoria: dalla “circolare Manganelli” alle pronunce dell’Adunanza Plenaria
I rapporti tra la “sanatoria colf e badanti” del 2009 e la condanna per il delitto di cui all’art. 14, co. 5 ter T.U. imm. sono stati affrontati in altri contributi pubblicati su questa Rivista: pertanto, prima di esaminare i più recenti sviluppi della vicenda, ci si limiterà a richiamarne per sommi capi le tappe essenziali, rinviando per approfondimenti alle specifiche sedi di trattazione.
L’art. 1 ter del d.l. n. 78/2009 (conv. in l. n. 102/2009) prevedeva la possibilità di regolarizzare colf e badanti stranieri privi del permesso di soggiorno, attraverso un’apposita istanza rivolta dal datore di lavoro ai competenti organi amministrativi. Tra le cause ostative alla sanatoria figurava la condanna, anche se non definitiva ed anche se pronunciata a seguito di patteggiamento, per uno dei reati previsti dagli artt. 380 e 381 c.p.p., i quali, come è noto, individuano rispettivamente i casi di arresto obbligatorio o facoltativo in flagranza (art. 1 ter, comma 13).
Secondo una
circolare del Ministero dell’Interno – emanata il 17 marzo 2010 e nota col nome del capo della polizia firmatario,
Manganelli – il
delitto di inottemperanza all’ordine di allontanamento del questore rientrava,
ratione poenae, nell’ambito di applicazione dell’art. 381 c.p.p., e pertanto gli uffici territoriali competenti avrebbero dovuto considerare una precedente
condanna per tale reato
ostativa rispetto all’accesso alla sanatoria.
I ricorsi avverso i provvedimenti negativi adottati sulla base dalla “circolare Manganelli” davano origine ad una
giurisprudenza amministrativa contrastante. Mentre
alcune pronunce, infatti, si
allineavano all’indirizzo ministeriale,
altre decisioni pervenivano alla conclusione di segno opposto, vale a dire
l’irrilevanza della condanna ex art. 14, comma 5 ter ai fini dell’accesso alla sanatoria.
Questo secondo filone giurisprudenziale faceva leva sia su argomenti di carattere sistematico, segnatamente l’estraneità ratione disciplinae del delitto di inottemperanza rispetto all’ambito di applicazione dell’art. 381 c.p.p., trattandosi di reato sottoposto ad arresto obbligatorio in flagranza, in base alla disciplina speciale di cui all’art. 14, comma 5 quinquies; sia sulla ratio del richiamo agli artt. 380 e 381 c.p.p., da individuarsi nella volontà del legislatore di negare il permesso di soggiorno ai soggetti socialmente pericolosi, esigenza del tutto assente rispetto ad un delitto posto a tutela della corretta gestione dei flussi migratori; sia, infine, sulla necessità di interpretare la causa ostativa secondo il canone di ragionevolezza, alla luce del quale risultava arbitrario negare la sanatoria a coloro che, pur essendone naturali destinatari (in quanto stranieri irregolari), avevano avuto la sfortuna di essere “pizzicati” per due volte dalle forze dell’ordine. Alcune sentenze, sebbene in maniera estremamente sintetica, evidenziavano anche l’incompatibilità tra la disciplina dettata dalla direttiva rimpatri e l’art. 14, comma 5 ter del T.U. imm., concludendo nel senso che, a partire dalla scadenza del termine per il recepimento della prima (24 dicembre 2010), il secondo non avrebbe più potuto dispiegare alcun effetto pregiudizievole nella sfera dei privati.
Il descritto contrasto richiedeva, per ben due volte, l’intervento dell’
Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. Anzitutto, con una serie di
ordinanze “gemelle” pronunciate il
25 febbraio 2011 (ord. nn. da 913 a 917), i Giudici Supremi rilevavano – coerentemente con la natura
cautelare del giudizio
a quo – che
le istanze di sospensione dei dinieghi basati sulla condanna ex art. 14 T.U. imm. dovevano essere necessariamente accolte dai GA, in quanto presentavano non solo il requisito del
periculum (alla luce delle
ripercussioni che l’immediata efficacia dei dinieghi avrebbe avuto per la libertà personale degli stranieri), ma anche quello del
fumus (in ragione della
complessità del nodo interpretativo relativo alla
selezione delle cause ostative alla sanatoria).
Successivamente, con la
sentenza n. 7 del 10 maggio 2011, l’Adunanza Plenaria decideva la questione nel merito,
annullando un diniego di sanatoria basato sulla condanna ex art. 14 T.U. imm. I giudici di Palazzo Spada, tuttavia, osservavano come
il descritto contrasto interpretativo – avente ad oggetto la
riconducibilità o meno della condanna in parola tra le
cause ostative alla sanatoria –
avesse perso rilevanza per la definizione del giudizio, dal momento che
l’incompatibilità tra la direttiva rimpatri e il delitto di inottemperanza all’ordine di allontanamento – nel frattempo riconosciuta dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea con la sentenza
El Dridi –
obbligava i giudici nazionali, ivi compresi quelli amministrativi, a non applicare più la norma incriminatrice illegittima.
Nel dettaglio, dalla pronuncia dell’Adunanza Plenaria possono essere ricavate due fondamentali indicazioni:
1) l’illegittimità comunitaria dell’art. 14, comma 5 ter “ha prodotto l’abolizione del reato […] e ciò, a norma dell’art. 2 del codice penale, ha effetto retroattivo […]”: “tale retroattività non può non riverberare i propri effetti sui provvedimenti amministrativi negativi dell’emersione del lavoro irregolare, adottati sul presupposto della condanna per un fatto che non è più previsto come reato”. In altre parole, l’illegittimità del diniego di sanatoria deriva dal fatto che è venuto meno, con effetto retroattivo, un suo presupposto, ossia la condanna ex art. 14 comma 5 ter.
2) ai fini dell’annullamento del diniego,
è irrilevante che il provvedimento sia stato adottato prima o dopo il 24 dicembre 2010 – momento in cui, scaduto il termine di recepimento della direttiva rimpatri, si è verificata l’
abolitio della norma incriminatrice contenuta nell’art. 14 T.U. imm. – e dunque sia viziato da
illegittimità originaria o sopravvenuta. Sul punto occorre segnalare che l’ordinanza di rimessione aveva prospettato la tesi della
non annullabilità del provvedimento viziato da illegittimità
sopravvenuta, invocando a tal fine il principio
tempus regit actum. Nel disattendere tale ricostruzione, il Consiglio di Stato osserva che “
il principio tempus regit actum esplica la propria efficacia allorché il rapporto cui l’atto inerisce sia irretrattabilmente definito, e, conseguentemente, diventi insensibile ai successivi mutamenti della normativa di riferimento. Tale circostanza – proseguono i giudici della Plenaria –
non si verifica ove, come nella specie, siano stati esperiti gli idonei rimedi giudiziari volti a contestare l’assetto prodotto dall’atto impugnato”.[8]
3. I successivi sviluppi: le circolari del 24 e 26 maggio 2011 e la circolare del 23 giugno 2011
Il
24 maggio 2011 – all’indomani della pronuncia dell’Adunanza Plenaria – il Ministero dell’Interno emanava una
nuova circolare – questa volta firmata dal direttore centrale per le politiche dell’immigrazione e dell’asilo,
Angelo Malandrino – attraverso la quale forniva alle amministrazioni territoriali chiare istruzioni per adeguare la gestione della sanatoria al
dictum dei giudici amministrativi.
Ricalcando l’impostazione del Consiglio di Stato, la circolare del 24 maggio prescriveva agli Sportelli Unici Immigrazione di tenere distinte due categorie di procedimenti di emersione: da un lato quelli non ancora definiti, perché “ancora non è stato notificato il decreto di diniego dell’emersione, o è ancora pendente il ricorso giurisdizionale o straordinario; ovvero deve ancora spirare il termine di 120 giorni dalla notifica, valido per l’impugnazione”; dall’altro lato quelli definiti, ossia i casi in cui “siano invece trascorsi i termini utili per l’impugnazione, ovvero sia divenuta definitiva una sentenza di rigetto dell’impugnazione medesima”.
Con riferimento alla prima categoria, la circolare invitava gli uffici territoriali a riesaminare d’ufficio le istanze, nell’esercizio del potere di autotutela amministrativa, e a concedere la sanatoria in tutti i casi in cui fosse risultato che l’unica causa ostativa all’accoglimento era rappresentata dalla condanna per il delitto di cui all’art. 14, comma 5 ter.
Quanto alle ipotesi rientranti nella seconda categoria, l’indicazione era nel senso di non intraprendere alcuna iniziativa, “salvo espressa richiesta dello straniero (per il quale i termini [di impugnazione del diniego, n.d.a.] non sarebbero comunque decorsi, giacché di regola non gli viene effettuata la notifica)”:in presenza di tale richiesta – concludeva la circolare – il permesso di soggiorno avrebbe potuto essere rilasciato, a seguito di valutazione caso per caso, e purché ovviamente non fossero riscontrate cause ostative di diversa natura.
La
scopo perseguito dalla circolare Malandrino, esplicitato in una delle sue premesse, era quello
evitare allo Stato italiano nuove, ed
economicamente gravose,
soccombenze processuali: l’Adunanza Plenaria, infatti, aveva
condannato la PA resistente a rifondere le spese del processo, addossandole la responsabilità di un contenzioso che avrebbe potuto essere evitato recependo la direttiva rimpatri entro i termini previsti. Proprio lo scopo perseguito dalla circolare in esame costituisce un’ottima
chiave di lettura del suo contenuto prescrittivo: il Ministero, in buona sostanza, ordinava agli Sportelli Unici Immigrazione di
concedere il permesso di soggiorno in tutti i casi in cui vi era il rischio di subire un ricorso ed una condanna. Tale rischio, all’evidenza, sussisteva tanto rispetto ai procedimenti non ancora definiti, quanto rispetto a quelli
definiti, dal momento che – come riconosciuto dalla stessa circolare nel passaggio sopra sottolineato –
in capo allo straniero perdurava la legittimazione a ricorrere, in ragione della mancata notifica del diniego nei suoi confronti[9].
La complessa vicenda, che aveva avuto inizio con la “circolare Manganelli” del marzo 2010, sembrava dunque giunta all’epilogo. Sennonché, il
26 maggio 2011, il Ministero dell’Interno decideva di fare
dietro front, e, con una
terza circolare a firma del direttore Malandrino,
sospendeva le indicazioni contenute in quella di appena due giorni precedente. L’unica motivazione che veniva addotta era la “
necessità di effettuare ulteriori e più approfondite valutazioni sull’argomento”.
Si giunge così al presente. La
circolare del 23 giugno 2011 – di accompagnamento al d.l. n. 89/2011, che come già visto recepisce la direttiva rimpatri nel nostro ordinamento – contiene le nuove istruzioni alle quali dovranno adeguarsi gli Sportelli Unici Immigrazione in relazione alla gestione della sanatoria.
Il documento ricalca la distinzione, già proposta dalla circolare del 24 maggio, tra procedimenti non ancora definiti e procedimenti definiti, e ribadisce che, in relazione ai primi, le amministrazioni territoriali potranno riesaminare d’ufficio le istanze, accogliendole nei casi in cui non risultino cause ostative diverse dalla condanna ex art. 14, co. 5 ter T.U. imm. È in relazione ai procedimenti già definiti che la nuova circolare si discosta sensibilmente dal quella del 24 maggio: il riesame degli stessi, infatti, viene ora subordinato ad una apposita istanza proveniente – invece che dallo straniero interessato – esclusivamente dal datore di lavoro.
Tale opzione, evidentemente finalizzata a sfoltire il numero dei procedimenti definiti che potranno essere riaperti, suscita perplessità non solo in punto di diritto – come verrà illustrato infra nel par. 4. – ma ancora prima sul versante della ragionevolezza.
È infatti verosimile che, divenuto inoppugnabile il diniego di sanatoria, molti datori di lavoro si siano procurati aliunde la manodopera di cui avevano bisogno, e pertanto ora non abbiano più interesse a presentare l’istanza di riapertura del procedimento: con la conseguenza che saranno gli stessi stranieri a pagare le negligenze dello Stato italiano, ricadendo nella clandestinità a causa del ritardato recepimento della direttiva rimpatri. Non solo. L’esperienza – e in particolar modo quella in materia di immigrazione – insegna che le regole irrazionali sono inevitabilmente fonte di illegalità, perché costringono i loro destinatari ad eluderle, al fine di non vedere conculcati i propri diritti. Infatti all’indomani della “sanatoria per colf e badanti” – irragionevolmente limitata a tali categorie di lavoratori, mentre era nota a tutti la gravissima situazione degli stranieri impiegati “in nero”, ad esempio nei settori dell’edilizia e dell’agricoltura – era fiorito un mercato di falsi datori di lavoro che offrivano assunzioni in cambio di elevate somme di denaro: ebbene, non vi è dubbio che la circolare del 23 giugno, attribuendo proprio al datore di lavoro – e solo a lui – il potere di riattivare la procedura, offra ai disonesti una nuova occasione di arricchirsi sulle spalle degli stranieri.
4. I possibili rimedi giurisdizionali (cenni)
Chi scrive – pur consapevole delle proprie limitate forze nel campo del diritto amministrativo puro – ritiene che l’impalcatura giuridica sulla quale si regge la circolare del 23 giugno presenti almeno due punti vulnerabili.
Anzitutto occorre ricordare che, di regola, il provvedimento che nega l’accesso alla sanatoria non viene notificato allo straniero interessato, bensì soltanto al suo datore di lavoro. Ne consegue che, per molti stranieri, i termini di l’impugnazione del provvedimento negativo non hanno mai iniziato a decorrere: del resto, come pure si ricorderà, era proprio il timore di una pioggia di ricorsi da parte di tali soggetti che aveva indotto il Ministero a conferire loro la facoltà di chiedere il riesame della pratica (circolare del 24 maggio). Molti stranieri, in definitiva, risultano ancora legittimati a chiedere al TAR l’annullamento del diniego, nonché la condanna della PA a riesaminare la pratica, sulla base dello stesso vizio di illegittimità riscontrato dall’Adunanza Plenaria nella sentenza n. 7 del 2011: vale a dire la sopravvenuta mancanza di un presupposto del diniego, essendo la condanna per il delitto di inottemperanza venuta meno, ai sensi dell’art. 2, co. 2 c.p., con effetto ex tunc.
Le considerazioni appena svolte non solo paiono suffragate da autorevole dottrina
[10], ma – è bene sottolinearlo –
non sono contraddette dalla sentenza n. 7/2011 dell’Adunanza Plenaria. È vero, infatti, che i giudici amministrativi distinguono i rapporti ancora
sub judice da quelli
irretrattabilmente definiti; ma è altrettanto vero che – come visto sopra – tale distinzione viene sviluppata al solo fine di
delimitare l’operatività dell’invalidità
sopravvenuta.
Non vi è invece alcun riferimento, nella pronuncia,
alla legittimazione a ricorrere in capo allo straniero cui l’atto negativo non sia stato notificato: con la conseguenza che non paiono sussistere ostacoli all’
applicazione dei principi generali, cristallizzati nell’art. 41 del Codice del processo amministrativo, secondo cui il termine per impugnare decorre dalla notifica o dalla piena conoscenza del provvedimento.
La soluzione appena prospettata, tuttavia, non pare del tutto soddisfacente. Anzitutto perché costringe gli stranieri a farsi carico dei costi e dei rischi di un ricorso giurisdizionale. In secondo luogo perché non offre alcuna tutela rispetto ai procedimenti realmente definiti, in particolare quelli in cui il ricorso avverso il diniego sia stato rigettato con sentenza passata in giudicato. Infine perché comporta l’intasamento dei processi amministrativi ed espone lo Stato italiano a numerose condanne al pagamento delle spese.
Pare allora auspicabile percorrere una diversa via, ossia la diretta impugnazione della circolare del 23 giugno 2011, chiedendone l’annullamento per eccesso di potere. La caducazione della circolare costringerebbe infatti il Ministero ad adottarne una nuova, ovviamente immune dal citato vizio: risultato che potrebbe essere ottenuto, semplicemente, ritornando alla disciplina contenuta nella circolare del 24 maggio 2011, che come si ricorderà concedeva allo straniero interessato il potere di chiedere il riesame della pratica di emersione definita.
Occorre, a questo punto, soffermare brevemente l’attenzione sulle modalità di impugnazione della circolare; nonché sui sintomi dell’eccesso di potere che potrebbero essere invocati nel ricorso.
La circolare può essere impugnata o
da sola oppure
congiuntamente all’atto applicativo, vale a dire insieme ad un provvedimento di diniego che adottato in base alle sue prescrizioni. La
prima soluzione, invero, è oggetto di controversia in giurisprudenza
[11], e comunque – anche volendo seguire l’orientamento che la ritiene percorribile
[12] – comporta per il ricorrente l’onere di dimostrare che la circolare è
immediatamente lesiva della sua posizione soggettiva, prova che potrebbe in concreto risultare alquanto difficoltosa. La
seconda soluzione pare pertanto più agevole, ma occorre evidenziare che reca con se due corollari: da un lato, “
essendo generalmente la circolare emanata da un organo di vertice in sede centrale, si verifica uno spostamento della competenza dal TAR periferico al TAR centrale (Lazio)”[13]; dall’altro lato, è necessario che il ricorrente
sia ancora in termini per impugnare il provvedimento attuativo. In altre parole, l’impugnazione della circolare richiede che un soggetto – ancora legittimato ad impugnare il diniego individuale – si faccia carico di impugnare
anche la circolare, il fine di ottenere una
decisione favorevole che estenda i propri effetti erga omnes, costringendo il Ministero ad adottare nuove istruzioni per le PA territoriali.
Quanto al problema della prova dell’eccesso di potere,sembrano prima facie sussistere le seguenti figure sintomatiche di tale vizio:
a) l’ingiustizia grave e manifesta[14]: la circolare del 23 giugno sottrae il potere di riattivare la procedura al diretto interessato, il quale pertanto si trova di fronte all’alternativa tra
rintracciare il datore di lavoro – il quale potrebbe aver trovato, nel frattempo, altra manodopera, e quindi non essere più disponibile all’assunzione –, ovvero
subire le conseguenze della negligenza dello Stato italiano nel recepimento della direttiva rimpatri, con tutte le gravissime ripercussioni –
in primis, come visto, per la libertà personale
[15] – derivanti dalla definitiva acquisizione dello
status di clandestino;
b) l’illogicità manifesta[16]: sottraendo il potere di
riattivare la procedura ad un soggetto che conserva la legittimazione ad
impugnare il diniego, non si fa altro che optare, tra i possibili rimedi ad una situazione illegittima, a favore di
quello più oneroso per l’erario e per il celere funzionamento della giustizia, ossia il ricorso giurisdizionale;
c) la contraddittorietà[17]: è evidente che, nel caso in esame, non è possibile individuare una
ragionevole giustificazione alla base del trasferimento del potere di riattivare la procedura dallo straniero (circolare del 24 maggio) al datore di lavoro (circolare del 23 giugno).
[1] Al dibattito in parola si è dato ampio spazio in questa
Rivista, sia sul versante dei contributi dottrinali, sia con riferimento agli orientamenti giurisprudenziali. Per una ricca rassegna, cfr., in
questa Rivista, la sottosezione
immigrazione, all’interno dell'area tematica
società.
[3] L’illegittimità comunitaria delle norme incriminatrici ricade – secondo dottrina e giurisprudenza – nella disciplina di cui all’art. 2, co. 2 c.p., la cui locuzione “legge posteriore” deve essere interpretata come comprensiva delle
fonti sovranazionali direttamente efficaci nell’ordinamento italiano, con conseguente retroattività illimitata del
jus superveniens favorevole. Con specifico riferimento alla norma incriminatrice contenuta nell’art. 14, comma 5
ter, cfr. Viganò F. – Masera L.,
Addio art. 14, in
questa Rivista; in giurisprudenza, v.
l’informazione provvisoria della I sez. penale della Cassazione relativa alla camera di consiglio del 28 marzo 2011, nonché le prime ordinanze di revoca del giudicato
ex art. 673 c.p.p., tutte in
questa Rivista (
Trib. Bari, 10 maggio 2011;
Trib. di Ravenna, 5 maggio 2011;
Trib. Milano 29 aprile 2011;
Trib. Bologna 16 marzo 2011)
[6] Occorre evidenziare che tra gli effetti della domanda di sanatoria – la quale poteva essere inoltrata soltanto dall’1 al 30 settembre 2009 – vi era la
sospensione dei procedimenti penali a carico dello straniero per gli illeciti in materia di immigrazione: pertanto le uniche
condanne ex art. 14, comma 5
ter che possono venire in rilievo in relazione alla procedura di emersione sono quelle che,
al momento della domanda, erano
già maturate. E’ per tali ragioni che, come anticipato, sono
irrilevanti nel presente lavoro i profili di
diritto intertemporale derivanti dalla
sostituzione del precedente delitto
ex art. 14, comma 5
ter con la figura inserita nel medesimo commadal
d.l. n. 89 del 2011.
[7] L’accompagnamento coattivo alla frontiera, quale modalità esecutiva dell’espulsione, ed il trattenimento nei CIE (all’epoca CPT), sono stati espressamente qualificati come misure restrittive della libertà personale – e non solo della libertà di circolazione – dalla nota sentenza costituzionale n. 105 del 2001, che pertanto ha ritenuto ad essi applicabile la disciplina di cui all’art. 13 Cost.
[8] Nel capoverso immediatamente successivo la motivazione prosegue: “
Non diversamente da quanto accade a seguito dell’accoglimento della questione incidentale di legittimità costituzionale […] è da ritenere che le disposizioni espunte dall’ordinamento per effetto della diretta applicabilità di norme comunitarie non possano più essere oggetto di applicazione, anche indiretta, nella definizione di rapporti ancora sub judice
”. Tali considerazioni sembrano circoscrivere ulteriormente il fenomeno dell’invalidità sopravvenuta, specificando che non solo il rapporto dev’essere ancora
sub judice, ma anche che lo
jus superveniens deve consistere nella dichiarazione di
illegittimità costituzionale o comunitaria della disciplina di riferimento. Si tratta di un’impostazione che trova riscontri nella giurisprudenza e nella dottrina amministrative, cfr. Caringella,
Manuale di diritto amministrativo, II ed., 2010, Dike editrice, 1230 ss.
[9] L’art. 41 del Codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104 /2010) prevede infatti che i termini per l’impugnazione del provvedimento decorrano dalla “notificazione, comunicazione o piena conoscenza” dell’atto. Sul punto si tornerà
infra, al par. 4
[10] Cfr. Casetta,
Manuale di diritto amministrativo, XII ed., 2010, Giuffrè, p. 814, secondo il quale “
L’inoppugnabilità del provvedimento può dunque realizzarsi in tempi diversi a seconda dei soggetti considerati e delle forme di comunicazione del provvedimento ad essi riferibili, situazione questa che confligge con l’esigenza di consolidamento degli effetti degli atti amministrativi posti alla base del termine breve di decadenza per impugnare”.
[11] L’orientamento contrario è espresso dalle Sezioni Unite della Cassazione (cfr., da ultimo, Cass. Sez. Un., 2 novembre 2007, n. 23031), secondo le quali si tratterebbe sempre di “
atti meramente interni della pubblica amministrazione, i quali, contenendo istruzioni, ordini di servizio, direttive impartite dalle autorità amministrative centrali o gerarchicamente superiori agli enti o organi periferici o subordinati, esauriscono la loro portata ed efficacia giuridica nei rapporti tra i suddetti organismi ed i loro funzionari. Le circolari amministrative, quindi, non possono spiegare alcun effetto giuridico nei confronti di soggetti estranei all'amministrazione, né acquistare efficacia vincolante per quest'ultima, essendo destinate esclusivamente ad esercitare una funzione direttiva nei confronti degli uffici dipendenti […]”.
[12] Caringella,
Manuale, cit., p. 500
[13] Cons. Stato, sez. VI, 27 giugno 2006, n. 4110
.
[14] Tale figura “
si differenzia dalla disparità di trattamento in quanto, mentre quest’ultima sull’uguaglianza e l’imparzialità e comporta che più soggetti siano trattati in modo discriminatorio da una PA, l’ingiustizia manifesta costituisce violazione soprattutto del principio di equità ed è configurabile nei confronti di un solo soggetto, senza che venga in gioco il confronto con la posizione di altri soggetti. Tale figura sintomatica va inficiare, quindi, la validità di quegli atti che, sebbene non discriminatori – perché non contrastanti con atti opposti emessi nei confronti di soggetti che si trovano nella stessa situazione – sono, tuttavia, espressione di grave iniquità” (Caringella,
Manuale, cit. p. 1220)
[15] V.
supra, par. 1, alla nota n. 7 e nel testo.
[16] Tale sintomo “c
onsiste nel contrasto logico insanabile sussistente in un atto amministrativo” (Caringella,
Manuale, cit., 1221).
[17] La contraddittorietà “
sussiste quando sia riscontrabile un contrasto fra più manifestazioni di volontà della stessa Pubblica Amministrazione nell’esercizio del medesimo potere: si tratterebbe di un indice di perplessità non risolte, di valutazioni tra loro incompatibili, le cui diversità non risulta giustificabile in base al principio della coerenza logica” (Caringella,
Manuale, cit., 1220).